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Magistratura, politica e società. Conversazione con Armando Spataro

Laura Reale, Michela Petrini il . Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

L’intervista che segue è una conversazione con Armando Spataro sui temi dell’essere magistrato oggi, del senso della partecipazione alla vita associativa, del ruolo del Consiglio Superiore della Magistratura in questo difficile momento storico.

Armando Spataro è entrato in magistratura nel 1975 e ha svolto funzioni di Pubblico Ministero per tutto l’arco della sua carriera, ad eccezione del quadriennio luglio 1998/luglio 2002, in cui è stato collocato fuori ruolo come componente eletto del CSM. Ha rivestito funzioni di Sostituto e di Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, poi di Procuratore della Repubblica a Torino fino al 16 dicembre 2018, allorchè ha cessato l’esercizio delle funzioni di magistrato per raggiunti limiti di età. E’ stato dirigente dell’Associazione Nazionale Magistrati. Attualmente è docente a contratto, presso la Università Statale di Milano, in “Politiche della Sicurezza e dell’Intelligence”. Le pagine che seguono contengono anche riferimenti a valutazioni già da lui espresse nel suo libro “Ne valeva la pena, storie di terrorismi e mafie, di segreti di Stato e di giustizia offesa” (Laterza 2010), nonché in vari suoi interventi in altri libri, in riviste e quotidiani, in corsi di formazione ed eventi vari.

Abbiamo dunque voluto offrire i contenuti di questo dialogo con Armando Spataro senza alcuna revisione o ridimensionamento apprezzando la genuinità del racconto che, come il lettore si accorgerà, attinge a piene mani dalla sua intensa e lunga esperienza in magistratura. Ne emerge, a nostro avviso, un magistrato ed un cittadino con lo sguardo costantemente rivolto al senso più profondo dell’essere magistrati e dell’essere cittadini ovvero quello di rendere un servizio al “cittadino qualunque” e di partecipare attivamente alla costruzione di una società più giusta.

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L’analisi, ancora in corso, delle chat del telefono di Palamara ha messo in luce un uso distorto o meglio strumentalizzato dell’appartenenza alle correnti che, da luoghi di elaborazione e confronto, sono state vissute da molti quale “trampolino di lancio” per fini personali legati esclusivamente alla carriera.  Ciò ha reso palese l’esigenza di una profonda autocritica volta a rivedere ed analizzare le cause che hanno determinato una simile degenerazione rispetto alla quale il “caso Palamara” ha avuto il merito di squarciare il velo d’ignoranza per affrontare finalmente, con maggiore franchezza, la “questione morale”. E tuttavia, la “questione morale”, di sicuro rilievo, non è di per sé un programma politico ma, piuttosto, il presupposto di ogni visione di sistema; essa dovrebbe unire tutte le anime della magistratura e dovrebbe costituire la base sulla quale innestare proposte ed idee, anche tra loro differenti.

Qual è, secondo il tuo punto di vista, nel lungo periodo, il modo per uscire da questo “impasse”?  

Premessa telegrafica: periodicamente torna di attualità il tema delle tanto vituperate correnti dell’Associazione Nazionale Magistrati e questo mi spinge subito a guardarmi indietro ed a voler ricordare e raccontare.

In particolare, voglio ricordare ad eventuali giovani lettori che nell’aprile del 1988 nacque nell’ambito dell’As­sociazione magistrati il Movimento per la Giustizia e che tra i fondatori vi furono Giovanni Falcone, Vladimiro Zagrebelsky, Giorgio Lattanzi, Ernesto Lupo e molti altri ancora, tra i quali io stesso. Quella del gruppo fu una storia di successive e spontanee aggregazio­ni di magistrati di varia estrazione culturale e professionale, che intendevano manifestare la propria insoddisfazione per la logica imperante che riduceva l’Anm a mero contenitore di decisioni prese dalle correnti, così minando l’effettiva unità associativa fino a renderla vuota di contenuti. L’Anm, secondo molti di noi, non era all’epoca una sede aperta di riflessione e confron­to sulla «politica» giudiziaria, bensì luogo dove le correnti depo­sitavano i propri deliberati interni. E il fatto che «ci si contava» veniva scambiato per esercizio di democrazia.

Vorrei essere chiaro: non sono tra coloro che demonizzano le «correnti», ove con questo termine ci si riferisca ad aggregazioni di magistrati legati da una comune concezione del proprio ruolo, della propria indipendenza, dei rapporti possibili con l’avvocatu­ra, il mondo accademico e la società in genere. Non vedo perché dovrebbe essere vietato o criticabile che anche i magistrati rico­noscano le proprie affinità con taluni colleghi e a costoro preferiscano far riferimento per elaborazioni culturali o per desi­gnarli – attraverso il voto – a compiti di rappresentanza o direzione nell’As­sociazione o a funzioni istituzionali in seno al Csm. E’ chiaro che questi sono i meccanismi della democrazia rappre­sentativa e non si vede perché dovrebbero valere solo per i partiti e per le elezioni politiche. E’ tuttavia vero che il meccanismo delle correnti – così come quello dei partiti in politica – ha prodotto mostri e degenerazioni: appartenere a una corrente ha troppo spesso indotto l’iscritto a ritenere di avere diritto a protezione e trattamenti di riguardo da parte dei «suoi» rappresentanti e ha spinto questi ultimi – persino in seno al Csm – a scegliere i dirigenti degli uffici in base a criteri di appartenenza, anziché di merito. Meccanismi perversi, dunque, ai quali – è bene ricordarlo – non si sottraggono affatto i componenti «laici» del Csm (avvocati e professori universitari eletti dal Parlamento in seduta comune), che spesso non celano vicinanze e attenzioni alle aspettative delle forze politiche che li hanno proposti come can­didati a quella carica.

Tra i magistrati circolano spesso sconcerto e rabbia, essendo tutti consapevoli che, ad es., le note conversazioni e gli incontri di cui si è parlato negli ultimi tempi costituiscono quanto meno le specchio di relazioni personali a dir poco improprie e di interessi di singoli, di correnti e di esponenti di partiti che si intrecciano al di fuori degli ambiti istituzionali.

Immediati e prevedibili sono stati i conseguenti attacchi alla Associazione Nazionale Magistrati ed alle sue “correnti” descritte quali aggregazioni di potere senza ideali, che agiscono per favorire i rispettivi iscritti nelle nomine e nelle progressioni in carriera, condizionate da amicizie, localismi geografici e permeabilità a pressioni politiche. Si invoca, per porvi rimedio, la trasparenza piena delle motivazioni di ogni scelta consiliare pur se a tal fine non basta certo la pubblicità delle sedute delle Commissioni consiliari, inidonea a far emergere possibili influenze esterne.

È giunto il momento, allora, di essere chiari per uscire dal guado, anche perchè in certe situazioni non sono ammesse difese corporative di alcun tipo: i valori della indipendenza assoluta, dell’indifferenza alle aspettative della politica, della professionalità, dell’attenzione al pubblico interesse ed ai diritti di tutti vanno oggi posti nuovamente in primo piano, vincendo sulle aspirazioni personali e sulle rivendicazioni economico-sindacali della magistratura. Persino l’uso della definizione di «sindacato delle toghe», a mio avviso, è un modo per intaccare l’autorevolezza dell’ANM.

Ma deve essere chiaro che non esistono bacchette magiche per rigenerare le correnti e l’impegno associativo e che è profondamente errato farsi condizionare dal populismo dominante, come a mio avviso accade quando si auspicano automatismi nelle nomine ad incarichi direttivi e semidirettivi o la penalizzazione di chi ha svolto attività fuori ruolo, quasi che ciò comportasse un marchio eterno di inaffidabilità.

In realtà, queste posizioni sembrano ispirarsi alla logica della rassegnazione, mentre deve affermarsi quella della reazione virtuosa.

La “questione morale” non cesserà mai di esistere, così come sarà sempre impossibile eliminare una quota di discrezionalità nelle scelte consiliari. Le correnti, allora, tornino ad essere luoghi di discussione ideale e culturale come erano e come possono esserlo ancora, a partire da un impegno civile che, ovviamente collegato a questioni giuridiche, le spinga a schierarsi innanzitutto a tutela dei diritti fondamentali delle persone ed a difesa dei principi costituzionali su cui si regge ogni democrazia.

Si tratta di un’affermazione retorica e scontata? Basterà ad  emarginare i frutti marci dell’associazionismo? Alla prima domanda rispondo “forse sì!”, ma tutto dipende da come si intende farla vivere nel quotidiano, evitando di privilegiare le pur importanti questioni manageriali nella gestione degli uffici quali parametri della autorevolezza dell’amministrazione della giustizia. Alla seconda rispondo con certezza: “no!”, ma nessuno possiede la soluzione magica per eliminare o marginalizzare  soggetti indegni da qualsiasi comunità, sociale o politica. E’ per questo che occorre conoscere la realtà in cui si vive e si opera ed orientarsi conseguentemente nelle scelte di rappresentanza. Ma per le correnti deve valere – e non solo in occasione delle scadenze elettorali – più la coerenza dell’agire in relazione ai principi cui si ispirano ed alla propria identità culturale,  piuttosto che la ricerca del consenso o la politica dei “passi felpati” e degli accordi ad ogni costo. Questa è almeno l’idea delle correnti in cui ho sempre creduto e di quella che ho contribuito a fondare.

