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Giustizia. Politica. Cultura. La corruzione delle parole

Gian Carlo Caselli il . Cultura, Diritti, Giustizia, Politica, Società

L’uso distorto e strumentale delle parole è una costante nella nostra storia, una specie di fil rouge che lega molte vicende (soprattutto giudiziarie) degli ultimi cinquant’anni, fino ai giorni nostri.

Partiamo dal fatto incontestabile che in democrazia non può esservi dubbio sul “primato della politica”. Vale a dire che spetta alla politica, e ad essa soltanto, operare le scelte finalizzate al buon governo. Nessun altro può arrogarsi questa funzione. Meno che mai la magistratura. Il fatto è che proprio alla magistratura, e alle forze dell’ordine, sono stati delegati a ripetizione, negli ultimi 50 anni,  gravi problemi che la politica non ha voluto o saputo affrontare o risolvere.

Quando la politica se la cava con la delega

È successo per:

– la mafia (con una legislazione perennemente “del giorno dopo”, piena zeppa di bis, ter, quater, ecc., inseriti per colmare buchi o voragini che non disturbavano prima che un qualche “fattaccio” criminale ci risvegliasse di brutto);

– il terrorismo brigatista (almeno nella fase iniziale segnato da ambiguità se non contiguità, scandite con slogan tipo il demenziale “né con lo Stato né con le Br” o l’indulgente “compagni che sbagliano”);

– il terrorismo nero e stragista (con la sequela di tranelli e depistaggi che hanno ostacolato le indagini);

– la corruzione (Tangentopoli – preannunziata dagli scandali Italcasse, Lockheed e Petroli – fin dal 1992 gridava vendetta, cioè postulava una legge anticorruzione finalmente efficace, che è arrivata  solo nel  2019 con la cosiddetta “spazzacorrotti”);

– la sicurezza sui posti di lavoro (dove si è giunti al punto di affidare impropriamente ai magistrati la terrificante alternativa tra la vita e il lavoro dei dipendenti dell’ILVA di Taranto…);

– l’evasione fiscale, dove la delega iniziale è stata poi sterilizzata, cancellando nel 2001 la legge del 1992 nota come “manette agli evasori”;

– la sicurezza agroalimentare; la tutela del territorio, dell’ambiente e della salute;

– la bioetica (si ricordino da ultimo le recenti drammatiche cronache riguardanti il “signor Mario”, nome di fantasia di un  tetraplegico di Ancona).

Attenzione, però. Delega sì, e ripetuta, ma sempre con una riserva: una specie di “asticella” da non oltrepassare, non scritta ma ben ferma. Perché oltrepassandola si toccano certi interessi “forti”, che non ci stanno. E reagiscono come il cane di Pavlov.

Quel che dà veramente fastidio – a qualcuno gli dà persino l’orticaria – è la “troppa” indipendenza della magistratura, la mancanza di “misura”, di senso del limite (riecco l’asticella). Al punto – per  esempio – che se un magistrato si occupa di un politico accusato di collusione con la mafia o di fatti corruttivi, si sostiene  che a fare politica non è più il politico; a far politica… è il magistrato!

Ed ecco l’accusa di “politicizzazione”. Un artifizio verbale che è diventato un cavallo di battaglia lanciato a campo aperto per delegittimare e squalificare i magistrati che, adempiendo i loro doveri, vanno oltre la cosiddetta “asticella”. Ma con questi sistemi siamo all’acqua che va verso l’alto, siamo all’assurdo.

Gli artifizi verbali

All’accusa di “politicizzazione” si affianca quella di “giustizialismo”. Prendiamo un vocabolario della lingua italiana di qualche anno fa e cerchiamo la parola “giustizialismo”. La troveremo, ma scopriremmo che era riferita esclusivamente alla politica argentina del presidente Juan Domingo Peron. Niente che riguardasse la giustizia, men che mai quella italiana. Dunque una parola letteralmente sconosciuta nel lessico giudiziario, che viene poi callidamente e cinicamente inventata con la precisa  finalità mediatica di fondare il dibattito sulla giustizia su una sorta di “ verità rovesciata”, dove fare giustizia senza privilegi per nessuno sarebbe appunto “giustizialismo”. Con il corollario di una ripetizione assillante che alla fine fa sembrare veri anche i falsi  grossolani.

Chi accusa gli altri di “giustizialismo” quasi automaticamente attribuisce a sé medesimo la patente di “garantista”: difensore instancabile di ogni diritto, vero o presunto, pronto a denunziare lo scandalo di qualunque violazione, vera o presunta, specie se a opera di magistrati. Nobile programma, purché ci si riferisca al garantismo giusto, perché di garantismi (spesso all’insaputa dei  sedicenti garantisti) ve n’è più d’uno. E il fatto di non distinguere si risolve ancora una volta in un inganno verbale.

C’è infatti il garantismo classico, secondo il quale le garanzie o sono veicolo di uguaglianza o si degradano a strumento di sopraffazione e privilegio. Ma c’è anche un garantismo strumentale, diretto a depotenziare la magistratura, che si vorrebbe disarmata di fronte al potere economico e politico. Parallelo a quest’ultimo è il garantismo selettivo, che gradua le regole in base allo status sociale dell’imputato.

