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Ergastolo ostativo: rispettare la Convenzione, la Costituzione e le sentenze delle Corti

Ignazio Juan Patrone * il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Politica

Sommario: 1. Ergastolo, ostativo e non: di cosa parliamo? – 2. Prima venne la Corte Europea… – 3. …poi arrivò la sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale sul permesso premio… – 4. …è quindi arrivata l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale sulla liberazione condizionale – 5. …e la parola è passata ora al legislatore.

1. Ergastolo, ostativo e non: di cosa parliamo?

A partire dalla fine del 2015, una volta finiti gli effetti della sentenza Torregiani della CEDU e dei provvedimenti assunti per tamponare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, in Italia la popolazione detenuta è cresciuta costantemente, ciò in assenza di una parallela crescita della criminalità, anche grave, che al contrario, secondo i dati del Ministero dell’interno  è in costante diminuzione così come il dato degli stessi nuovi ingressi in carcere .

Se guardiamo ad un arco di tempo più ampio, vediamo che al 31 dicembre 2005 le persone detenute cui era stata inflitta una pena superiore ai 10 anni di carcere erano il 23,3% dei detenuti con una condanna definitiva. Alla fine del 2019 tale percentuale è salita al 26,9% e, secondo i dati del Garante nazionale, esse erano 8.929 al 24 giugno 2021.

Un aumento ancora maggiore si è avuto nelle condanne alla pena dell’ergastolo.  La percentuale dei “fine pena: mai”, rispetto al totale dei detenuti condannati, è salita dal 3,3% al 4,3%. In numero assoluto, nel 2003 gli ergastolani avevano superato di poco il migliaio di unità, arrivando a 1.068, nel 2004 erano 1.161, nel 2009 erano 1.224, aumentati nel 2014 a 1.604 per arrivare nel giugno 2021 addirittura a 1.780 condannati alla pena perpetua , un numero presumibilmente destinato a salire per la recente riforma del rito abbreviato introdotta dall’art. 1, comma 1, lett. a), della legge 12 aprile 2019, n. 33, che ha escluso per i reati commessi dalla data della sua entrata in vigore (20 aprile 2019) l’applicabilità della riduzione di pena prevista da tale rito ai delitti puniti con l’ergastolo (art. 438 co. 1 bis c.p.p.).

Va al contrario rilevato che è costante, nello stesso arco di tempo, la linea tendenziale del calo della grave criminalità in Italia che indica – secondo le statistiche dell’Istat e del Ministero  dell’interno, una progressiva riduzione nel numero dei reati, a partire dal delitto di omicidio volontario, il reato per il quale più frequentemente viene irrogata la pena perpetua: gli omicidi dolosi sono stati 1.773 nel 1990, 746 nel 2000 e 318 nel 2019, una diminuzione assoluta e percentuale impressionante:  quindi, mentre il tasso di omicidi è diminuito le condanne alla pena perpetua sono aumentate in modo assai rilevante.

Gli ergastolani in regime ostativo sono oggi circa il 70% del totale dei condannati alla pena perpetua: parliamo infatti, secondo i dati dell’ultimo Rapporto annuale al Parlamento del Garante nazionale che sono riferiti al 28 aprile 2020, di 1.259 detenuti che stanno scontando una pena che – salve le ipotesi di cui all’art. 58-ter OP – non presenta possibilità di reintegrazione sociale, a fronte di un numero totale alla stessa data di 1.779 ergastolani: è un numero che dovrebbe far riflettere in quanto dimostrativo del fatto che l’ergastolo, e in particolare quello scontato in regime ex art. 4-bis OP, non è sicuramente una pena in disuso né di marginale applicazione, anzi se ne va allargando il campo di applicazione. Una conseguenza di ciò è l’aumento del numero dei decessi di ergastolani in carcere (11 nel 2020) e dell’età media dei detenuti, tra i quali le persone con 70 anni e più erano 350 nel 2005 e 851 nel 2020 secondo i dati elaborati dal Dipartimento dell’amministrazione  penitenziaria.