 

Ad oggi pare che la destabilizzazione interna sia il principale nemico della magistratura e, come la storia insegna, in questi momenti di fragilità, ritornano nel dibattito politico temi quali quello della separazione delle carriere o sul sistema elettorale del CSM. Quest’ultimo, in particolare, viene considerato una delle cause del malcostume interno. In realtà, un minimo di analisi storica delle riforme del sistema elettorale che si sono succedute negli ultimi vent’anni, consente di verificare come l’obiettivo dichiarato da tutte sia stato quello di ridurre il potere delle correnti, viste come il male assoluto. Persino l’ultima riforma, di modifica del previgente sistema – che prevede quattro collegi unici nazionali con maggioritario puro eliminando la previsione di liste e prevedendo candidature dei singoli – aveva questo obiettivo ed ha avuto esattamente il risultato opposto.

Qual è, secondo la tua esperienza e la tua opinione, il modello elettorale che meglio può realizzare la formazione del CSM di cui alla Carta costituzionale e, ancora, ciò premesso, la riforma del sistema elettorale può davvero costituire la panacea di tutti i mali? 

Come è noto, le ultime proposte di modifica della legge elettorale sono nate per evitare – si dice – che i 16 magistrati eletti dai loro colleghi quali componenti del CSM siano semplici esecutori delle direttive dei gruppi di rispettiva appartenenza. Negli ultimi decenni, peraltro, vi sono già state modifiche di tale legge, la più importante delle quali ha comportato l’abolizione del sistema elettorale proporzionale fondato su liste contrapposte in favore del maggioritario puro, una soluzione che ha però generato altre criticità.

Ho già detto che ritengo profondamente errato disconoscere il valore culturale e la funzione democratica delle correnti. I magistrati, infatti, hanno il diritto di inter­loquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazio­ne, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la plu­ralità delle esperienze professionali? È giusto aprire la formazione professionale alle esperienze esterne alla magistratura? E – passando alle valutazioni dei disegni di legge – è ac­cettabile che in nome della sicurezza si sacrifichino i diritti fon­damentali delle persone? È logico, dunque, che al momento di eleggere i componenti del Csm il magistrato elettore voglia conoscere le opinioni dei candidati che, a loro volta, non possono che aggregarsi per omogeneità di vedute e di programmi, con o senza sigla. Lo ripeto : sto parlando di elementari regole della democrazia. Ecco perché, come ho detto, le correnti devono essere luoghi di condivisioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma la deriva corporativa.

La soluzione dei problemi emersi sta nel pretendere che i magistrati, a partire dai più giovani, esercitino il diritto di voto in modo consapevole, premiando gli sforzi di chi si adopera – nel Csm, nell’Associazione e nel suo lavoro quotidiano – nell’interesse dei cittadini e della giustizia, anziché del gruppo di appartenenza.

Si deve però chiedere a politici, a studiosi ed a chi osserva la realtà che ci circonda di evitare ingiustificate generalizzazioni e strumentalizzazioni delle criticità nel tempo emerse. Ad esempio, trovo che la più comica delle riforme immaginabili (di cui si continua a parlare), sia quella del sorteggio – immagino ad opera di una dea bendata che infili la mano libera nell’urna  – per designare non i dirigenti di una bocciofila di quartiere ma i componenti del CSM . Una proposta assolutamente incostituzionale ma anche illogica e di segno qualunquistico .

L’art. 104 della Costituzione, infatti, prevede che, al di là dei tre membri di diritto, due terzi dei componenti siano eletti dai magistrati ordinari ed un terzo dal Parlamento in seduta comune tra accademici ed avvocati con almeno 15 anni di servizio alle spalle. Per introdurre il sorteggio, dunque, bisognerebbe modificare la Costituzione. Ma ecco che, di fronte a questo rilievo, si propone il ricorso ad indegne furberie, proponendo due fasi distinte: nella prima sarebbero sorteggiati  i magistrati disponibili ad essere i candidati tra cui i loro colleghi, nella seconda, sceglierebbero con il voto i componenti del CSM. In tal modo sarebbe assicurato il rispetto delle regole della Costituzione. Qualcuno, a dire il vero, ha anche proposto fasi inverse: prima il voto e poi il sorteggio.

Se fosse accolta, la proposta del sorteggio comunque paludata – già bocciata da molti autorevoli costituzionalisti –  porterebbe ad annullare la rappresentatività della magistratura che i padri costituenti vollero per il CSM, in quanto organo di autogoverno, finendo con l’umiliare proprio l’elettore e la sua dignità.  Ed aprirebbe la strada alle più ardite provocazioni istituzionali: se fosse approvata, qualcuno potrebbe proporre l’ipotesi di sorteggio anche per i membri del Parlamento, considerata la gravità delle deviazioni corruttive e deontologiche che la storia dei partiti ci ha fatto conoscere.

Non nascondo che ciò che mi lascia senza parole, però, non è tanto l’atteggiamento di parte del ceto politico o di certi pseudo intellettuali-accademici favorevoli al sorteggio, ma quello dei non pochi magistrati che il sorteggio sostengono.

Non vale la pena di nominarli o di ricordare gli schieramenti cui eventualmente appartengono: semplicemente non meritano risposta.

Altrettanto inaccettabile, ovviamente, è la proposta populista di abolire le correnti dei magistrati, non si comprende se con legge o con atto interno dell’ANM.: ancora una volta, ci si deve chiedere se chi formula tali ipotesi conosca la Costituzione, in particolare il principio di libertà di associazione previsto nell’art. 18.

E, tornando al precedente accostamento, perché non sciogliere i partiti visto che nella vicenda di cui tanto si parla sono coinvolti anche esponenti politici? Come non vedere che per tale via si collocano le istituzioni repubblicane e la vita democratica su un pericoloso piano inclinato?

“Il rimedio è la separazione delle carriere e la conseguente creazione di separati CSM!” dicono allora altri! L’argomento è complesso e richiederebbe analisi articolate e profonde. Ma è certo che si tratterebbe di una riforma assolutamente inutile foriera di seri pericoli per l’autonomia della magistratura italiana, abbandonando un modello istituzionale – quello che consente, a certe condizioni, di passare dal ruolo di p.m. a quello di giudice e viceversa – che anche il Consiglio d’Europa, sin dal 2000, considera un obiettivo verso cui tutti gli altri ordinamenti giudiziari europei dovrebbero tendere.

Ovviamente, potranno intervenire provvedimenti correttivi delle norme in vigore in tema di elezione del CSM. Ad es., io credo che il sistema migliore sia quello proporzionale a liste contrapposte, sostituendo però il collegio unico nazionale con più collegi territoriali, così da valorizzare la conoscenza diretta e la stima professionale dei candidati da parte degli elettori. Le liste, però, dovrebbero essere costituite da un numero minimo di candidati per ogni ruolo così da evitare sgradevoli accordi come quello che, nell’ultima elezione, ha visto le quattro correnti proporre ciascuna un solo candidato PM in modo da farli tutti eleggere nei quattro posti in gioco. Davvero incredibile e criticabilissima scelta…e mi spiace che sia stata condivisa anche da AREA !

Si può pensare anche  ad altro, purchè si usino freddezza e distacco dalle passioni e dalle fazioni nell’analisi della situazione attuale e dei possibili rimedi, recuperando il rispetto tra le istituzioni ed il concetto stesso di rappresentanza del CSM.

E chi governa, in particolare, eviti di agire “a furor di popolo”, espressione che costituisce il titolo di un recente testo del prof. Ennio Amodio in cui sono efficacemente criticati contenuti e ragioni di recenti riforme (dalla legittima difesa ai decreti sicurezza) ispirate soprattutto dalla ricerca di facili consensi.

Il pericolo, insomma, è che le conseguenze di quanto è sotto i nostri occhi diano nuovamente fiato a chi vuol umiliare la magistratura riducendola al rango di un ordine sottoposto agli altri due poteri, teoria costituzionale “innovativa” rispetto ai rudimenti della educazione civica, ma in epoca berlusconiana cara persino a due ministri della Giustizia.

L’irrinunciabile pre-requisito di ogni riforma – che da sé non potrà mai essere la panacea di tutti i mali –  riguarda comunque i magistrati elettori per i quali, ai fini di un voto libero, consapevole e motivato va invocata, così come per i cittadini nelle elezioni politiche, una più approfondita conoscenza dei programmi e dei profili dei candidati. Lo ripeterò fino alla noia.

