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Giustizia. Un po’ di chiarezza sui referendum

Gian Carlo Caselli * il . Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

Dei sei referendum sulla giustizia si è parlato molto all’inizio, quando è stata lanciata la raccolta delle firme.

Poi toni enfatici e propagandistici dei promotori si sono via via affievoliti e l’interesse generale è diminuito. Salvo riaccendersi con l’adesione di personaggi a loro modo illustri: Luca Palamara, che la giustizia con il suo nefasto «Sistema» l’ha devastata mica male; oppure Salvatore Buzzi e Massimo Carminati (in arte «er cecato»), condannati in appello per «mafia capitale» che però non è mafia, i quali in ogni caso di giustizia dovrebbero intendersene, a modo loro, non poco.

Eppure dei referendum si deve parlare, se non altro per la rilevanza della posta in gioco. Se mai, va pure detto, la partita si giocherà fino alla fine, perché tutti i quesiti referendari dovranno superare il giudizio di ammissibilità della Corte costituzionale, passaggio che per alcuni di essi, realisticamente, appare piuttosto impervio.

Due anomalie

Da segnalare, innanzitutto, due anomalie. La prima concerne l’alleanza fra radicali e leghisti nella promozione dei referendum. Le battaglie dei primi sono quelle ipergarantiste di «Nessuno tocchi Caino», dell’antiproibizionismo, della difesa dei diritti LGBT, del sostegno all’eutanasia. Un mondo radicalmente opposto, incompatibile con quello dei  leghisti medi, «duri e puri». Inevitabile chiedersi quanto vi sia di abborracciato e strumentale nell’alleanza sui referendum.

L’altra anomalia riguarda il dato di fatto che il referendum è lo strumento tipico delle minoranze estranee al potere che vogliano abrogare leggi ritenute ingiuste. È anomalo, quindi che esso si trasformi in mezzo di pressione da parte di una forza politica che è al potere, com’è la Lega, parte integrante del governo Draghi.

Tanto più se si considera che il governo sulla strada delle riforme della giustizia si è già incamminato con progetti concreti, formalizzati con atti  presentati al parlamento e votati anche dalla Lega. Dunque, sembrerebbe che da parte dei leghisti possa esservi una certa noncuranza per la coerenza, intrecciata con una chiara predilezione per l’occasionalità.

I quesiti

Sia ben chiaro:  il valore che il referendum ha nel sistema democratico è innegabile, ci mancherebbe! E difatti qui si parla non del referendum in sé ma del concreto impiego di esso in casi specifici; ferma restando – va ribadito – la sua positiva rilevanza nel quadro della nostra democrazia.

La custodia cautelare

Veniamo dunque ai quesiti, cominciando da quello che si propone di riscrivere la disciplina della custodia cautelare, limitandola.

Scelta  di per sé discutibile (se si è disposti ad affrontare una pletora di raffiche automatiche, a colpi di  giustizialisti manettari e forcaioli); in ogni caso una scelta precisa che rientra nelle corde dei radicali, ma non altrettanto – si direbbe alla luce di certi proclami su «legge e ordine» – dei leghisti.

Tant’è vero che soltanto questi ultimi hanno cercato di contrastare in qualche modo una clamorosa obiezione che da più parti è stata manifestata con motivazioni robuste. In sintesi, la legge vigente elenca per le misure cautelari tre tipi di esigenze: pericolo di inquinamento delle prove; pericolo di fuga; pericolo di reiterazione di gravi delitti commessi con violenza.

Il quesito referendario è stato formulato in maniera tale che i potenziali autori seriali di gravi delitti, se non commessi con violenza, non potranno più essere assoggettati a misure cautelari motivando con la prognosi di ripetizione degli atti criminosi per cui si procede. Questa rilevante limitazione riguarda una fascia molto ampia di reati che provocano un sensibile allarme sociale: quelli contro la pubblica amministrazione, l’economia e il patrimonio, nonché quelli contro la libertà personale e sessuale (potrebbero beneficiarne, ad esempio, tutti gli stalking non violenti…).

Un risultato assolutamente improponibile, tant’è che Giulia Bongiorno (la mente giuridica dei leghisti) si è affrettata a sostenere che le tutele non sarebbero ridotte, in quanto al giudice – per applicare la misura cautelare – sarà sufficiente ravvisare nella condotta dello stalker elementi sintomatici di una personalità proclive al compimento di atti di violenza (così sul «Fatto quotidiano» del 28 agosto).