2. Prima venne la Corte Europea…

La Corte Europea, nella causa Marcello Viola Italia (n. 2) (ricorso n. 77633/16), sentenza del 13 giugno 2019, non avrebbe potuto essere più chiara: l’ergastolo ostativo ex art. 4-bis OP, nella parte in cui stabilisce una presunzione assoluta di permanente pericolosità per l’ergastolano non collaborante, non è compatibile con la Convenzione Europea per la violazione dell’art. 3: la violazione assume in Italia carattere strutturale: il legislatore deve intervenire se vuole evitare condanne in serie [1].

Non sembra che nel dibattito sviluppatosi dopo la sentenza Viola – e dopo l’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021 – lo specifico aspetto della violazione “strutturale” della Convenzione, con tutte le sue potenziali conseguenze, sia stato tenuto nel debito conto.

Come purtroppo è noto, il nostro Paese ha già dovuto risolvere problemi nascenti da sentenze della Corte di Strasburgo e da questa qualificati come strutturali: mi limito a ricordare Bottazzi c. Italia, (ricorso n. 34884/97) del 28 luglio 1999, Grande Chambre, che diede l’avvio alla nota giurisprudenza seriale in tema di irragionevole durata dei nostri processi e ci costrinse alla introduzione del rimedio rappresentato dalla legge Pinto; ed ancora, in tema di sovraffollamento carcerario e di modalità inumane di esecuzione delle pene, la sentenza Torreggiani c. Italia dell’8 gennaio 2013, che ci costrinse ad approntare in tutta fretta misure atte a diminuire il numero delle persone ristrette in carcere. In tutti questi casi l’accertamento da parte della Corte di un problema seriale o strutturale ha comportato oneri economici, discussioni infinite, interventi tardivi ed accumulo di casi davanti alla Corte europea ed alle giurisdizioni nazionali.

Ciò senza voler considerare un effetto, a volte latente, dato dalla perdita di prestigio del sistema di giustizia che tali violazioni seriali comportano agli occhi dei nostri Partners, con conseguenze, specie in materia di cooperazione penale, che riguardano l’affidabilità dei provvedimenti nazionali, le eccezioni delle difese in materia di mandato di arresto europeo, il grado di preventiva fiducia da parte delle autorità nazionali. Sarebbe meglio perciò evitare il ripetersi di simili situazioni.

La sentenza Viola non è stata un fulmine a ciel sereno: essa si è inserita perfettamente in una lunga serie di pronunce di contenuto analogo, riguardanti diversi Stati membri del Consiglio d’Europa, tutte ampiamente citate nella motivazione . Si tratta dunque di una giurisprudenza consolidata, come tale meritevole di considerazione nel diritto interno anche ai sensi dell’art. 117 Cost. Ci dobbiamo perciò domandare se una legge che, pur accogliendo l’invito del Giudice di Strasburgo, limitasse in concreto l’accesso effettivo ai benefici, ad esempio aumentando la durata della pena da scontare prima di poter presentare l’istanza, ovvero ponendo a carico del condannato oneri probatori  estremamente difficili se non impossibili da adempiere, non ci esporrebbe ad una nuova serie di ricorsi e probabilmente di condanne, con tutto ciò che ne deriverebbe in termini di disfunzioni e di perdita di credibilità del nostro sistema penale.

3. …poi arrivò la sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale sul permesso premio… 

La sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; ed ha dichiarato in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo OP.