 

Questa è una fase di transizione storica per la magistratura italiana e probabilmente le scelte dell’organo di autogoverno di oggi condizioneranno gli anni futuri della magistratura e del modo di essere magistrati. Le degenerazioni correntizie messe a nudo negli ultimi due anni hanno, da un lato, posto in primo piano la questione morale, dall’altro, accentuato la fuga dalle correnti e dalla vita associativa, nella convinzione che da certi meccanismi di “gestione del potere” sia meglio rimanere fuori per occuparsi, in via esclusiva, dell’esercizio della giurisdizione, senza alcun condizionamento. In tale contesto ambizione e potere sono termini che hanno assunto una connotazione esclusivamente negativa ma, allo stesso tempo, a ben vedere, il potere è responsabilità e l’ambizione, se sana, è quel motore immobile che serve a garantire impegno, studio, applicazione.

Qual è allora oggi, in questo momento di grande tensione, il compito del Consiglio Superiore della magistratura e come va contemperata l’esigenza di recupero di un rigore morale troppo spesso dato per scontato con il pericolo di alimentare una cultura del sospetto o ingiustamente punitiva?  

La domanda include due termini – potere ed ambizione – con riferimento, credo, al significato che possono assumere per il lavoro del magistrato.  Voglio partire proprio da questa riflessione, ricordando che da magistrato ho sempre fatto il pm, senza avere mai trascurato – credo e spero – il significato di quelle parole. Parlo, dunque, sulla base di tale personale esperienza, e non mi interessa in questa sede riferirmi al potere politico, a quello economico o mediatico etc…

Il termine “potere”, per quanto ci riguarda, rimanda spesso ad espressioni che alcuni pubblici ministeri (sorretti da criticabili commentatori) usano per magnificare le proprie indagini quando parlano di “poteri forti” e “poteri occulti” che le hanno ostacolate: rifuggo da queste orride modalità comunicative! Per i magistrati che operano nel penale esistono indagati e imputati, noti o ignoti, e solo di questi si dovrebbe sobriamente parlare senza rimandi ad affascinanti “backstage”. Il potere dei magistrati è indubbiamente notevole, seppur costituzionalmente e processualmente garantito: basti pensare a quello di privazione della libertà altrui, di motivata violazione della privacy dei cittadini, della possibilità di irrogare condanne e pene, di dirigere la polizia giudiziaria .

Ma sono quasi sempre le Procure ed i Pubblici Ministeri ad essere additati come titolari di un potere illimitato ed  incontrollato che utilizzerebbero per finalità non commendevoli.

Ed è al potere del P.M. che anche io voglio qui riferirmi, ricordando, in particolare, che i magistrati inquirenti devono condurre le indagini su ogni tipo di reato, spinti  da una sola determinazione, quella di voler capire e conoscere fino in fondo i fatti, basandosi su prove affidabili da valutare con la cultura del giudice e non secondo la logica del «non si può escludere che…», su cui si fonda, purtroppo, il lavoro in Italia di non pochi pubblici ministeri. In proposito, cito un passaggio di un libro di Dick Marty (“Una certa idea di Giustizia” – 2020), amico ed importante giurista elvetico che richiama la necessità di essere «prudenti nel giudicare e attenti nel non lasciarsi trascinare dal pensiero dominante, che tende a interpretare i fatti come un conflitto ineluttabile tra bene e male, tra buoni e cattivi». Io aggiungo che è proprio questa auspicabile prospettiva che valorizza l’esercizio corretto del potere istituzionale del magistrato e del P.M. in particolare.

A ciò si lega anche l’attenzione dovuta ai rapporti con l’Avvocatura o alle modalità di conduzione degli interrogatori degli imputati: non servono atteggiamenti autoritari, ma obiettività, rispetto dei diritti, e uno sforzo per “scavare” nella personalità degli imputati, nelle ragioni dei reati da loro commessi e per valutare gli argomenti dei difensori. Ciò può determinare la costruzione di rapporti positivi anche con i peggiori criminali e consentire loro di passare da una sponda all’altra della vita.

Esiste poi – altrettanto indiscutibilmente – il “potere” specifico dei dirigenti degli Uffici Giudiziari, cioè Procuratori della Repubblica, Presidenti di Tribunali e Corti. Orbene, anche nell’esercizio di questo tipo di potere occorre innanzitutto rispetto della dignità di ogni interlocutore, perché si tratta di un potere organizzativo e non certo – almeno nella mia visione – di tipo gerarchico.

Consentitemi poche parole ancora, però, per illustrare la mia concezione del ruolo di Procuratore della Repubblica, quella cui ho cercato di ispirare la mia guida della Procura di Torino per i quattro anni e mezzo in cui vi ho lavorato, sperando di non essere incorso mai – anche solo per disattenzione – in comportamenti incoerenti. Si tratta di convinzioni che ho espresso in occasioni di incontri di studio del CSM e poi nei progetti organizzativi che ho redatto in occasione di domande per il conferimento di incarichi direttivi, incluso quello ho rivestito fino al giorno del pensionamento.

Un piccolo episodio può servire ad introdurre con un po’ di leggerezza questo delicato tema: per tutto il 2012 ho retto, come facente funzione di Procuratore, la Procura della Repubblica di Lodi ove mancavano, per vuoti d’organico, il Procuratore e quattro sostituti su cinque in organico. Ebbene rammento la mia scelta di modificare personalmente, grazie alla apposizione di un post-it adesivo, la targhetta che figurava all’ingresso del mio nuovo ufficio: vi era scritto “Procuratore Capo della Repubblica”, ma cancellai, coprendola, la parola “Capo”.

Perché non accettavo e non accetto la definizione di “Procuratore Capo della Repubblica”? Perché, indipendentemente dalle dimensioni dell’ufficio, un Procuratore della Repubblica non può, a mio avviso, ispirarsi ad una concezione gerarchica dell’esercizio delle sue funzioni: egli deve operare in piena armonia con tutti i componenti dell’ufficio stesso, non solo con i Procuratori Aggiunti, di cui va valorizzato appieno il ruolo co-organizzativo, ma anche con i Sostituti, rispettandone autonomia, professionalità e dignità. E  l’obbligo di esercitare l’azione penale previsto nell’articolo 112 della Costituzione deve intendersi al Pubblico Ministero come ufficio! Con tale principio devono armonizzarsi l’interpretazione e l’applicazione del nuovo testo dell’art. 2 del D. Lgs. 20 febbraio 2006 n. 106 (come modificato dall’art. 1 L. 24.10.2006 n. 269) secondo cui “Il procuratore della Repubblica, quale titolare esclusivo dell’azione penale, la esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell’ufficio”.

Ciò significa che si deve praticare una sorta di gerarchia di tipo organizzativo, che sia soprattutto capace di esprimere un potere di indirizzo circa l’adozione, da parte degli aggiunti e dei sostituti, di criteri omogenei ai fini delle determinazioni inerenti il promovimento dell’azione penale e circa l’utilizzo delle risorse disponibili: un problema reale, presente in ogni Procura, che va affrontato “facendo squadra” .

Si tratta di un modello che evoca sinergie positive e l’immagine degli “Effetti del Buon Governo” di Ambrogio Lorenzetti, cioè il “buon governo” organizzativo di un ufficio. Di conseguenza, il “corretto, puntuale ed uniforme” esercizio dell’azione penale, che deve essere la prima preoccupazione di un Procuratore, rimanda ad un cammino che tutti i componenti dell’ufficio devono insieme progettare e costruire, facendosi poi carico della sua manutenzione, cioè dell’aggiornamento e della ulteriore messa a punto delle scelte, anche per effetto del diluvio di leggi, convenzioni e sentenze che ci piovono addosso intensamente, persino da terre lontane!

Insomma, i “procuratori-mandarini” sono esistiti in passato e rischiano di rivivere in futuro se dovesse prevalere una visione gerarchica dei poteri dei procuratori.

Trovo peraltro insopportabile l’eccesso di retorica e di autoreferenzialità che spesso è possibile individuare negli atteggiamenti e nelle parole di alcuni colleghi, pur se lodevolmente impegnati in indagini difficili e pericolose e per questo meritevoli della gratitudine di tutti. Lo affermo senza supponenza alcuna, ma da tempo non apprezzo quanti si propongono (o accettano che altri li propongano) come eroi solitari e isolati, unici custodi e ricercatori della verità, sicché chiunque osi esprimere critica e dissenso rispetto al loro operato viene solo per questo collocato nello schieramento dei nemici del bene e della verità.

A mio avviso, dobbiamo evitare di incorrere, sia pure in buona fede, in simili atteggiamenti espressione di una errata concezione del potere e dei doveri che la legge attribuisce ai magistrati. Ciò rischia, peraltro, di indurre in errore la pubblica opinione, facendole credere che la giustizia sia terreno riservato ad una eroica élite di magistrati ed investigatori: il nostro, invece, è un lavoro normale come tanti altri e la Giustizia è un “bene comune” che può affermarsi solo con l’impegno quotidiano di una collettività sensibile, qualunque sia il lavoro ed il sistema di vita di quanti la compongono.

