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Ergastolo ostativo: come salvarlo

Luca Tescaroli il . Giustizia, Istituzioni, Mafie

La giustizia del carcere

Nell’aderire a quanto stabilito nel 2019 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e mutando la valutazione operata il 24 aprile 2003, la Corte Costituzionale (ord. 15 aprile 2021, n. 97) ha creato i presupposti per ammettere i mafiosi ergastolani che non collaborano con la giustizia al beneficio della liberazione condizionale, una volta espiati 26 anni di reclusione, decurtabili di 45 giorni ogni semestre di pena scontata, in virtù della liberazione anticipata, e dunque dopo circa un ventennio.

Ha ritenuto, infatti, il regime vigente incompatibile con il principio di rieducazione della pena: scelta che di fatto potrebbe cancellare l’ergastolo ostativo, fulcro della normativa antimafia promossa da Giovanni Falcone.

Se appare apprezzabile l’aver rimesso al legislatore l’intervento normativo entro il 10 maggio 2022 per disciplinare la materia senza procedere a un intervento “demolitorio” immediato, occorre chiedersi se la disciplina vigente sia davvero incompatibile con la Carta Costituzionale e quali soluzioni possano essere adottate.

Invero, l’incostituzionalità non sussiste se si considera che la condotta del mafioso ergastolano incide direttamente o indirettamente su plurimi valori costituzionali, vale a dire i diritti inviolabili (art. 2 Cost.) – quali la libertà personale, l’uguaglianza, il diritto alla vita e alla sicurezza – ed entra in tensione anche con il principio per cui le prestazioni personali e patrimoniali possono essere imposte solo sulla base della legge (impone il pagamento di tributi paralleli rispetto a quelli previsti dallo Stato, come il sistematico pizzo agli operatori economici), incide sull’iniziativa economica privata libera, sul diritto di proprietà e sulla sua funzione sociale. Si ingerisce, infatti, ancor oggi nella gestione delle imprese attraverso l’erogazione di prestiti e nella successiva loro appropriazione a fronte dell’incapacità di onorare i debiti. Condiziona la libera concorrenza, vulnerando l’uguaglianza tra tutti gli operatori economici.

Esponenti di cosa nostra sono giunti ad attuare attacchi terroristico-eversivi al cuore dello Stato, ponendo in essere otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) nel triennio 92-94, con la prospettiva di ricattare esponenti delle istituzioni (abolire l’ergastolo, eliminare il 41 bis e la legge sui collaboratori di giustizia in cambio della cessazione delle stragi), condizionando la politica e la funzione legislativa, che è riservata al Parlamento e al Governo, arrivando persino a condizionare, con la strage di Capaci, la nomina del Presidente della Repubblica (Scalfaro), riservata al Parlamento in seduta comune dei suoi membri. E non è stata accertata tutta la verità in ordine a tali eventi stragisti, uno dei principali esecutori di quello stragismo, Matteo Messina Denaro, continua a essere latitante.

Si tratta di una specifica realtà criminale non conosciuta dal resto dell’Europa.

Rimuovere gli ostacoli che limitano i diritti fondamentali è compito precipuo della Repubblica, che lo ha fatto sino a oggi efficacemente con il varo di un’appropriata legislazione, che ha saputo incentivare la collaborazione con la giustizia. Una scelta che costituisce una direttrice di politica criminale propria del legislatore incompatibile con la mera dissociazione manifestata dal detenuto con l’assunzione delle proprie responsabilità. Pertanto, la sola collaborazione dovrebbe espressamente essere indicata quale criterio vincolante per il giudice al fine di escludere la possibilità di accedere al beneficio della liberazione condizionale, posto che, ove fosse per così dire ‘istituzionalizzata’ la dissociazione, ne deriverebbe una valenza evidentemente disincentivante per le collaborazioni non esponendo a conseguenze il condannato, non essendo la scelta irreversibile (a differenza della collaborazione) e non creando pregiudizio al sodalizio, consentendogli di perpetuare la sua esistenza.

Vari esponenti del crimine mafioso hanno cercato di ricorrere alla dissociazione nel quadro di una precisa strategia funzionale a ottenere benefici: sul finire del 2000-inizi del 2001, alcuni esponenti di vertice di cosa nostra, tentarono di avviare un dialogo mostrando una disponibilità ad ammettere le proprie responsabilità, senza accusare i propri complici; di recente anche Filippo Graviano ed esponenti della camorra stanno percorrendo la medesima strada.

I mafiosi irriducibili che non accedono alla collaborazione giurano fedeltà perpetua all’organizzazione e il loro status è per sempre. Si può fuoriuscire dal sodalizio solo con la morte o con la collaborazione, sicché la rieducazione dell’ergastolano mafioso non può funzionare per gli irriducibili. L’appartenente al sodalizio che collabora realmente compie una scelta irreversibile di rottura, che lo espone addirittura al pericolo concreto di vita una volta ritornato in libertà (a titolo esemplificativo, si pensi all’assassinio di Claudio Sicilia, esponente della Banda della Magliana) o a vendette “trasversali”, rischio che non viene corso da chi si limita a una dissociazione.

Perciò, il legislatore potrebbe virare sul mantenimento, a tempo, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato che non collabora, pur essendo nelle condizioni di farlo, sino all’annientamento della relativa organizzazione e ciò limitatamente agli esponenti di vertice dei tradizionali gruppi mafiosi che siano in grado di fornire collaborazioni di peso, documentate da provvedimenti giurisdizionali e da relazioni delle procure distrettuali interessate dalla gestione del collaboratore e dalla Procura Nazionale.

Senza il decisivo requisito della collaborazione severamente controllata e riscontrata manca ogni fattore obiettivo a cui ricollegare il distacco dal consorzio mafioso. L’accesso alla liberazione condizionale, come agli altri benefici della semilibertà o al lavoro esterno, potrebbe rivelarsi estremamente pericoloso, come ci ricorda il recente esempio di Antonio Gallea, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di Rosario Livatino, rientrato in posizione di comando nella sua organizzazione (stidda).

È razionale differenziare nell’accesso ai benefici penitenziari il condannato mafioso, soprattutto se riveste ruoli di comando, dagli altri condannati che rientrano nella categoria del I c. dell’art. 4 bis O. P. e, in particolare, dal condannato terrorista all’ergastolo, perché difformi sono le strutture associative di appartenenza.

* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 11/09/2021

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