La decisione è una delle più commentate (ed importanti) nei tempi recenti (sul sito giurcost.org si contano, alla data di pubblicazione di questa nota, ben tredici commenti di autorevoli costituzionalisti e penalisti) e chi scrive non ha né le capacità né l’intenzione di aggiungere qualcosa di nuovo e di utile in proposito. Ai modesti fini del presente scritto importa però rilevare che nella sentenza è chiaramente detto che la presunzione assoluta di perdurante pericolosità del condannato in mancanza di collaborazione viola gli arti. 3 e 27 della Costituzione, in quanto contraria ai principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, dovendo le esigenze sottese alla prevenzione dei delitti di criminalità organizzata e di terrorismo essere soddisfatte attraverso “l’acquisizione di stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale)”. L’incostituzionalità del vigente regime ostativo era già stata dichiarata nel 2019 e, dopo quella del permesso premio, era inevitabile che sarebbe arrivata presto o tardi la questione della liberazione condizionale.

4. …è quindi arrivata l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale sulla liberazione condizionale

Anche questo provvedimento ha dato luogo ad una lunga serie di commenti, sia sotto il profilo dell’aderenza dello stesso ai compiti assegnati dalla Costituzione alla Corte, sia nel merito del decisum della Corte. Ci asterremo perciò anche qui dall’aggiungere un nostro parere, salvo precisare, ai fini che interessano, che a nostro avviso:

– L’incostituzionalità della vigente disciplina dell’ergastolo ex art. 4-bis O.P., ostativa alla concessione dei benefici salvo collaborazione, è già stata dichiarata sia dalla citata sentenza n. 253 del 2019 che dall’ordinanza n. 97 del 2021 e sul punto non si potrà tornare:

– Il legislatore, che già era in mora a seguito della sentenza Viola c. Italia, ora ha un termine perentorio per adempiere, il 10 maggio 2022:

– la futura disciplina dovrà necessariamente avere un contenuto vincolato all’adempimento di quanto è stato deciso dalla Corte Europea e dalla Corte costituzionale:

Mentre un mancato intervento normativo avrà la conseguenza di condurre inevitabilmente alla dichiarazione di incostituzionalità della disciplina vigente, con conseguente effetto anche sui ricorsi pendenti a Strasburgo, non è del tutto chiaro cosa accadrebbe qualora le due Corti dovessero riscontare, ciascuna nell’ambito delle propria competenza, che le disposizioni che verranno introdotte non adempiono (o non adempiono pienamente) a quanto deciso: ma mentre la Corte Europea, presumibilmente, in applicazione dei principi sottesi alla sua giurisprudenza per le violazioni strutturali, non farebbe altro che condannare l’Italia (quasi) automaticamente nel caso di ricorsi di persone che scontano l’ergastolo e che non sono collaboranti, la Corte costituzionale sembra essersi assegnata un compito ulteriore, quello di “verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte (ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018)” (n. 11 del Considerato in diritto): un inciso questo che, salvo errore, non era contenuto nelle due ordinanze di incostituzionalità differita citate. Si profila perciò un possibile scrutinio di legittimità costituzionale sollevato dalla Corte davanti a se stessa, ciò che in questi termini forse sarebbe un inedito.

5. …e la parola è passata ora al legislatore

Afferma la Corte costituzionale nell’ordinanza n. 97 che “anche nel presente caso, ed anzi in questo a maggior ragione, la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino“.

La Corte costituzionale ha poi affermato a chiare lettere anche che “spetta in primo luogo al legislatore ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata”: equilibrio tra argomenti in campo che, senza poter essere qui troppo analitici, discendono sia dalle disarmonie createsi tra le diverse misure premiali dopo la sentenza della Corte n. 253 del 2019, che ha dichiarato incostituzionale il divieto di concedere per i delitti di cui all’art. 4-bis i permessi premio, sia soprattutto dal fatto che l’art. 4-bis è diventato ormai un contenitore di delitti dal legislatore ritenuti tutti tanto gravi da meritare un regime penitenziario differenziato, ma che risulta privo di qualsiasi coerenza sotto entrambi i profili di politica criminale e di politica penitenziaria, visto che comprende reati di criminalità organizzata e terrorismo insieme a reati contro la pubblica amministrazione, reati contro la libertà sessuale ed altri ancora.