A tal proposito, voglio  ricordare una persona amica che non c’è più da quasi nove anni, Pierluigi Vigna, che è stato Procuratore Nazionale Antimafia e Procuratore a Firenze. L’ho sempre considerato un mio maestro, pur se non sempre, specie nell’ultimo periodo della sua vita, ci siamo trovati in sintonia nel valutare e commentare i tanti progetti di riforma dell’ordinamento giudiziario che si sono rincorsi in questi anni. Spiego ora perché lo voglio qui citare. Nella gremitissima basilica fiorentina di S. Miniato al Monte, l’1 ottobre del 2012, presenziai alla cerimonia funebre per Pier Luigi Vigna, scomparso il 28 settembre. Tantissimi erano i cittadini “comuni” ed i magistrati presenti, venuti da ogni parte d’Italia. Ma, alla fine della funzione, furono le parole del giovane figlio di Vigna a commuovere tutti e suscitare un lungo applauso dei presenti. Il figlio raccontò che, pochi giorni prima della sua morte, il padre, immaginando la futura cerimonia, lo aveva pregato di ringraziare le tante persone che vi avrebbero presenziato, ma di ringraziare in particolare due suoi amici: uno di nome “cittadino” e l’altro di nome “nessuno”. Mi ritrovo emozionato ogni volta che penso a quello che Piero Vigna ci ha voluto dire con quelle parole affidate al figlio: sono i cittadini, specie quelli sconosciuti e senza nome (i “nessuno”), coloro ai quali i magistrati devono rendere conto del proprio lavoro, che non è esercizio di puro potere..

Ritengo pertanto che sia compito del CSM intervenire con fermezza, sanzionando, anche con il mancato rinnovo quadriennale degli incarichi, Procuratori e Presidenti che a tale concezione non si attengano.

Ma nello stesso senso deve essere respinta anche l’idea, che rischia di diventare dominante, secondo cui il Dirigente di un ufficio dovrebbe essere soprattutto (o esclusivamente) un “manager”, così ampliando oltre misura il significato del necessario possesso di capacità organizzative: gli uffici giudiziari, infatti, non sono imprese o società private ed il loro funzionamento è legato innanzitutto al pieno rispetto delle leggi e dei diritti di tutti, il che può  anche comportare una capacità di “lavoro in perdita”.

Passando ora al termine “ambizione”, dico subito che si tratta di  un termine che non può avere per i magistrati alcun significato positivo in quanto può indicare solo desiderio di “potere” (ma nel senso inaccettabile di questa parola), di visibilità e di vanità smisurata. Una sola precisazione, però, me la permetto: il termine “ambizione”, anche nel quadro del dibattito in corso sulle riforme ordinamentali, viene spesso usato come sinonimo di “carrierismo” con cui si intende identificare, ogni possibile desiderio dei magistrati di progredire in carriera, al di là delle ordinarie valutazioni di professionalità, ottenendo incarichi direttivi o semidirettivi.

Orbene, non sono d’accordo con la condanna di questo tipo di ambizioni che sono criticabili e scorrette quando comportano la disponibilità a sacrificare i principi in nome dei quali abbiamo giurato ed iniziato la professione o quella a sposare le logiche spartitorie e correntizie di cui abbiamo già parlato. Non trovo nulla di male, invece, nel desiderio di un magistrato, che abbia per anni lavorato positivamente e correttamente, di mettere a disposizione dei colleghi l’esperienza maturata, rivestendo funzioni direttive o semidirettive. Non credo, a tal proposito, negli automatismi e nelle rotazioni cieche, così come non condivido l’ipotesi secondo cui il CSM dovrebbe raccogliere i pareri dei componenti di un ufficio ai fini delle designazioni dei loro vertici. E di quale ufficio poi? Dell’ufficio da cui proviene l’aspirante dirigente o di quello diverso in cui aspira a lavorare? Innumerevoli le immaginabili controindicazioni in entrambi i casi.

Né credo che, in nome di un presunto rigore morale, sia corretto penalizzare l’aspirazione a ricoprire funzioni direttive di magistrati che provengono da incarichi svolti fuori ruolo, senza neppure distinguerne la natura. C’è chi sostiene che dovrebbero essere previsti periodi di decantazione o quarantena per loro, quasi fossero degli appestati, servi della politica. Ma scherziamo? E’ in questo modo che si alimenta una cultura del sospetto ingiustamente punitiva.

Tocca al CSM, dunque, semplicemente bocciare le ambizioni di carriera fondate sul poco o sul niente valorizzando esperienze e professionalità positive, anche se riguardanti incarichi fuori ruolo ministeriali, in ordine ai quali è pur sempre possibile valutare il grado di indipendenza dimostrato da chi li ha rivestiti.

Compito nient’affatto semplice tanto che ogni CSM tende ad emettere nuove circolari per il conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, allo scopo di rendere le nomine più semplici (mentre spesso avviene il contrario) e di eliminare ogni possibile discrezionalità, proposito – quest’ultimo – assolutamente surreale visto che per tali nomine non si potrà mai procedere premendo uno o più tasti per ottenere un valore matematicamente incontestabile e una conseguente graduatoria di meritevoli.

“La libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber in “La libertà”; essa impone impegno, studio, conoscenza e prese di posizione.  Tale principio, traslato nell’ambito dell’amministrazione della giustizia, consente di guardare all’autonomia e all’indipendenza prima di tutto come ad un onere del magistrato, che bisogna guadagnarsi ogni giorno esercitando con rigore, morale e tecnico, la propria funzione; in tal senso i principi costituzionali non sono solo uno scudo da potenziali intrusioni di altri poteri ma il formante ideale che deve permeare la concezione stessa dell’esercizio delle funzioni. Forse, una delle ragioni che stanno alla base degli ultimi accadimenti “interni” è stata proprio la mancanza di partecipazione attiva da parte di molti di noi, troppo abituati a concepire gli aspetti inerenti il “contesto” del proprio lavoro come tempo “sottratto ai fascicoli”. Ciò è in parte comprensibile, specie in uffici dove le carenze di organico, concernenti tanto la magistratura che, ancor più, il personale amministrativo, rendono il lavoro molto più gravoso e non consentono al magistrato di sollevare la testa dalle carte per ragionare, insieme con gli altri, anche sul “contesto”; penso esempio ai colleghi che lavorano in contesti assai difficili del sud-Italia e che, talvolta alla prima esperienza, si trovano a dover affrontare processi complicatissimi. Sotto un altro aspetto, la disaffezione alla vita associativa fa parte di un’impostazione culturale coeva dei tempi, in cui un individualismo spinto all’eccesso non consente di concepire, invece, il proprio lavoro come parte di un sistema più complesso, specie laddove esso concerne, come nel nostro caso, l’esercizio della giurisdizione.

Qual è allora, secondo il tuo modo di vedere, il modello di magistrato per il prossimo futuro. E come si pone, rispetto a questo tema, la partecipazione alla vita associativa?  

La domanda è complessa ed interessantissima e preciso subito che credo fortemente nell’impegno civile del magistrato, sia pure all’interno dei confini tracciati dalla Costituzione.

Cerco di spiegarmi, ancora una volta, sulla base della mia esperienza, fortunatamente comune a molti altri colleghi, indipendentemente dalla correnti di eventuale appartenenza o vicinanza. Raccontare  ciò che mi è capitato di fare potrà servire a far capire come ho maturato certe convinzioni.

Dalla fine degli anni ’70 e fino a circa dieci anni dopo ho conosciuto una sola forma di impegno civile, quello che fu concordato tra i magistrati che si occupavano del contrasto del terrorismo negli anni di piombo e che consisteva nel racconto pubblico della verità.

Quei magistrati, cioè, proprio nella tem­perie degli anni di piombo, sentirono il dovere di uscire dai lo­ro palazzi per discutere di legalità in scuole e università, in circoli di quartiere e nelle fabbriche, in sedi di associazioni culturali e ovunque fosse possibile, allo scopo di diffondere la conoscenza della perversa ideologia terroristica e così contrastare con fermezza il verbo di chi teorizzava la neutralità («né con lo Stato, né con le Brigate Rosse»).

Negli anni seguenti, un identico impegno è stato doveroso contro la logica mafiosa, la corruzione, nonchè a difesa dei principi costituzionali e del principio di solidarietà. Ed è così ancora oggi.

