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Vent’anni senza Maria Grazia Cutuli. Intervista al fratello Mario

Alessandro Rocca il . Informazione, Memoria, Società

I sogni di Maria Grazia Cutuli, giovane giornalista libera e indipendente, così come la ricordano i colleghi, si interrompono bruscamente il 19 novembre di 20 anni fa, mentre si trovava nei pressi di Sarobi, sulla strada che da Jalalabad porta a Kabul, a circa 40 chilometri dalla capitale afghana.

Il convoglio sul quale viaggiava viene fermato e gli occupanti della sua auto vengono fatti scendere. Con lei vengono assassinati l’inviato di El Mundo Julio Fuentes e due corrispondenti dell’agenzia Reuters, l’australiano Harry Burton e l’afghano Azizullah Haidari.

Il suo ultimo articolo, pubblicato lo stesso giorno dal Corriere della Sera, riguardava la presenza di un deposito di gas nervino situato nella base operativa di Osama bin Laden. Cercava la verità. E ce la stava raccontando.

Abbiamo chiesto a Mario Cutuli, il fratello di Maria Grazia di raccontarci sua sorella.

Carlo Verdelli, all’epoca dei fatti vicedirettore del Corriere della Sera, nella serie Ossi di Seppia su Raiplay dice “Soprattutto non sappiamo e continueremo a non sapere, perchè la vita non ci da risposte, non ci da un’altra possibilità di vita parallela. Non sappiamo esattamente che cosa sarebbe stato per molti giovani, sembra una cosa cinica, ma non lo è, innamorarsi del giornalismo e credere nel giornalismo attraverso l’esempio di una persona come Maria Grazia”. Mario, partendo da questa affermazione vuoi provare a dirci cosa direbbe Maria Grazia ai giovani che si affacciano alla professione del giornalista animati dalla passione per la ricerca della verità?

Lei amava molto parlare con i giovani soprattutto quando si trovava in visita nelle scuole ed era molto emozionata da questi incontri dove metteva in atto tutte le sue doti empatiche e anche i ragazzi rimanevano suggestionati dai suoi racconti, da quello che lei provava a traferire loro attraverso la sua professione. Ora non so cosa avrebbe detto lei di preciso, ma sicuramente un tema che ha caratterizzato tutta la sua carriera è quello dei diritti umani. E su questo c’era il desiderio di infondere consapevolezza nelle nuove generazioni, su temi che la storia sta dimostrando, e dimostrava già allora di mettere in discussione. Quindi la sua attenzione principale era entrare in sintonia con i fatti, ma allo stesso tempo con le persone che raccontavano i fatti. Questa attenzione estrema al racconto si riflette sulla vita delle persone. Lascia dei segnali evidenti e crea una traccia nell’informazione per capire nel profondo le tragedie.

A proposito di attenzione ai giovani. La presa di Kabul da parte dei talebani mette a rischio la sopravvivenza della “Scuola Blu” sita a Kush Rod a 15 km da Herat e intitolata nel 2011 alla sua memoria. Cosa ci puoi dire sul destino della scuola e delle studentesse?

Le notizie non sono buone e sono un po’ sconfortanti perché sappiamo tutti il caos in cui è caduto il paese. La scuola ha apparentemente proseguito le sue lezioni e comunque ha lavorato per quasi 10 anni in maniera regolare, seguendo i programmi del ministero dell’istruzione afghana. In un periodo in cui l’Afghanistan aveva sperato e si era illuso di poter ricostruire il proprio futuro su basi più giuste.

All’indomani della ritirata degli americani la scuola ha continuato a funzionare, ma con una serie di limitazioni che di fatto ne hanno reso il lavoro quasi nullo. Ad esempio il corpo docente maschile non poteva andare quando c’erano le bambine. Ed è stato limitato molto anche il range di età di accesso alla scuola. Prima si andava dai 6 ai 18 anni. Con l’avvento dei nuovi talebani hanno limitato dai 6 ai 12 anni. In questi anni la scuola ha contribuito alla formazione di una buona parte delle nuove generazioni della provincia di Herat, ed è stata vista come un’eccellenza che riusciva ad affrancare le popolazioni Afghane dal loro destino. E quindi anche come un elemento di modernità all’interno del Paese. Oggi non sappiamo che fine farà, probabilmente toglieranno il nome perché potrebbe dare fastidio quello di una donna per una scuola. Non ci facciamo molte illusioni, ma era una cosa che sapevamo già dall’inizio, fin da quando avevamo deciso di costruirla, nessuno ci poteva dare certezze sul futuro di quei territori.

Poi la storia ci ha dimostrato anche in una maniera abbastanza tragica cosa fosse possibile. Nessuno si aspettava le modalità con cui è avvenuto questo ritiro degli americani.

Maria Grazia con il suo lavoro si soffermava molto sugli effetti dei conflitti sulla popolazione civile e sui diritti negati.