La disciplina che verrà introdotta dovrà essere perciò rispettosa delle pronunce delle due Corti, nel senso che dovrà regolare l’acquisizione dei “congrui e specifici elementi” che escludano i collegamenti, senza rendere però eccessivamente difficile l’esercizio del diritto sino a renderlo illusorio. Il passaggio certamente più delicato concerne dunque le modalità con le quali, in concreto, potrà essere regolato il superamento della presunzione di pericolosità, che da assoluta dovrà diventare relativa. Un aggravio probatorio che venga posto a carico del richiedente che giunga sino a chiedergli di provare il fatto negativo della mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, renderebbe solo nominale la modifica della presunzione di pericolosità, senza contare che la prova negativa di un fatto non può mai essere richiesta, incombendo semmai all’autorità provare la mancanza dei requisiti richiesti per accedere ad un beneficio. Una soluzione che non tenesse conto di queste basilari regole di diritto esporrebbe la nuova disciplina ad un nuovo giudizio di costituzionalità ed aprirebbe la strada ad ulteriori ricorsi alla CtEDU, il che sarebbe assolutamente da evitare.

Sono in discussione alla Commissione giustizia della Camera tre proposte di legge, ora unificate in un testo base, che, esaminate nel loro complesso, sembrano più orientate a salvaguardare le ragioni che hanno fondato il regime speciale originario di cui all’art. 4-bis dell’OP piuttosto che alla considerazione delle chiare e vincolanti indicazioni provenienti dalle due Corti.

Il testo base contiene in qualche passaggio una riscrittura addirittura peggiorativa della disciplina vigente ovvero poco comprensibile, mentre altri punti appaiono meritevoli di positiva considerazione.

Anzitutto nel testo del comma 1-bis si vorrebbe far scomparire la disciplina delle situazioni di collaborazione impossibile e inesigibile che verrebbero dunque assimilate alla collaborazione possibile ma non prestata. Qui occorre ricordare che la disciplina vigente – che è il frutto di due interventi della Corte costituzionale – si attaglia a situazioni che continuerebbero ad esistere e che paiono meritevoli di specifica considerazione perché le differenze tra chi non può collaborare e chi non vuole collaborare sono sotto ogni riguardo significative. Il risultato è un non necessario ed ingiustificato aggravamento delle condizioni del condannato che non possa collaborare in modo.

Viene escluso ogni riferimento all’obbligo di indicare le ragioni della mancata collaborazione, soluzione che si condivide nella misura in cui tale indicazione rappresentava una condizione necessaria per l’accesso ai benefici, anziché un possibile elemento valutativo come indicato dalla stessa Corte costituzionale: far dipendere la concessione del beneficio dalla esternazione delle ragioni del silenzio significherebbe far rientrare dalla finestra la collaborazione necessaria, in quanto è chiaro che tutte le ragioni che si fondano sul timore di ritorsioni a carico proprio o dei familiari, ovvero sulla volontà di non autoincriminarsi per ulteriori delitti, non possono essere esplicitate a meno che non si chieda di dire proprio ciò che il detenuto ha scelto di non rivelare per non mettere in pericolo sé stesso o il suo nucleo familiare.

Per come è scritto, l’onere a carico del condannato quanto alla “specifica” allegazione di “congrui, specifici elementi concreti”, che consentano di escludere con certezza l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata assomiglia molto ad un inammissibile onere di prova negativa: poco chiari sono i riferimenti al “contesto nel quale il reato è stato commesso”, alle “circostanze personali e ambientali”, espressioni che sembrano voler indicare una sorta di sospetto a vita, anche dopo molti anni trascorsi in carcere, a carico del condannato, creando quasi un inammissibile “tipo d’autore”; espressioni troppo vaghe e poco tecniche lascerebbero il campo ad interpretazioni le più varie da parte degli uffici di sorveglianza, ciò che invece nella delicata materia andrebbe in ogni modo evitato.