Quanto ai rapporti tra società e mafia, in particolare, voglio citare l’esperienza maturata in ““Società Civile”, un circolo nato grazie alla spinta senza eguali di Nando dalla Chiesa: Nando non era allora un politico e, anzi, era una spina nel fianco di molti politici. La sua idea era quella di dare voce e presenza nella società, attraverso un’aggregazione trasver­sale aperta, a chiunque fosse disposto a battersi, in nome dell’etica, contro ogni tipo di degradazione morale e culturale, innanzitutto contro mafia e corruzione. Accettai con entusiasmo di partecipare a quell’avventura. Mi piaceva la trasversalità della iniziativa, un po’ simile a quella che, sia pur nel ristretto ambito dei magistrati, fu poi alla base della nascita – nel 1988– del Movimento per la Giu­stizia. Ho sempre pensato, infatti, che sui principi, sull’etica, sui valori della Costituzione ci si possa trovare agevolmente insieme: pro­gressisti e conservatori, così come laici e credenti. Fui allora socio fondatore di “Società Civile”, nel dicembre del 1985, ed al fianco di Nan­do si schierarono tante belle persone, con alcune delle quali ho passato gli anni più ricchi di speranze del mio im­pegno extraprofessionale. Rammento che nel suo statuto si stabiliva che al circolo “Società Civile” potessero aderire tutti i cittadini, tranne quelli che avevano incarichi politici e di partito. Un’esclusione che suonò scandalosa, nel pieno degli anni Ot­tanta, momento di massima invadenza dei partiti in tutte le espressio­ni della vita istituzionale, sociale, economica. I partiti avevano lette­ralmente occupato le istituzioni democratiche, se ne servivano invece che servirle. Le reazioni furono durissime e mol­ti, a destra e a sinistra, partirono all’attacco di quello strano circolo milanese che escludeva i politici. Tutti a difendere i partiti dai nuovi «qualunquisti», «moralisti», «sfascisti», «giacobini», «salottieri». Bollati come «comunisti» dalla destra, «anticomunisti» dalla sinistra. Per entrambi eravamo «manichei»: sostenitori dell’opposizione netta tra «politica cattiva» e «società civile buona». Non era vero. Sapevamo (e scrivevamo) che la politica non è sem­pre «cattiva» e  che la società civile non è tutta «buona». Semplicemente, volevamo offrire ai cittadini uno spazio autonomo fuori dai partiti per poter dire con libertà cose che non si riescono a dire, se si è costretti a seguire le regole dello scambio politico e della ragion di Stato. “Società civile” fu anche la denominazione con cui, da quel mo­mento in poi, venne definita quella parte della società italiana che voleva far sentire la sua voce al di fuori dei partiti, ma non necessa­riamente contro di essi. Il circolo “Società Civile” diede vita in que­gli anni a innumerevoli iniziative: non solo dibattiti su ogni tema d’interesse pubblico, tra cui etica, politica, corruzione e presenza della mafia in Lombardia (un’eresia per quei tempi), ma anche la fondazione di un periodico in cui si formarono alcuni giovani gior­nalisti d’inchiesta. Tutto quello che riuscimmo a fare fu autofinan­ziato e del tutto immune da ogni influenza o contiguità politica.

A quell’impegno altri ne seguirono. Tra la fine del 2002 e la primavera del 2006 sono state numerose le iniziative cui ho preso parte come dirigente del Movimento per la Giustizia e dell’Associazione nazionale magistrati. Il 14 settembre del 2002, ad es., ancora nel limbo postconsiliare e in attesa di tornare alla Procura di Milano, partecipai alla indimen­ticabile manifestazione di Roma, dinanzi alla basilica di San Gio­vanni in Laterano. Centinaia di migliaia di persone erano arrivate da ogni parte d’Italia sia per manifestare contro quelle che ormai venivano definite, anche da accademici, le «leggi vergogna», sia – soprattutto – per esternare le loro preoccupazioni per le sorti della democrazia in Italia. C’erano anche numerosi magistrati e questo scatenò le rea­zioni di molti politici della maggioranza: nonostante io e Juanito Patrone, all’epoca segretario di Magistratura democratica, al cui fianco partecipai alla manifestazione, avessimo tentato di spiegare a qualche importante quotidiano le ragioni della nostra pre­senza e la sua piena compatibilità con l’esercizio imparziale della nostra funzione, si sprecarono le affermazioni di chi riteneva quella partecipazione la prova della degenerazione della magistratura italiana.

Tra il 2004 e la pri­mavera del 2006, partecipai ad iniziative tese a contrastare la pessima riforma costituzio­nale messa in cantiere e poi approvata dalla maggioranza di cen­trodestra che governava il paese in quegli anni. Anche in questo caso, lo feci insieme a moltissimi colleghi, oltre a varie associazioni e confederazioni sindacali, all’Anpi ed a chiunque altro fosse sensibile al tema. Il Movimento per la Giustizia e Magistratura democratica aderiro­no anche formalmente al Comitato per la difesa della Costituzione di cui fu nominato presidente Oscar Luigi Scalfaro. A qualche collega e a consistenti spezzoni della Associazione magistrati pareva improprio, se non addirittura inaccettabile, che i magistrati potes­sero impegnarsi – e impegnandosi, esporsi – nella campagna per spingere i cittadini a votare «No» nel referendum confermativo di quella riforma approvata che si sarebbe tenuto nel giugno del 2006. Tentammo di spiegare come, invece, quell’impegno appariva doveroso, continuando comunque ad informare i cittadini più giovani e gli studenti, nelle scuole, nelle università, nei centri sociali e nei quartieri, anche at­traverso gli strumenti informatici e le moderne tecnologie.

Ma a difesa della Costituzione, con altri colleghi del Movimento per la Giustizia e con le associazioni Articolo 21 e Libertà e Giustizia, avevamo organizzato nel 2004 a Milano un convegno pluritematico su Controriforme e diritti dei cittadini, preceduto dalla diffusione di documenti in cui venivano affrontati i problemi che riforme e progetti di riforme in quel periodo stavano determinavano nei settori pubblici dell’istruzione e della ricerca, della informazione, della sanità e del lavoro. Nella sala affollatissima della Provincia, in via Corridoni a Mi­lano con centinaia di persone impossibilitate ad entrarvi, furono molte le voci autorevoli che intervennero sulle sofferenze del settore pub­blico: Carlo Bernardini sulla crisi della ricerca, Rosy Bindi sulla sa­nità, Giuseppe Casadio sul mondo del lavoro, Tullio De Mauro su quello dell’istruzione pubblica, Paolo Ferrua sulla giustizia, Ales­sandro Pizzorusso sui progetti di riforma della Costituzione, Ser­gio Zavoli sull’attacco a stampa ed informazione televisiva. Paolo Flores d’Arcais intervenne su «Passione civile, storia e verità di Sta­to». La manifestazione registrò, soprattutto, un grande intervento di Oscar Luigi Scalfaro, capace anche quella sera di sintetizzare le ragioni della perdurante modernità della nostra Carta Costituzio­nale.

Fu per le stesse ragio­ni che a gennaio del 2005, in occasione della cerimonia di inaugu­razione dell’anno giudiziario, tutti i magistrati italiani vi partecipa­rono stringendo in mano, ben visibile, una copia della Costituzio­ne quale forma di protesta contro le riforme messe in cantiere dal governo. Ancora non sapevamo che allo stesso modo e per le stes­se ragioni ci saremmo comportati a gennaio del 2010 in occasione della stessa cerimonia e che, anzi, indossando la toga, avremmo ab­bandonato l’aula magna al momento del discorso del rappresen­tante del ministero della Giustizia.

Devo anche confessare che, nonostante le accuse di politicizzazione che  ci piovevano addosso, partecipai ad un’altra manife­stazione di piazza: il 25 aprile del 2005, infatti, ero nel corteo che partì alle 16 da piazza Oberdan a Milano e si concluse in piazza Duomo. Il corteo celebrava il 60° anniversario della liberazione dal fascismo ma tutti i partecipanti lo interpretarono dichiaratamente come un’altra manifestazione a difesa della Costituzione. E fino al giugno del 2006 fu per me tutto un susseguirsi frenetico di manifestazioni, convegni, dibattiti e interventi organizzati sempre per lo stesso fine : il «No» vinse con il 61,3% : riforma bocciata !

Facendo un salto temporale in avanti, aggiungo che sono stato impegnato nei Comitati per il “NO” anche in altre due campagne referendarie: quella vinta del 2016 e quella persa del 2020. La prima era una campagna contro la pessima riforma costituzionale definita “renziana” e  messa in campo da uno schieramento politico di orientamento apparentemente opposto rispetto al 2006; la seconda, nel 2020, era contro la riforma costituzionale di stampo pentastellato, che prevedeva innanzitutto la riduzione dei componenti della Camera e del Senato.

