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Giustizia. Un po’ di chiarezza sui referendum/2

Gian Carlo Caselli * il . Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

Referendum sulla Giustizia. Sul numero 21 di Rocca (e anche su Libera Informazione) abbiamo esaminato quattro quesiti: sulla custodia cautelare; sull’incandidabilità di persone condannate; sul ruolo dei laici nei consigli giudiziari; sulle candidature dei magistrati al CSM. Ne restavano due, forse i più interessanti: quello sulla responsabilità civile diretta dei magistrati e quello sulla separazione delle carriere.

Separazione delle carriere

Chi prova fastidio anche per quel poco di giustizia che funziona o valuta gli interventi giudiziari col metro della convenienza di solito è “tifoso” di qualunque strategia che punti al controllo dell’ordine giudiziario mediante la riduzione dell’indipendenza della magistratura. Un leitmotiv di queste strategie è la “separazione delle carriere”. Di che si tratta? Di certo non lo si può capire leggendo il quesito referendario sul punto: esso infatti  consta di circa 1500 (dico 1500 !) parole che formano un astruso ginepraio, di lettura e compressione ostiche persino agli specialisti, figuriamoci per il cittadino comune chiamato a rispondere con un Si o con un NO. Cerchiamo dunque di procedere con ordine.

Si diventa magistrati mediante un concorso, superando alcune prove scritte e un esame orale. Vinto il concorso, si viene assegnati a un ufficio giudiziario, con funzioni di giudice o di Pm. La carriera degli uni e degli altri avviene in base alle stesse regole, applicate dal CSM. Dunque, in Italia (secondo il sistema disegnato dalla Costituzione) le carriere dei magistrati non sono separate.

Con la separazione ci sarebbero due concorsi diversi per giudici e Pm, due CSM diversi, due carriere diverse. Una riforma da qualcuno invocata come necessaria per un miglior funzionamento della giustizia. Per gli avvocati un cavallo di battaglia.

Quali le conseguenze della “riforma”? Carriere non separate significa che giudici e Pm condividono la stessa cultura della giurisdizione. Significa cioè che giudici e Pm devono ricercare la verità processuale sulla base di principi comuni inderogabili. Nel caso del processo penale: il contraddittorio fra le parti e il rispetto dei loro diritti nell’assunzione delle prove; l’osservanza delle regole stringenti stabilite per l’utilizzabilità delle prove; la necessità di prove certe per condannare (in dubio, pro reo…); la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva. In parole povere, il Pm non deve trasformarsi in un «super poliziotto», ma operare come magistrato intriso di cultura della giurisdizione.

Perché preferire un pm legato alla cultura della giurisdizione

Ferme restando le peculiarità delle funzioni del Pm (accusare) e del giudice (decidere), è evidente come l’ancoraggio del Pm alla cultura della giurisdizione sia, nel nostro sistema, una garanzia irrinunciabile, che con la separazione delle carriere sarebbe inevitabilmente travolta, proiettando il Pm in un’orbita diversa.

Quale? Le strade sono soltanto due.

La prima conduce all’istituzione di una casta ristretta di magistrati inquirenti, autonomi, non assoggettati ad alcun controllo esterno. Sarebbe però un monstrum inaccettabile, mai visto in nessuno stato democratico (paradossalmente proprio quel «partito dei Pm» giustamente aborrito proprio da chi sostiene la separazione delle carriere…).

L’altra strada porta, inesorabilmente, a modificare il rapporto di totale indipendenza rispetto al potere esecutivo che caratterizza il nostro ordinamento democratico e che in altri paesi molti ci invidiano. Tra ordine giudiziario ed esecutivo, infatti, non esiste un tertium dotato di autonomia. Se si esce dalla sfera della giurisdizione si finisce in quella del potere esecutivo. E ciò in base a un ragionamento di principio, non certo per un pregiudizio politico e men che meno per un arbitrario processo alle intenzioni di questa o quella maggioranza contingente.