Va visto con favore l’abbandono, nel testo base oggi in discussione, della proposta sulla competenza unica nazionale in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma, che diventerebbe così il giudice unico della pena per i reati più gravi di mafia essendo già competente per i provvedimenti di sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis e per i benefici per i collaboratori di giustizia. L’originaria proposta si giustificava con l’esigenza di avere interpretazioni il più possibile conformi da parte degli uffici di sorveglianza: essa però potrà essere garantita da un sistema di raccolta delle informazioni che sia massimamente razionale ed uniforme, ciò che nel testo non è: intanto non sembra del tutto logico che vengano acquisite informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica non del luogo di detenzione, come è oggi, ma di quello del luogo ove ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado, ciò perché la sentenza di primo grado ben potrebbe essere stata di assoluzione, la condotta criminale essersi manifestata in più luoghi collocati in diversi distretti: se si intende far riferimento al luogo (o ai luoghi) di commissione dei fatti oggetto di condanna sarebbe meglio scriverlo chiaramente.

Vi è una certa confusione nel ruolo degli uffici del PM chiamati ad esprimere pareri che, al tempo stesso, sembrerebbero autorizzati anche a formulare istanze istruttorie, atti questi che presuppongono la qualità di parte del procedimento e non quella di organo consultivo.

Del tutto ingiustificati ( ed anche poco razionali) appaiono i nuovi termini di espiazione della pena che si vorrebbero introdurre agli artt. 58-quater OP e 176 e 177 codice penale.

Le proposte modifiche sembrano infatti non tenere in alcun conto i più recenti orientamenti della Corte costituzionale, in particolare la sentenza n. 32 del 2020 la quale: a) ha dichiarato illegittime le disposizioni della legge cd spazzacorrotti nella parte le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale;  b) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso. Ciò in quanto, come ha scritto la Corte, “allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato…  In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes… che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato”.

Ora, in base ai principi affermati dalla Corte, le modifiche che si vogliono introdurre quanto alla misura delle pene da scontare prima di accedere ai benefici, o vengono applicate ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della nuova legge, o ricadrebbero in una inevitabile incostituzionalità.

Come ricorda la Corte costituzionale in motivazione, disposizioni come quelle che si vorrebbero introdurre rischiano anche di venire censurate anche dalla CtEDU la quale “ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice».

Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero liberi – ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti – di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato. Ove il divieto di retroattività non operasse in tali ipotesi – conclude la Corte – l’art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).

***

La presente nota riproduce, in parte, il contenuto delle Osservazioni depositate da Antigone Onlus quale amicus curiae nel giudizio davanti alla Corte costituzionale che ha portato alla pronuncia dell’ordinanza n. 97 del 2021, e di una memoria inviata ai deputati componenti la Commissione giustizia della Camera in occasione della discussione dei progetti di legge oggi unificati nel testo base di cui si dirà in prosieguo. Ovviamente la responsabilità di questo testo è solo di chi scrive. 

[1] La motivazione della Corte è di limpida chiarezza: “141. La presente causa mette in luce un problema strutturale che fa sì che un certo numero di ricorsi sono attualmente pendenti dinanzi alla Corte. In prospettiva, essa potrebbe dare luogo alla presentazione di molti altri ricorsi relativi alla stessa problematica. 142. La Corte ribadisce che la presunzione inconfutabile di pericolosità, prevista in materia di ergastolo per i reati di cui all’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, derivante dall’assenza di collaborazione con la giustizia, rischia di privare i condannati per tali reati di qualsiasi prospettiva di liberazione e della possibilità di ottenere un riesame della pena. 143. La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della «dissociazione» dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente. 144. …la possibilità di riesame della reclusione perpetua implica la possibilità per il condannato di chiedere una liberazione, ma non di ottenere necessariamente la scarcerazione se continua a costituire un pericolo per la società.”

* Comitato scientifico dell’Associazione Antigone Onlus 

Fonte: Giustizia Insieme

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