Potrei continuare ad elencare altre importanti occasioni di impegno civile, ma, avendo probabilmente già esagerato, mi limito a dire che non mi pento di alcun mio intervento pubblico (inclusi miei articoli ovunque pubblicati o interviste a giornali, radio e tv) e che rifarei tutto quello che ho raccontato, passo per passo, e tutto ridirei ancora, parola per parola, con la sobrietà e la misura cui credo di essermi  attenuto in ogni tipo di modalità informativa. Ciò anche quando ho scritto un libro o contributi a libri altrui, o quando, prima e dopo il pensionamento di fine 2018, sono sceso in campo, con molti magistrati, sui temi dell’immigrazione che hanno partorito i pessimi pacchetti sicurezza del 2008 e 2009 e, dieci anni dopo, gli altrettanto criticabili decreti sicurezza del 2018 e del 2019. Nel 2019, sia pure dopo qualche iniziale perplessità sulle future modalità operative, sono stato anche tra i soci fondatori di ResQ Onlus, nata per mettere in mare una nave per soccorrere i naufraghi nel Mediterraneo Centrale. Gherardo Colombo ne è presidente onorario Con tanti contributi di cittadini (tra cui vari magistrati) ed associazioni, è stata acquistata una nave (denominata ResQ People) che proprio nell’agosto di quest’anno ha operato il primo salvataggio : 166 persone soccorse in mare, in fuga da guerra ed orrori..

Spero che ciò che ho sin qui raccontato possa servire a rispondere a tutti coloro che accusano i magistrati impegnati fuori dai palazzi di giustizia di parlare e scrivere al di là di quanto sarebbe loro esclusivamente concesso, cioè solo con  sentenze ed atti giudiziari. E ciò farebbero – si dice – per ragioni legate alle personali convinzioni politiche, finendo con il compromettere l’autorevolezza e l’immagine di terzietà della magistratura. Di fronte a tali accuse vorrei chiedere a chi le formula di evitare ingiustificate generalizzazioni poiché l’impegno per la difesa dei diritti fondamentali non è certo dettato da convinzioni politiche ma dai doveri su cui si fondano le democrazie costituzionali: la Costituzione, cioè, non prevede solo principi e diritti astratti, ma impone anche doveri per i cittadini che vi si riconoscono.

È questo il modello di magistrato che auspico per il futuro, caratterizzato cioè da un impegno civile perfettamente compatibile con la professione e con la vita associativa, ed anzi capace di “purificare” l’Associazione stessa.

Può bastare come risposta?

Spesso si sente dire che i giovani non sono più, come un tempo, animati da spirito di sacrificio e di servizio e che, anche per questo, non partecipano alla vita associativa e non sono particolarmente interessati ai temi inerenti l’amministrazione della giustizia. Tuttavia, se guardiamo all’attuale composizione della magistratura osserviamo che oggi il 30% circa della forza lavoro è costituita da giovani magistrati con, al massimo, la seconda valutazione; di questi la maggioranza sono donne. Anche l’età media dei vincitori di concorso si è innalzata, essendo ormai il concorso in magistratura un concorso di secondo grado; pertanto, molti di questi giovani magistrati non sono propriamente giudici ragazzini – l’età media oggi del tirocinante è di circa 30 anni – e spesso hanno esperienze lavorative diverse alle spalle; inoltre, molti di loro, anche in ragione dell’età, sono madri e padri con tutte le difficoltà che ne conseguono nel dover contemperare la vita familiare con quella lavorativa, specie in una situazione in cui, lontano dalla famiglia di origine, non si può contare su aiuti familiari.  La magistratura di oggi ha dunque un volto nuovo e diverso rispetto a quella degli anni ’70 / ’80 eppure, l’impressione, da giovani magistrate, è che la società, ed anche la magistratura, non sia cambiata nel senso che non vi sono in Italia misure idonee a supportare la genitorialità.

Quanto secondo te questo aspetto organizzativo, relativo alla difficoltà di coniugare famiglia e lavoro, influisce sulle nuove leve con riferimento, ad esempio, alla scelta della sede, alla scelta se trasferirsi o meno in sedi disagiate, alla fattiva partecipazione alla vita associativa in generale?    

Mi spiacerebbe, rispondendo a questa domanda, apparire persona poco attenta ai problemi di varia natura che le condizioni personali di vita possono determinare per i giovani magistrati, ma sono convinto che la situazione generale in cui essi oggi operano, pur con gli inevitabili mutamenti storico-sociali che ogni Paese conosce ad intervalli più o meno brevi, non deve considerarsi diversa da quelle in cui hanno operato, sin dall’inizio della loro professione altre generazioni di magistrati.

Certo oggi le magistrate non sono più una minoranza, anzi costituiscono maggioranza rispetto ai loro colleghi uomini, ed è pure vero che oggi si entra più tardi in magistratura per le ragioni giustamente ricordate.

Ma è altrettanto vero che ormai da tempo, al di là di risposte a specifici quesiti nel 2013 e 2014, le Circolari del CSM sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi delle Procure si fanno carico dei problemi in questione. Mi riferisco all’art. 46 (Norme di rinvio) della Circolare del 16.12.2020 del CSM sull’Organizzazione delle Procure che, come già previsto dall’art. 24 della precedente analoga Circolare del 16.11.2017, prevede che “Agli uffici requirenti si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni della Circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti (adottata con delibera del 23 luglio 2020) in tema di esoneri (art. 3), tutela della genitorialità, delle esigenze familiari e dei doveri di assistenza (art. 4)…, tutela della genitorialità (art, 262), magistrati in maternità o che provvedano alla cura di figli minori (art. 263), tutela della genitorialità e della malattia (art. 264), divieto di assegnazione di affari nel periodo di congedo (art. 268), benessere organizzativo, tutela della genitorialità e della salute (artt. 256/270, escluso l’art. 260).

Pertanto, credo che il contenuto ed i principi affermati nel Decreto Legislativo 26 marzo 2001 n. 151 (T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della L. 8 marzo 2000 n.53) siano stati ben messi a punto nelle delibere consiliari che si sono succedute e che riguardano sia il settore giudicante che quello requirente, sia quello penale che quello civile.

È chiaro, ovviamente, che tocca poi ai dirigenti degli uffici adottare le misure organizzative conseguenti, curando il coinvolgimento dei magistrati che ne fanno parte ed ispirandosi a criteri caratterizzati da una certa flessibilità nella loro applicazione.

È importante sottolineare che l’intervenuta estensione agli uffici requirenti delle norme sul benessere organizzativo previste nelle circolari sulle tabelle di quelli giudicanti si colloca nell’ambito di una concezione unitaria delle condizioni di lavoro dei magistrati. Rammento con soddisfazione e gratitudine, comunque, che quando ebbi a redigere nel 2018 il piano organizzativo della Procura di Torino, tutti i sostituti che dovevano beneficiare dei vari esoneri previsti fornirono il loro assenso ad una quota delle esenzioni previste  in misura minore rispetto a quella che poteva loro spettare per effetto delle delibere e circolari vigenti: ciò in considerazione dei carichi di lavoro gravanti sull’ufficio

Tornando alla domanda, dunque, sono ben consapevole delle difficoltà, non solo per le nuove leve della magistratura, di coniugare famiglia e lavoro, ma, fermo restando che è ben comprensibile come tali problemi possano determinare scelte di vita e di lavoro, non credo – grazie alle misure previste per farvi fronte – che  ciò influisca in misura maggiore rispetto al passato sulle scelte dei magistrati più giovani della sede ove iniziare a lavorare, “disagiate” o meno.

E non credo neppure che i problemi citati influiscano sulla fattiva loro partecipazione alla vita associativa, o almeno me lo auguro.

Le ragioni di disaffezione risiedono piuttosto altrove: innanzitutto, nel tremendo periodo che la magistratura sta vivendo, a partire dall’esplodere del caso Palamara, e nella connessa disinformazione, spesso dolosamente finalizzata a ledere il principio di indipendenza della magistratura ed il senso stesso dell’associativismo, accusando indiscriminatamente tutti i giudici ed i pubblici ministeri di sistematiche violazioni dei loro doveri.  Ma certamente giocano altri fattori, a partire da un eccesso di  burocratizzazione del lavoro dei magistrati che spesso induce anche i migliori tra loro a rinchiudersi nel proprio ufficio (sempre che ne abbiano uno), prestando attenzione solo ai procedimenti loro assegnati, ai carichi medi di lavoro ed alle ragioni di positive valutazioni della loro professionalità.

Ovviamente è giusto che la corretta e rapida trattazione di indagini e procedimenti, nel settore civile e penale, sia la stella polare del lavoro dei magistrati, ma altre luci devono illuminarlo ed una di queste è la storia e la ragione d’essere dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, nella quale – mi auguro – devono essere soprattutto i giovani giudici e pubblici ministeri ad impegnarsi per ridarle piena credibilità. Ma su questo mi sono già espresso rispondendo ad altre precedenti domande.

La formazione del magistrato è strettamente connessa al modus con il quale si esercita la giurisdizione. Il magistrato non può lavorare senza avere contezza del contesto sociale e culturale in cui vive e, spesso, le interpretazioni del diritto sono non solo il frutto di risoluzioni di questioni tecniche, ma anche espressione di determinate sensibilità culturali. All’interno della magistratura, troppo spesso, il dibattito si è incentrato esclusivamente sui contenuti e sui modelli della formazione inziale e permanente e si è tralasciato di aprire una più ampia riflessione sull’esigenza di un approccio multiculturale, da intendersi  non solo  come modello di offerta formativa  della Scuola Superiore, quanto, piuttosto, come  un’ambizione da perseguire nell’agire quotidiano.