Prova ne è che ovunque al mondo ci sia una qualche declinazione della separazione delle carriere, il Pm dipende dal potere esecutivo, di cui deve eseguire gli ordini o le direttive. Il Pm legato alla cultura della giurisdizione è invece un magistrato che ricerca la verità processuale, secondo scienza e coscienza, come «parte pubblica» soggetta soltanto alla legge e a nient’altro, neppure al ministro della Giustizia volta a volta  in carica.

… e indipendente dal potere esecutivo

Ma è proprio questo modello di magistrato indipendente che dà fastidio a chi non gradisce la giustizia uguale per tutti. Per cui, se la separazione delle carriere è incompatibile con tale modello, chiederla è contro l’interesse dei cittadini e della loro tutela giudiziaria imparziale.

Si obietta che la separazione fra giudici e Pm esiste in molti paesi. Vero, ma non si tratta mai di applicazioni drastiche e totalizzanti come si vorrebbe far credere. E comunque, va ribadito, separazione delle carriere significa, sempre e dovunque, possibilità per legge che il potere esecutivo piloti o indirizzi le indagini a suo piacimento. Per cui, separando le carriere, ci allineeremmo sì ad altri, ma verso il basso, rendendo un pessimo servizio ai cittadini italiani che ancora sperano in una giustizia uguale per tutti.

C’è anche un’altra considerazione da fare: fuori dai nostri confini, la politica di solito sa bonificarsi da sola neutralizzando le «mele marce» senza bisogno di processi penali. Purtroppo, invece, l’Italia è  ancora caratterizzata da una corruzione diffusa, da collusioni con la mafia, da malamministrazione nelle più svariate accezioni, da vicende oscure che coinvolgono pezzi della politica, oltretutto refrattaria a ogni forma di responsabilità extragiudiziaria.

Conviene che proprio questa politica riesca, grazie alla separazione delle carriere, a ordinare al Pm su che cosa indagare e che cosa invece lasciar correre? A chi fare terra bruciata intorno e a chi invece strizzare l’occhio? Sarebbe come aprire il pollaio alla volpe. Per l’Italia della legalità, un suicidio. Con il rischio che non si facciano più indagini sulla corruzione o sulla «zona grigia» della mafia, o sui misteri dei servizi deviati, o sugli abusi a opera delle forze di polizia. Qualcuno, che aspetta solo questo, potrebbe finalmente proclamare che la corruzione e le collusioni mafiose sono scomparse. Anzi, non sono mai esistite!

Altra cosa è la separazione delle funzioni

A questo punto, forse è superfluo dire che la separazione delle carriere non va confusa, come capita spesso, con la separazione delle funzioni. Differenziare Pm e giudici è una necessità, per ragioni sostanziali e formali. Essendo ovvie le differenze dei ruoli, occorre evitare commistioni improprie, reali o apparenti.

In altre parole, un Pm non può comparire il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale in cui ha esercitato per anni funzioni requirenti – e viceversa. E infatti il nostro ordinamento non lo consente. Il giudice o Pm che vuol cambiare funzione deve cambiare regione, oltre a superare una complessa serie di verifiche attitudinali.

Questa (ed è realtà operativa, ormai acquisita!) è la separazione delle funzioni, cosa tutt’affatto diversa dalla separazione delle carriere, la quale di fatto comporta che chi nasce Pm muore Pm, senza nessuna possibilità di passare al ruolo giudicante, e viceversa. Con il corollario, che abbiamo visto, di due concorsi e due CSM diversi.

Chi si batte per la separazione sostiene che i giudici non controllano con sufficiente rigore l’operato dei Pm perché sono colleghi, tant’è vero che… prendono insieme il caffè al bar. Questo «contubernio incestuoso» consentirebbe all’accusa di condizionare i giudici; solo uno «status» separato li liberebbe, arginando lo strapotere dei Pm.

