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Processo Lucano. Quando la professoressa scende dalla cattedra per entrare in campo

Nando dalla Chiesa il . Giustizia, Migranti, Politica, Società

I care. Giovanna Procacci è una sociologa milanese sensibile ai temi dell’immigrazione che quattro anni fa, d’istinto, avvertì il processo Lucano come una ferita per la sua coscienza.

Da quando i giornali pubblicarono la notizia delle indagini, dei capi di imputazione, dell’arresto, e ventilarono le dimensioni delle pene, scelse di interessarsene. E decise che avrebbe dedicato buona parte del suo tempo, per decenni riservato agli studi e all’insegnamento, a quel che stava accadendo tra Riace e Locri. Fu dunque tra le fondatrici del “Comitato Undici Giugno” (la data annunciata di avvio del processo).

Poi nel giugno del ’19 prese l’aereo per Lamezia per presenziare all’apertura del dibattimento a Locri. La caterva di imputazioni appariva già in parte smontata, ma quel che era giunto alla corte la faceva ugualmente pensare a un evento destinato a inscriversi nella storia giudiziaria e civile italiana. Tipo, come è stato ricordato ultimamente, il processo degli anni cinquanta contro Danilo Dolci.

“E capii rapidamente che era inutile cercarne il senso, perché quando un processo è politico il senso non ce l’ha”. Conobbe Mimmo Lucano, conobbe i suoi collaboratori, respirò l’aria che gravava sui protagonisti, e decise che sarebbe tornata regolarmente a Riace per dovere civile. La prima volta che rientrò a Milano fece un dettagliato intervento in pubblico per raccontare ai suoi concittadini quel che stava accadendo a mille chilometri di distanza. Con indignazione, con incredulità.

Poi tornò al processo tutte le volta che ha potuto. “Ho contato undici volte, come se fossi un’inviata speciale di me stessa, perché non mi pagava nessuno. Bisognava pagare i due biglietti aerei, affittare l’auto perché da quelle parti è impossibile fare senza, poi prendere una stanza, a prezzo bassissimo intendiamoci, perché si trattava di fare un’offerta alla casa di turismo solidale organizzata dal gruppo di Lucano. E naturalmente tutto il resto. Ho fatto quello che noi sociologi chiamiamo osservazione partecipante. Non ero certo in prima linea, ma nel clima, nella comunità che si interrogava su come difendere le sue ragioni, questo sì, ci stavo. Sono andata anche quando non c’erano le udienze e non c’era nemmeno Lucano, per vedere e capire il luogo, le persone. Almeno nei limiti imposti dal lock-down, perché se no i viaggi sarebbero stati molti di più, indipendentemente dai costi”.

I care. Racconta la combattiva sociologa che per due anni il processo è come vissuto in una bolla.

Lei aveva la sensazione di vivere qualcosa di speciale ma per la stampa “non valeva la pena”. Nella Calabria cenerentola per l’informazione “se andava bene c’erano due giornalisti locali, bravi fra l’altro. Così ho iniziato a scrivere corrispondenze per Pressenza.com, un’agenzia di stampa del partito umanista. Solo alla fine si è incominciato a vedere a Riace un po’ di giornalisti. Certo, sono stata un’inviata di parte”.

Che però, almeno, informava sulle cose che accadevano. Che faceva i suoi resoconti senza condirli di giudizi. Asciutti e al limite dell’incredibile. Fino alla sentenza.

L’ultima corrispondenza che ho ricevuto, il 26 settembre, diceva: “Che cosa succede al processo contro Mimmo Lucano? La difesa restituisce il suo senso all’azione pubblica dell’ex-sindaco”.

Vi venivano definite “scioccanti” le richieste dell’accusa, che sfioravano gli otto anni. Vi si poteva leggere un rapporto a misura di informazione vera, cioè introvabile altrove, sulle arringhe difensive di Giuliano Pisapia e Andrea Daqua, gli avvocati di Lucano.

Alla fine la corte ha quasi raddoppiato le richieste dell’accusa, perché siamo pur sempre la patria del diritto. Ora vedremo se gli avvocati che si dannano nei convegni per i diritti dei mafiosi terranno seminari appassionati sulla sentenza di Locri.

Ma questa è un’altra storia.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 04/10/2021

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