Quanto l’arte, la letteratura, la musica, il cinema, le scienze sociali possono contribuire ad arricchire un magistrato non tanto nella sua dimensione individuale, quanto nell’esercizio della propria funzione? Quali consigli ti sentiresti di dare ai giovani colleghi all’inizio del loro percorso formativo?  

Premetto che, pur avendo svolto ruolo di relatore nella materia penale ed in quella ordinamentale in numerosi corsi di formazione sia per uditori giudiziari  e poi  m.o.t., sia per magistrati con ampia esperienza professionale, non ho mai fatto parte di organi responsabili della “strategia” formativa. E me ne dispiace.

Detto questo, voglio subito aggiungere di ritenere, da un lato, che la formazione dei magistrati debba innanzitutto essere caratterizzata da una prevalente attenzione agli aspetti pratici del loro lavoro e, dall’altro, che, proprio per questa ragione, sia fondamentale l’esigenza di un approccio multiculturale.

In un suo recente libro (“Giustizia, per una riforma che guarda all’Europa” – Vita e pensiero 2021), scritto con Francesca Fiecconi, Giovanni Canzio parla della necessità che i magistrati siano portatori di una “cultura larga” che consenta loro di meglio conoscere e capire il mondo in cui operano: come è possibile amministrare giustizia se non si conoscono le tante ragioni della ingiustizia, quella sociale, politica, economica ed altre ancora? I due autori si riferivano anche alla straordinaria e ricca esperienza di “Law and Literature” avviata presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dal prof. Gabrio Forti che, in un articolo di presentazione del convegno, pubblicato sull’Osservatore Romano del 14 gennaio 2011, così spiegava le ragioni dell’iniziativa: “Sono i testi che devono essere studiati e che devono parlare. Essi fanno venire alla luce  i fermenti elettivi”. “E quindi – aggiungeva – non chiudiamoci nei recinti del tecnicismo giudiziario”. Gianni Canzio è intervenuto in quel convegno con un contributo sulla Dike dell’antica Grecia ed io stesso, sempre nel 2011, ebbi modo di intervenire proprio sul rapporto tra giustizia e letteratura, affrontandolo grazie alle parole di un premio Nobel della Letteratura: non Garcia Marquez, né Josè Saramago, non Orhan Pamuk, né Mario Vargas Llosa, ma Bob Dylan. La mia relazione si chiamava “La giustizia nella parole di Bob Dylan”. Dylan è la mia stella polare musicale, ma anche per molti temi di rilievo sociale, sicchè discutere dei suoi testi e delle sue visioni produce possibilità di riflettere su molti temi attraverso inusuali modalità di confronto. Quella “giornata di studio” alla Cattolica fu per me entusiasmante anche perchè arricchita dalle parole e dalle riflessioni di Alessandro Carrera e di Adolfo Ceretti, entrambi profondi conoscitori di Dylan e rispettivamente professori di letteratura italiana all’Università di Houston e di criminologia a quella di Milano – Bicocca.

L’idea di Gabrio Forti, che da anni persegue in sede accademica la necessità di accostare lo studio della giustizia alla letteratura, al cinema ed alla musica, non doveva essere evidentemente velleitaria se pochi giorni dopo, a New York, la Fordham University realizzava un convegno esattamente sullo stesso tema, spiegando nei suoi comunicati stampa che in quell’occasione, per la prima volta al mondo, la giustizia sarebbe stata analizzata attraverso le parole di Bob Dylan. Ma gli organizzatori si sbagliavano: era la seconda. Protagonista della iniziativa alla Fordham University di New York (“Bob Dylan e la legge”) fu anche Alex Long, Università del Tennessee,  professore di legge : sostiene che testi delle canzoni di Bob Dylan sono utilizzati più di qualsiasi altro scrittore in tribunale e racconta l’influenza dell’artista sulla comunità giuridica di oggi. Dalle sentenze della  Corte Suprema degli Stati Uniti ai corsi della scuola di diritto, le parole di Dylan sono utilizzati per trasmettere “messaggi” relativi alla legge, al suo rapporto con i fatti, con le tesi delle parti, o alla interpretazione che ne danno i tribunali. Il professore Alex Long ha arricchito i dati raccolti, ricordando le sentenze che citano Dylan, tra cui quella di  una Corte d’appello della California  in cui, per affermare che il perito non serve per convalidare l’ovvio, si affermava: “You don’t need a weatherman to know which way the wind blows” (“Non hai bisogno di un metereologo per sapere in che direzione soffia il vento”), parole tratte da “Subterraneam Homesick Blues”. Ma la stessa citazione ed altre ancora (unitamente agli estremi dei pezzi e degli album  in cui erano contenute) sono state usate in varie ulteriori sentenze (ad es. in un procedimento penale del Massachusetts, ad opera di un procuratore distrettuale, nonché in più  sentenze della Corte Suprema e di Corti di altri Stati).

Ma anche in Italia abbiamo registrato analoghe “citazioni istituzionali”. Alla fine di novembre del 2014, a Torino, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della difesa, lanciò un messaggio (non un “ordine”) agli ufficiali appena usciti dall’Accademia di Modena e, citando le parole di un brano di Bob Dylan (“Forever Young” del ’74), ricordò loro la necessità di impegnarsi per gli altri, anche in divisa. I riferimenti citati dall’ammiraglio mi colpirono al punto che, scrivendo un articolo su La Stampa (2.12.2014), auspicai che anche magistrati e avvocati studiassero i testi di Dylan, che parlano anche di mafia, di vittime di processi ingiusti (“The lonesome death of Hattie Carrol” e la famosa “Hurricane”, che contribuì alla liberazione del pugile Rubin Carter, condannato per omicidio) e di quella parte del potere politico che vuole la sconfitta degli altri e l’impunità per sé (“Political world”). In un pezzo molto conosciuto (“Absolutely sweet Mary”, 1966), poi, compare poi una frase sibillina: “Per vivere fuori dalla legge bisogna essere onesti”. Secondo alcuni un’esaltazione del codice d’onore dei malviventi, ma forse, più correttamente, solo un’amara constatazione: le regole sembrano rispettate più dai disperati e dai fuorilegge che da coloro che normalmente definiamo “onesti”.

Sono tanti, poi, i testi di Dylan che parlano di umanità sofferente e della disperazione degli immigrati

Nel settembre 2009, nel cortile del carcere di Lodi affollato da detenuti e cittadini, raccontai la storia del latitante Billy the Kid e del suo amico sceriffo Pat Garrett che lo uccise nel luglio del 1981, chiedendo poi alla madre di seppellire la pistola con cui aveva sparato (questo, almeno, racconta Dylan nella mia canzone preferita, Knockin’ on heaven’ door): non è la storia di un killer spietato, come molti pensano, ma di un giovane che, nel 1880 e dintorni, periodo di grandi migrazioni dall’est all’ovest degli Stati Uniti, sognava una vita nuova in terre lontane finendo con il ritrovarsi vittima della guerra economica tra allevatori e coltivatori forse tutti fedeli al motto “prima gli americani dell’Ovest… rispediamo gli altri a casa loro”.

Ma quella che giudico la mia più bella e forse più apprezzata relazione giuridica fu quella, accompagnata dall’ascolto – per un minuto circa ciascuno – di parti dei brani che citavo, sempre sulla visione della giustizia di mr. Robert Zimmermann (il vero nome di Dylan, il menestrello di Duluth), tenuta nell’Aula Magna Fulvio Croce del Palazzo di Giustizia di Torino nell’ambito di un corso di formazione organizzato dal locale Ordine degli Avvocati nell’aprile del 2017,.

Ho già ricordato la rilevanza mondiale del tema dell’immigrazione che, secondo me, deve essere oggetto di un particolare impegno di magistrati e giuristi, non solo a causa dell’aumento dei drammatici episodi cui assistiamo quotidianamente e del numero dei morti in mare (a proposito chi vorrà contribuire all’attività della nave ResQ People mi contatti in qualsiasi modo!). Crescono infatti odio razziale e ricerca di consenso elettorale alimentata da una bieca strumentalizzazione di un’innegabile situazione di disagio sociale.  Discussioni politiche, giuridiche e sociali si incrociano e finalmente sembra che anche dall’Italia si guardi all’Europa con dignità e buon senso, anziché con insulti e protervia. Vedremo cosa accadrà.

Ed è proprio sul dovere di accoglienza nei confronti degli immigrati (imposto da Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo, dalla Costituzione italiana e da tante convenzioni internazionali) che si manifesta anche  l’impegno di cantanti e gruppi rock, di quelli – però – che riempiono stadi e spazi aperti con centinaia di migliaia di persone e che invece rifiuterebbero di salire su palchi in stile Papeete.