Affermazione carica di suggestioni, ma sballata: se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione di carriera tra controllori e controllati, a essere separate dovrebbero essere piuttosto le carriere dei giudici, di cassazione, appello e primo grado…  Per coerenza  di «separazionismo» si dovrebbero dunque prevedere, alla fine, ben 4 diversi concorsi, 4 diversi Csm, 4 diverse carriere e via dividendo per 4 fra Pm, giudici di Tribunale, magistrati di appello e Cassazionisti! Un’assurdità, che inficia in radice la «filosofia» stessa  della separazione delle carriere.

Responsabilità civile diretta dei magistrati

Il quesito si nutre di un interrogativo ricorrente che è diventato come quegli slogan pubblicitari che puntato sulla ripetizione ossessiva per convincere. Perché –  ci si chiede – tutti pagano  gli errori commessi, meno che  i magistrati?

In realtà, slogan a parte, le cose non stanno così. I magistrati «pagano» se commettono reati  (responsabilità penale); «pagano» se violano il loro codice deontologico (responsabilità disciplinare, con sanzioni che arrivano fino alla radiazione, com’è avvenuto nel «caso Palamara»); «pagano» per i danni ingiusti provocati dalla loro attività. Quest’ultima è appunto la responsabilità civile, per la quale – in base alla normativa vigente – a risarcire è lo Stato, che poi si rivale sul magistrato con trattenute sullo stipendio. In questo modo lo stato offre ai cittadini una garanzia economica vera ed effettiva (come hanno ripetutamente confermato le Corti italiane ed internazionali).

Ora, è mera illusione far credere che il magistrato che sbaglia possa davvero risarcire di tasca sua il cittadino che si ritenga vittima di errore. Per la semplice ragione che il magistrato è un salariato dello Stato cui l’ordinamento preclude, giustamente,  fonti di guadagno diverse dalla sua retribuzione: per cui egli – nella stragrandissima maggioranza dei casi – non dispone di un patrimonio sufficiente a soddisfare le esigenze sottese al quesito referendario.

Mi sembra allora evidente che all’azione civile diretta e personale contro il magistrato si farebbe ricorso non per ottenere un effettivo risarcimento, ma per sfogare risentimenti e avversioni originate dallo svolgimento o dall’esito sfavorevole di un giudizio. Un’arma da brandire (non solo alla fine, ma anche nel corso dei giudizi) per influenzare e intimorire il giudice: della quale approfitterebbero soprattutto i «gentiluomini»,  usi a difendersi «dal» prima ancora che «nel» processo.

Un quesito che rischia di essere ingannevole

A questa considerazione di elementare buon senso se ne può aggiungere un’altra.

Ed è che spesso (se non sempre) si parla di «errore» dei giudici  in modo del tutto improprio. È la struttura stessa del processo, in quanto articolata su più gradi di giudizio, che può condurre a decisioni contrastanti se non opposte che inducono a parlare di errori. Ma se i vari gradi di giudizio fossero destinati semplicemente a essere la fotocopia l’uno dell’altro, non avrebbero alcun senso di esistere.

È chiaro allora che se un giudice smentisce l’impostazione del Pm, se in appello o in cassazione viene riformata la sentenza precedente  (per cui  la condanna diventa assoluzione o viceversa),  possiamo serenamente dire che quasi sempre si tratta non di un «errore» fonte di possibili responsabilità, com’è nella «vulgata» corrente, bensì di un effetto fisiologico, proprio di qualunque ordinamento che come il nostro sia caratterizzato da una pluralità di gradi di giudizio.

Può sembrare un paradosso, ma il pluralismo giudiziario con il corollario della possibile difformità di esiti (i cosiddetti  «errori», non tali  però in senso proprio) è segno di un sistema che funziona, attento alle sollecitazioni delle parti e capace di correggersi.

Concludendo. Il quesito referendario rischia di essere persino ingannevole, laddove promette l’impossibile, mentre finisce per inceppare un meccanismo che richiede ben altre riforme.

* Fonte: Rocca n°23 – 1 dicembre 2021

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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