Un’interpretazione assai ardita del testo di legge riformato dal referendum, comunque ai limiti delle prova difficile se non impossibile. Se è questo che si vuole, c’è dunque il concreto pericolo che la riforma referendaria sia un boomerang, come del resto hanno denunziato magistrati, parlamentari (tra questi Mara Carfagna) e associazioni tipo «telefono rosa». E alla prima decisione giudiziaria di un certo rilievo che doverosamente applichi la nuova legge seguirà – c’è da giurarlo – un’ondata di malcontento  e indignazione generale contro la magistratura lassista. Magari alimentato proprio da coloro che hanno voluto il referendum! Un copione non insolito, anche se rasenta il teatro dell’assurdo…

Disposizioni sull’incandidabilità

Un altro quesito viene presentato e propagandato come indirizzato unicamente contro la norma – art. 11 del T.U. delle disposizioni  in materia di incandidabilità – che disciplina la sospensione (anche a seguito di condanna non definitiva per determinati reati) e la decadenza di diritto (a seguito di condanna definitiva) degli amministratori locali in condizione di incandidabilità.

In realtà il quesito referendario  colpisce l’intero  T.U. e quindi tutte le cariche elettive: Parlamento europeo, Camera,  Senato, Regioni, Province , Comuni e Circoscrizioni;  con effetti sui fondamentali meccanismi di «provvista» degli organi democratici e sugli equilibri costituzionali, donde seri dubbi sulla ammissibilità del quesito, anche per l’eterogeneità delle diposizioni del T.U. – In sostanza, e con licenza, si tratta di una sorta di pubblicità ingannevole, sintomo – in ogni caso – di qualità, sia culturale sia tecnico-giuridica, non proprio eccelsa.

I componenti laici dei consigli giudiziari

Poi c’è un quesito che per capirlo bene non basta la laurea in legge, ci vuole anche una buona specializzazione in materia di ordinamento giudiziario. È il quesito che riguarda le modalità di partecipazione dei componenti laici (avvocati e professori universitari) al Consiglio giudiziario, un CSM in sedicesimo che ha competenza su tutti magistrati del distretto della corte d’appello.

Con il quesito si vuole che i laici abbiano  la stessa competenza dei togati, vale a dire  una competenza piena e paritaria, non limitata – come oggi – alle materie organizzative, ma estesa anche alla formulazione dei pareri sulla professionalità dei magistrati. Tema assai delicato, in particolare sul versante dei laici-avvocati.

Si dice: ma gli avvocati ci sono già al CSM e proprio con questa competenza paritaria. Vero, ma anche per questo motivo essi devono sospendere ogni attività professionale per tutta la durata della consiliatura. Niente del genere invece nel caso del consiglio giudiziario modificato dal quesito referendario, sicché gli avvocati continuerebbero ad incontrare quotidianamente, nel loro lavoro, come controparti o decisori di cause da loro patrocinate, magistrati su cui hanno il potere di redigere pareri.

Ciò che – all’evidenza – può innescare un perverso clima di conflittualità e sospetti che potrebbero incidere negativamente sulla serenità delle determinazioni consiliari e dei magistrati destinatari dei pareri. Val la pena correre un simile rischio?

Passiamo al quesito che riguarda l’elezione dei componenti togati (i magistrati) del CSM.

Il proposito è ambizioso (contrastare le nefandezze del correntismo) e perciò richiederebbe un approccio  di spessore adeguato alla delicatezza e importanza del tema. Invece sembra di essere (senza offesa) alla sagra dei dilettanti.

Oggi per candidarsi al CSM occorre essere presentati da una lista di magistrati (da 25 a 50). La novità consiste tutta nella eliminazione di tale lista di  presentazione, per cui le candidature diventerebbero libere e individuali. Neppure Alice nel paese delle meraviglie arriverebbe però a pensare che ciò possa servire a cancellare le aggregazioni (siano esse di natura ideale, territoriale o peggio clientelare), perché in  un corpo elettorale di circa novemila persone ciò è semplicemente impossibile, è contro ogni realtà di funzionamento concreto di qualunque meccanismo elettorale.

Quindi siamo di fronte a uno specchietto per le allodole che non risolverebbe un bel niente. Di nuovo, propaganda ingannevole.

Alla prossima sugli altri due

Restano  da esaminare due quesiti referendari: quello sulla responsabilità civile diretta dei magistrati e quello sulla separazione delle carriere fra pubblici ministeri e magistrati giudicanti.

Due temi ricorrenti, presentati spesso con parole pompose precedute da luoghi comuni suggestivi ma fuorvianti. Del tipo: tutti pagano i loro errori meno i magistrati! – oppure, basta con questo contubernio incestuoso dei PM coi colleghi giudicanti (contubernio che di solito viene dimostrato allegando il fatto del caffè regolarmente preso insieme)!

Senonché sono temi che esigono e meritano un approfondimento proporzionale alla loro estrema importanza, non semplici banalità d’accatto. Ma  lo spazio di questo articolo è ormai esaurito, per cui su responsabilità e separazione dovremo tornare. Sempreché ovviamente  gli amici di «Rocca» siano di questo parere…

* Fonte: Rocca n°21 – 1 novembre 2021

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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