Ne ho parlato in molti convegni e molti articoli, citando gli orrendi muri voluti da Trump per respingere i disperati che lasciano le loro patrie, ma ricordando anche l’unico muro che amo, “The Wall”, dei Pink Floyd che non divide, ma crollando progressivamente sul palco, come si vede in un noto docufilm, finisce con l’unire  spettatori e musicisti: facile la metafora, inutile la sua spiegazione. Nel 2018 ho visto un concerto a Milano di Roger Waters: spettacolare  il grande maiale rosa che “galleggiava” nel “cielo” del Palasport di Assago, con impresse le foto di vari leaders politici europei sovranisti, tra cui – naturalmente – un noto  italiano. E durante un un altro concerto milanese, degli U2 nel 2018, l’immagine finale proiettata su uno schermo gigante fu quella di un corteo di manifestanti che sfilava preceduto da un eloquente striscione: “Refugees Welcome ! Nessuno di noi è uguale fin quando non saremo tutti uguali”.

Mi accorgo che sto parlando troppo di musica sicchè è impossibile citare tanti altri autori impegnati sul terreno della solidarietà se non attraverso nomi e titoli dei loro brani: mi limito a ricordare, ad esempio, Graham Nash (Immigration Man), i Coldplay (Aliens), i Genesis (Illegal Alien), Chris Rea (Immigration Blues), Bruce Springsteen (Matamoros Banks), Neil Young (Southern man).

Ma non voglio sembrare un appassionato di musica che trascura sia la modernità che gli autori italiani.  Tra le stars più amate dai giovani, allora,  come non ricordare Manu Chao con il suo “Clandestino” ? “Vado da solo con la mia disgrazia..da sola va la mia condanna..perso nel cuore della grande Babilonia, mi dicono «il clandestino» perché non ho il visto; sono andato a lavorare, la mia vita la lasciai tra Ceuta e Gibilterra, la mia vita è vietata dice la giustizia, correre è il mio destino perché non ho il visto, mano nera, clandestina; messicano clandestino, marijuana illegale, boliviano clandestino, peruviano clandestino, albanese clandestino, grazie grazie.”

Chiudo quasi sempre i miei interventi, però, citando l’amato Franco Battiato e le parole di “Up Patriots to arms”, un brano il cui solo titolo invita tutti all’impegno sociale:“engagez vous..alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena e non è colpa mia se esistono carnefici, se esiste l’imbecillità, se le panchine sono piene di gente che sta male”.

La speranza è quella di far riflettere sulle parole delle canzoni che si ricordano spesso più di quelle dei libri e delle poesie, così da suscitare impegno per le battaglie civili e diffondere “controcomunicazione”

Mi piace ricordare, per chiudere sul rapporto tra musica e giustizia, che nel dicembre del 2018, pochi giorni prima del mio pensionamento, organizzai il saluto a tutti i magistrati, al personale della Sezione di P.G. ed al personale amministrativo della Procura di Torino, regalando a ciascuno due CD, in formato MP3, contenenti 160 pezzi : era il racconto della mia vita attraverso brani amati, scelti  tra quelli che più mi ricordavano pezzi della mia vita, soprattutto professionale .

Chiusi il saluto ai presenti invitandoli ad ascoltare ogni giorno, per qualche anno di seguito, Up & Up dei Coldplay (2015), assicurando che l’umore di tutti e la voglia di scendere in pista ne avrebbero tratto giovamento e forza.

Naturalmente sono state numerose anche le occasioni in cui mi è capitato di essere relatore in convegni sulla giustizia che partivano dalla proiezione di un film (ricordo due bei convegni a Milano, nel 2014 dopo la visione di “La Mafia uccide solo d’estate” e nel 2019 di “Il verdetto – The children Act”) o  dalla riflessione su un libro, come lo stupendo ed affollato evento torinese del 2011, nel corso della Biennale della Democrazia, dedicato a Stèphane Hessel – che colpì tutti con il suo eloquio tutt’altro che da 94enne –  ed al suo libro “Indignatevi”. Voglio chiudere, però, parlando di quello che un avvocato scrittore mi ha consentito: mi riferisco a Jacques Vergès, soprannominato l’avvocato del diavolo o l’avvocato delle cause perse, morto nel 2013 a 88 anni, amico di Pol Pot. Vergès difese khmer rossi e terroristi palestinesi, ma anche Ilitich Ramirez Sanchez, detto Carlos, il nazista Klaus Barbie (il boia di Lione), Tarek Aziz, ministro degli esteri nell’Iraq di Saddam Hussein e tanti altri noti personaggi. Vergès diceva che il processo è teatro, “un duello drammatico tra accusa e difesa durante il quale il difensore ed il pubblico ministero raccontano due storie non vere, ma verosimili” aggiungendo che il processo è sempre specchio della società dalla quale è prodotto. Quando in una nota intervista gli chiesero se avrebbe difeso anche Hitler, lui rispose dicendo “Sì, certo, io difenderei anche Bush! Difenderei chiunque ma solo se fosse d’accordo nel dichiararsi colpevole”. Ha scritto vari libri tra cui ricordo Strategia del processo politico (1969) e, per Liberilibri, Gli errori giudiziari (2011), Quant’erano belle le mie guerra (2012) e Giustizia e Letteratura (2012). Il 17.5.2015, la Camera Penale  di Milano organizzò un bellissimo ed affollato convegno sulla vita di Jacques Vergès, una splendida occasione – per me – di parlare del ruolo dell’avvocato (una professione che ho svolto prima di entrare in magistratura e mentre studiavo per il concorso) e di esprimere le mie motivate critiche verso i magistrati che quel ruolo non rispettano, spesso ignorando che  il processo penale non si celebra per “scrivere verità storiche”– quella di cui essi sono convinti – o “moralizzare la società”, ma solo per accertare responsabilità individuali con riferimento a specifici reati, confrontandosi con ogni alternativa possibilità.

La storia infatti ci insegna che coloro che credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, senza confrontarsi con ciò che li circonda e con la verità degli altri, spesso sbagliano, qualunque sia il campo in cui operano (la politica o la giustizia).

Fui particolarmente felice, quasi commosso, nel vedere tra i presenti nell’Aula Magna mio figlio Andrea: lui orgoglioso del suo lavoro di avvocato, io del modo scrupoloso in cui lo faceva.

Sconsiglio soltanto, a questo punto, la lettura di testi che celebrano, attraverso ipotesi affascinanti e senza prove, i falsi misteri della storia del nostro Paese: il caso Moro docet! Il mestiere del giurista e  quello dello storico impongono  imparzialità e ricerca della oggettività. So che molti criticheranno (come già avvenuto) queste affermazioni, ricordando quanto sia importante conoscere le interpretazioni che di tanti fenomeni, soprattutto criminali provengono dalla società e dal mondo della cultura, ma il magistrato non deve certo farsi orientare da quello che ho già definito – citando Dick Marty – il “pensiero dominante”.

Vorrei concludere questa lunga risposta ricordando che la “cultura larga” di cui parla Canzio non serve solo ai giuristi, ma anche a coloro che producono e sono protagonisti della cultura extragiuridica. L’ho constatato personalmente in varie occasioni, ad es. quando il compianto Antonio Tabucchi volle a lungo confrontarsi con me per meglio conoscere la storia della risposta istituzionale al terrorismo negli anni di piombo: gli serviva per un lungo articolo che scrisse su Le Monde rispondendo duramente agli “intellò” francesi che sostenevano l’innocenza di Cesare Battisti, affermando – come purtroppo in quegli anni avevano fatto alcuni magistrati, due dei quali, Pretori del lavoro,  furono disciplinarmente condannati nel 1984 a seguito di mia segnalazione – che il sistema italiano non aveva rispettato i diritti dei terroristi imputati. Lo ringraziai e decidemmo di scrivere un libro insieme proprio sul necessario confronto delle nostre rispettive culture, ma purtroppo non ne abbiamo avuto il tempo. Rammento infine, tra i tanti incontri, in pubblici ed interessanti convegni, con scrittori ed intellettuali anche stranieri, le discussioni con Luciano Canfora, sui falsi misteri d’Italia prima citati e sul rapporto tra politica e giustizia. Fu bellissimo, nel 2014 a Torino, il “Processo al Liceo Classico”: io presiedevo la Corte, Luciano fu testimone a difesa, numerosi i prestigiosi protagonisti – tra cui Umberto Eco ed alcuni economisti di peso –  di quel processo che vide il Liceo assolto con decisione unanime.

Dunque, andiamo avanti tutti con forza, incrementiamo la “cultura larga” e  parliamo di giustizia con tutti, a partire dagli studenti nelle scuole: questo mi sento di consigliare, senza presunzione alcuna ed anzi consapevole dei miei limiti, ai giovani magistrati. Insomma, “Up and UP” !

Fonte: Giustizia Insieme, 14/09/2021

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Ne valeva la pena

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