Una caratteristica che faceva trasparire tutto il suo desiderio di entrare in contatto con la sofferenza dell’umanità o comunque di cercare di comprenderla e di raccontarla. In quei momenti lei non era presa dai fatti, ma da come questi si riflettevano sulla vita concreta delle persone. Quindi da come la violenza, la guerra, la sopraffazione generassero disperazione, dolore, emarginazione. E sono tanti i racconti che faceva sia a noi in famiglia che attraverso i suoi articoli.
Dipingeva dei ritratti molto emozionanti, era un modo di restituire dignità a chi era stata tolta proprio dalla guerra o da situazioni di conflitto e di crisi.

Ricordo un suo racconto bello che mi ha lasciato e che ha segnato una traccia. Di quando aveva visitato una scuola coranica in una madrassa femminile a Peshavar in Pakistan. Dopo aver visto la struttura, come funzionava e avere un po’ visitato i locali si è soffermata a parlare con le ragazze di questa scuola e rimase particolarmente colpita da una di queste bambine che alla fine volle andare a salutarla, le strinse la mano e Maria Grazia descrisse l’espressione di questa bambina come un misto di paura e ammirazione nei confronti suoi e del lavoro che faceva. Maria Grazia le chiese che lavoro avrebbe voluto fare da grande. La bambina ci pensò un attimo e attraverso quello sguardo comunicò tantissimo e poi disse la giornalista. In quel momento però quella bambina stava facendo una scelta molto difficile, vista la condizione delle donne in Pakistan. Attraverso momenti come questo lei poi doveva far filtrare delle tragedie.

Quest’anno all’interno della giornata dedicata a Maria Grazia avete deciso di dare un premio a Patrick Zaki per il suo articolo sulla minoranza copta per cui è sotto processo in Egitto.

La decisione di dare il premio a Patrick Zaki è stata presa insieme ai giornalisti del Corriere della Sera, mi sembra una cosa molto significativa in questo momento. In realtà è tutto un po’ lo sforzo che abbiamo fatto in questi anni di lavoro che c’è stato con la Fondazione, con i vari soci, con le persone che ci sono state vicine, con le manifestazioni che sono state fatte su di lei.   Lo sforzo è stato quello di proseguire un po’ sulla scia di quello che era stata un’esperienza professionale, ma anche umana di Maria Grazia e quindi, nel caso di Zaki, ovviamente è evidente come le affinità ideali ci siano fra quello che purtroppo sta subendo lui e i diritti negati in determinati Paesi del mondo.

Abbiamo sempre cercato di trasmettere questo attraverso il ricordo della sua immagine, attraverso la sua esperienza, un po’ quelli che erano i suoi lavori e i suoi principi. Primo fra tutti l’onestà che considerava fra le cose più importanti della professione e poi cercare in modo libero di andare a fondo, di andare a ricercare le ragioni ultime di certe crisi o di certi conflitti. Con la Fondazione abbiamo portato avanti una serie di valori secondo la sua visione del mondo, e allo stesso modo posso dire che la mia famiglia si è espressa contro la pena di morte, quando nel 2005 abbiamo saputo che uno del commando che aveva partecipato alla sua uccisione era stato condannato a morte in Afghanistan. Proprio mia madre in quel caso, anche stupendoci, è riuscita a fare una dichiarazione molto lucida ribadendo che nulla, niente, nessuno, ci restituirà Maria Grazia, che ci rimettevamo alla giustizia per quello che poteva fare, ma che comunque non credevamo che altra violenza potesse avere un significato.

Che insegnamento ci ha lasciato Maria Grazia?

Un insegnamento che proviene dalla sua modalità di lavoro, dai principi che lei considerava alla base di questa professione. Uno dei fondamentali è quello della ricerca. Lei non si fermava alla superficie delle cose, ma cercava sempre di scavare più a fondo. Anche attraverso le sue stesse parole descriveva questa smania di inseguire la notizia non come schizofrenia del cronista ma come desiderio di scavare un po’ per cercare di vedere cosa si nascondesse realmente dietro i fatti.

Questa sua ricerca della verità oggi più che mai è particolarmente importante perché da un po’ di tempo a questa parte la sicurezza di poter accedere facilmente a delle notizie verificabili non è più scontata. Il fenomeno deprecabile delle fake news si è diffuso in modo veramente preoccupante. Al tempo di Maria Grazia non eravamo ancora a questi livelli, ma già si affacciavano queste problematiche legate a un mondo dell’informazione sempre più veloce, più superficiale, fatto di slogan. L’unico modo di sopravvivere è quello, come al solito, di approfondire, prepararsi, studiare e anche instaurare un contatto umano con la professione. Non lasciare che si raffreddi, che diventi solo una carriera come qualsiasi altra.

Fonte: Premio Roberto Morrione

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