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Un’altra idea di sicurezza: politiche per le vittime (seconda parte)

Umberto Ambrosoli * il . Cultura, Diritti, Giustizia, Memoria, Società

Questione Giustizia pubblica in sequenza giornaliera tra loro, il testo degli interventi di Marco Bouchard e di Umberto Ambrosoli svolti a Pesaro il 23 ottobre 2021 nell’ambito del Convegno Parole di Giustizia, su un tema di cui finalmente si occupa anche la riforma del processo penale, quello della giustizia riparativa.

Alcuni anni fa, alla Biennale dell’Arte di Venezia, il padiglione del Sudafrica era straordinariamente affascinante e incredibilmente doloroso. Vi era un’esposizione di fotografie che ritraevano in alcuni casi gli autori delle violenze, in altri le vittime nel luogo dove pochi anni addietro avevano posto in essere i primi la loro azione e dove l’avevano subita i secondi. Azione che era descritta in poche righe e che era idonea a produrre sensazioni mai meno impegnative della nausea. Eppure quelle persone erano tornate lì, paradossalmente libere dal legame che avevano con quel luogo fisico.

Si è chiesto se la memoria collettiva debba essere oggetto di un dovere e possa essere strumento di un fattore di sicurezza. Nella consapevolezza di quanto sia proteiforme il concetto di sicurezza, la risposta è affermativa. La memoria è quel riconoscimento, non necessariamente unico, ma complessivamente comune di un fatto richiamato dalla storia alla sua utilità nel presente. Ricordare è una parola dalla bellissima etimologia, perché significa “riportare al cuore”, ciò che evoca la sfera emozionale. Siccome però il significato etimologico di questo verbo radica in parole che si sono formate prima che la scienza ci aiutasse a comprendere la funzione del cuore, dobbiamo avere a mente che il muscolo cardiaco, in passato, era identificato come la sede dell’intelligenza, della capacità cioè anche di relazionarsi con gli altri e con i loro pensieri. E allora “riportare al cuore” significa -forse- anche rielaborare qualcosa del passato per un’utilità attuale.

E’ stato ricordato nell’introduzione della dottoressa Cecchi un periodo complicato della storia del nostro paese: un’amnistia (1946) diversa per presupposti, condizioni e ragioni, da quella ce ha permesso in Sudafrica di superare un dramma terrificante. La nostra amnistia non è stato un fare i conti con il passato e non avendo fatto quel genere di lavoro essa ha lasciato aperto il pensiero in molti di aver diritto ad una sorta rivalsa per un’evoluzione della Storia che non aveva portato all’esito che essi auspicavano. Buona parte del terrorismo stragista ha questa origine: «Con la Liberazione ci hanno fatto perdere qualcosa che era una nostra aspettativa, e allora noi ce la riconquistiamo». Sappiamo che il rapporto tra il terrorismo stragista e altre manifestazioni di terrorismo che ci sono state nel nostro paese ha una porzione, solo una porzione, di causa-effetto; inoltre la cultura sottostante era comunque condizionata in una qualche misura da quel sentimento. Allora sì, ricordare in termini collettivi il significato di un’esperienza passata può essere uno strumento per costruire una concordanza oggi su che cosa debba essere relegato solo ed esclusivamente al passato e, come importanza dell’esperienza per la nostra identità, non debba essere oggetto di riattualizzazione.

E’ importante riflettere, in prospettiva di vittima e sicurezza, sulla parola “compimento”: a partire dal Sudafrica e ad arrivare a quello che è successo negli anni di piombo nel nostro paese, fino -ancora- ad arrivare alle esperienze individuali delle vittime di ogni tempo.

Compimento di una frattura.

In Giappone hanno elaborato una forma artistica molto bella. Quando un oggetto di ceramica si rompe, esso viene ricomposto con delle giunture d’oro: lo scopo di questa tecnica non è quello di nascondere la rottura, ma di enfatizzarla, incorporandola nell’estetica dell’oggetto riparato che in tal modo diventa, dal punto di vista artistico, “migliore del nuovo”. Rispetto all’oggetto originario, infatti, quello riparato è più prezioso, sia per la presenza dell’oro, sia per la sua unicità, sia per l’essere passato tra le mani sapienti di un artigiano del Kintsugi.

Compimento per la vittima, compimento per il reo. Compimento rispetto a ciò che è stato frattura: della fiducia reciproca come del patto sociale.

Tuttavia il compimento è ostacolato dalla cultura retributiva, che con le sue radici profondissime nella storia (la troviamo anche nelle sacre scritture, non senza contraddizioni) è dominante ancora nel nostro presente. Una cultura che produce tra le sue conseguenze quella di chiudere la vittima nel suo ruolo di vittima e di non farla uscire. Così come fa con il reo. Per tutta la vita il reo è identificato come reo e la vittima come vittima. Di più, la cultura retributiva consacra la condizione di minorità della vittima e non il compimento della vicenda, cioè la capacità di riconoscere anche una prospettiva di valore in ciò che è successo.

La cultura retributiva è quella che, poi, genera da un lato la panpenalizzazione (ogni condotta difficile da affrontare viene facilmente elevata a disvalore penale) e il ricorso legislativo facile, per mere ragioni di consenso, a inasprimento di pene. E’ quella che alimenta un’aspettativa, l’applicazione della pena nella sua severità, e estremizza il senso stesso della relazione tra la vittima e la l’autore del reato. Di più: sovraespone la vittima e trasforma il processo penale, in tutti i suoi segmenti, nel luogo di protezione della vittima. Il processo diviene così anche il contesto che alimenta un’attenzione pubblica all’insoddisfazione della vittima: la quale esce dall’Aula dove si è celebrato il processo e si ritrova davanti a microfoni e a domande sull’assoluzione o su una pena asserita come lieve.

Ovvio, il processo è necessario per accertare un fatto, è presupposto fondamentale per poter elaborare la verità, anche nella sua dimensione straordinariamente, doverosamente e liberamente soggettiva. Ma se il processo porta poi all’esclusione del condannato dalla società come pena nella pena, …abbiamo fatto strike. Ed è quello che succede con quel paradigma culturale di fondo.

E così la pena non contribuisce neppure ad aiutare la vittima a vedere che ciò che è successo può essere superato anche per la società. Se non è capace di vederlo la società, come può vederlo la vittima? Un superamento non formato dal passare del tempo, ma dal fatto che chi ha sbagliato, chi ha posto in essere la condotta errata, chi ha commesso il reato si è evoluto su quell’esperienza e ha saputo e mettere il suo pezzo d’oro per ricomporre la frattura che lui stesso ha creato. Vedere che l’altra parte è stata capace di evolvere può aiutare la vittima a fare altrettanto.

Quelle fotografie esposte alla biennale di Venezia provocavano un certo senso di invidia per la capacità anche di mettere in pubblico, non per ragioni di riscoperta della verità, ma di confronto soggettivo con i fatti che erano successi, un dolore dal quale è ovvio che una vittima non si può riprendere, ma che può superare. Può cioè utilizzarlo come tassello fondamentale della propria identità per andare con quel dolore oltre.

Questo vale sia per la vittima che per l’imputato se si è capaci di uscire dalla dimensione culturale meramente retributiva che troppo spesso, anche con i più semplici gesti, ciascuno alimenta.

* Avvocato del Foro di Milano

Fonte: Questione Giustizia

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Un’altra idea di sicurezza: politiche per le vittime (prima parte)

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Parole di Giustizia – Un’altra idea di sicurezza: politiche per le vittime

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