Temo che molti di coloro che si autoproclamano garantisti DOC, sentendosi così autorizzati a scovare in ogni dove eretici giustizialisti da mettere alla gogna, si trincerino dietro il termine garantismo tout court per nascondere la realtà fattuale di ispirarsi a declinazioni che sono la negazione del vero autentico garantismo. Ancora una volta si gioca con le parole.

La tendenza a costruire una realtà virtuale

Dunque c’è un problema di radicalismo verbale, cioè di ridurre tutto a slogan propagandistici grossolani e suggestivi. Un problema che va inquadrato nel persistente tentativo (prassi ampiamente diffusa nel nostro Paese, anche se non esclusiva) di snaturare la parola, di piegare i concetti fino a svuotarli di significato per utilizzali a proprio uso e consumo.

Con la tendenza a costruire una realtà virtuale, sulla quale imporre le proprie scelte e persino l’esercizio del potere. Una tendenza che vuole farci vivere in un clima di “grandi illusioni”. Ma non illusioni nel senso di speranze eluse. Illusioni come trucco da prestigiatori, alchimie per i gonzi. Cose false (o deformate) contrabbandate per vere (o verosimili): da accettare senza fiatare; per chi osa discutere, ostracismo assicurato.

Sono in particolare i percorsi di legalità ad essere inquinati da questo fenomeno che potremmo definire “sterminio della significazione”.

Tutto comincia quando si pone – per certi “interessi” – il problema di superare lo scoglio del consenso guadagnato dalla magistratura tra il 1992 e il 1994 con le inchieste di “Tangentopoli” e “Mafiopoli”, che dimostravano come la legge cominciasse a poter essere davvero uguale per tutti.

Per far ingoiare all’opinione pubblica la polpetta avvelenata dell’attacco ai magistrati (allora popolarissimi) onde sottrarsi ai loro controlli, era necessario inventarsi qualcosa. Ed ecco un bel po’ di trucchi da illusionista, bufale che colpiscono l’immaginazione e che il trapanamento mediatico ossessivo finisce per trasformare – ripeto –  in “verità rovesciate”. Ecco un catalogo di parole (da aggiungere a politicizzazione, giustizialismo, garantismo “di comodo”) inventate per essere usate strumentalmente contro i magistrati fastidiosi: cancro da estirpare, invasori di campo, toghe rosse, golpisti, brigatisti, eversori, associati a delinquere, pazzi, antropologicamente diversi dal resto della razza umana…

Nasce anche da questo stillicidio organizzato di bufale la caduta verticale di credibilità e fiducia che affligge oggi – pesantemente –  la magistratura. Una caduta cui ha pure contribuito la sempre verde strategia (una delle peggiori anomalie italiane) dell’ostilità verso la  stessa giurisdizione, del rifiuto del processo e della sua gestione come momento di scontro praticato da inquisiti eccellenti (o comunque soggetti forti) in una sorta di impropria riedizione del cosiddetto “processo di rottura”, ora utilizzato da pezzi di Stato, anziché da sue antitesi, come le Brigate rosse negli anni ‘70/80.

In sostanza una strategia di difesa dal processo in luogo della difesa nel processo, che non ha  nulla a che vedere con un sistema di stretta legalità, ma mira a far intendere – truccando parole e concetti – che questo o quel magistrato non è altro che un “nemico”. Una strategia che contempla una curiosa variante: l’accusa di giustizia ad orologeria, tarata cioè sulle cadenze elettorali per favorire una delle fazioni in lizza, quella prediletta dal magistrato “politicizzato” (e rieccoci….).

No vax. Attenti, come cattivi maestri abbiamo già dato

Passando all’oggi, spostiamo la nostra attenzione sui “no vax” più arrabbiati e rumorosi (eufemismo…).

Sono storicamente verificabili i guasti che possono causare coloro che, a dispetto delle loro illusioni, sono incapaci di analisi veramente approfondite e insofferenti ad ogni valutazione realistica dei dati di fatto. Finendo, alla fine, per essere condizionati da una impazienza avventuristica, rimanendo travolti da una mescolanza di radicalismo verbale – anche qui – e nullismo  pratico che oscura la realtà.

Mi riferisco proprio a  coloro  che  propagandano  le proprie  convinzioni soggettive “ no vax”  accampando argomenti  (si fa per dire…) come la dittatura, il genocidio della shoah, il nazismo e le SS (acronimo di “siero sperimentale”!). Senza per altro dimenticare quei personaggi eccellenti che intervenendo nel dibattito non sempre sembrano rendersi conto di giocare col fuoco. Sul versante dei “cattivi maestri” abbiamo già dato. Con guasti che si possono dimenticare solo con una patologica amnesia, anche  dell’etica.

PS – Chiudo con una ammissione… Sono un magistrato, in pensione è vero, ma ancora pervaso (ammalato?) di spirito corporativo: per quanto la professione mi ha dato e per quanto mi è costata in termini di impegno nel contrasto all’illegalità. Perciò, leggendo questo articolo non sarà male tenere conto anche di questo – chiamiamolo così –  limite di “corporativismo”. Che comunque confido non abbia troppo influito sulla serenità della mia esposizione.

* Fonte: Rocca n°01 – 1 gennaio 2022

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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