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Vi racconto “Il Potere segreto” e perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks

Stefania Maurizi il . Giustizia, Informazione, Internazionale, Politica, Società

Per gentile concessione di Chiarelettere Editore, pubblichiamo un abstract dal nuovo libro di Stefania Maurizi intitolato “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks”, uscito la scorsa settimana e tra le fonti utilizzate per la realizzazione della nuova puntata di “Presa Diretta”, la trasmissione di Riccardo Iacona.

L’inchiesta è intitolata “Julian Assange, processo al giornalismo” e andrà in onda lunedì 30 agosto alle 21.20 su Rai 3 e e in streaming su Rai Play.


Una telefonata nella notte

Sfuggenti e misteriosi, chi erano Julian Assange e WikiLeaks? Ci volle tempo prima che riuscissi a stabilire un rapporto con loro.

Per capire di più, contattai attivisti, esperti di segreti di Stato e di crittografia: ogni contatto e ogni brandello di informazione era utile per capire con chi avevo a che fare. Inizialmente WikiLeaks era strutturata come una wiki: accettava documenti, li analizzava e li pubblicava, chiedendo a chiunque di contribuire a esaminarli e portare avanti un dibattito pubblico su di essi, come fosse una sorta di forum. Non lavorava sistematicamente con i giornalisti, come solo negli anni successivi iniziò a fare.

Una notte, però, chiese il mio aiuto.

Era l’estate del 2009. Quando il telefono squillò era notte fonda: faticai ad alzarmi, ma il mio cellulare suonava senza tregua e alla fine mi tirai su. «Siamo WikiLeaks» mi sentii dire.

Riuscivo a malapena a capire cosa stava succedendo, ma compresi che la persona al telefono era Daniel Schmitt, l’allora portavoce di WikiLeaks, e che avevo un’ora di tempo per scaricare un file da internet, perché poi l’avrebbero rimosso per evitare che altri potessero accedervi. Mi disse che stavano facendo alcune verifiche sull’autenticità del documento e su quanto rivelava. «Puoi dare una mano?» mi chiese.

Scaricai subito il file e iniziai a esaminarlo. Era una registrazione che risaliva al luglio del 2008. Si sentiva l’allora assessore all’Ambiente della Regione Campania, Walter Ganapini, raccontare della crisi dei rifiuti che aveva fatto finire le immagini di Napoli, sommersa dalla spazzatura, su tutti i giornali e le televisioni del mondo. Ex presidente di Greenpeace, Ganapini era stato chiamato in Campania dal governatore Antonio Bassolino nei giorni dello scandalo e aveva ricoperto quella carica dal febbraio del 2008, quando il secondo governo di Romano Prodi era appena caduto, al marzo del 2010, nel mezzo del quarto governo di Silvio Berlusconi. Erano gli anni in cui era presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

L’uomo forte della partita, però, non era l’assessore all’Ambiente Ganapini, bensì il commissario straordinario per l’emergenza rifiuti Gianni De Gennaro, che poi andò al Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, l’organo di coordinamento dell’intelligence italiana.

All’epoca della crisi, mentre Ganapini incontrava comitati cittadini e associazioni, qualcuno aveva registrato una delle conversazioni e l’aveva fatta arrivare a WikiLeaks. Nel lungo file di oltre tre ore l’assessore analizzava perché si era arrivati a quella situazione quando – stando alle sue parole – era disponibile una discarica come quella di Parco Saurino, che avrebbe potuto accogliere l’immondizia della Campania per sei mesi, evitando quindi quella crisi drammatica.

«Su Parco Saurino» diceva Ganapini «io ho negoziato un giorno con l’attuale capo dei servizi segreti, che è una cosa seria essere il capo dei servizi segreti.» L’assessore continuava: «Certamente quell’oggetto è un mistero della Repubblica e ce lo siamo detto, perché [Romano] Prodi si sia assunto le responsabilità che si è assunto ancora non è chiaro, ma quando il coordinatore dei servizi segreti ti dice per due volte, urlando: “Si è esposta due volte la presidenza della Repubblica”, se non sei ubriaco e se sei una persona, ti parametri un attimo e decidi cosa vuoi fare».

«C’entra la presidenza della Repubblica, niente di meno?» chiedeva uno dei presenti all’incontro.

E l’assessore rispondeva: «Sai, quando il capo dei servizi segreti due volte ti dice: “Hai capito [?!] che è intervenuta la presidenza della Repubblica”, io o gli do dell’ubriaco a lui o ragiono».

La registrazione apriva uno squarcio sul possibile ruolo dei servizi segreti italiani nella crisi dei rifiuti in Campania e, in particolare, su quello che Ganapini definiva un «mistero della Repubblica»: il sito di Parco Saurino, nell’area casertana di Santa Maria La Fossa, nel cuore del regno dei Casalesi. L’assessore alludeva a un intervento degli apparati dello Stato: «Io ho lavorato molto in Sicilia» aggiungeva, «io capisco che in questo paese esistono le negoziazioni Stato contro Stato».

Particolarmente inquietante, poi, era il passaggio in cui Ganapini raccontava di aver subito un tentativo di aggressione a piazza del Gesù, nel cuore di Napoli, da parte di quattro persone con il casco integrale. «Gli avvertimenti li ho ricevuti, diciamo, rispetto al fatto che avevo visto qualcosa che non dovevo» spiegava.

Quella notte WikiLeaks non aveva solo condiviso con me il file, mi aveva anche messa in contatto con qualcuno che conosceva alcuni dei fatti riferiti nella registrazione e mi aveva chiesto di fare tutte le verifiche che ritenevo necessarie. Nei giorni seguenti contattai varie persone, primo fra tutti Ganapini, menzionando uno stralcio di pochi minuti che era finito poco tempo prima su YouTube ed era stato ripreso dal quotidiano «la Repubblica». L’assessore lo aveva liquidato come un lavoro montato ad arte, eppure nella registrazione di oltre tre ore, che avevo potuto ascoltare, c’erano tutti gli elementi citati su YouTube. Di fronte alle mie domande precise e circostanziate, Ganapini alzò un muro, confermando solo le minacce e il brutto incontro a piazza del Gesù.

Dopo una serie di verifiche, il 6 agosto 2009 pubblicai un articolo con gli stralci più significativi della registrazione su «L’Espresso» [15] – in quegli anni, infatti, lavoravo per il noto settimanale, che aveva già fatto inchieste importanti sulla crisi dei rifiuti in Campania – mentre WikiLeaks pubblicò il file audio sul suo sito. [16] Con quel documento Julian Assange e la sua organizzazione erano passati dai segreti di Guantánamo ai misteri della Repubblica italiana. Dopo la pubblicazione di quel file, però, non riuscii più a contattare WikiLeaks per settimane. Spariti.

Come un gruppo di ribelli

Avevo provato a rintracciarli, ma ogni tentativo era stato inutile. Avevo capito che, dal punto di vista logistico, operavano così. Come un gruppo di ribelli che fa un blitz e poi si dilegua, colpivano e poi sparivano. Cambiavano contatti e avevano un’acuta consapevolezza della sorveglianza che forze di polizia, eserciti, servizi segreti, giganti della finanza mettevano in campo contro i giornalisti che percepivano come una minaccia. Del resto, era proprio questo che mi aveva portato a interessarmi a loro, quando la mia fonte aveva smesso di parlare con me. Per il momento si erano dileguati nel nulla, ma sapevo che prima o poi si sarebbero materializzati di nuovo. Nel frattempo seguivo il loro lavoro a distanza.

Nel settembre del 2009, a Londra, due colossi del giornalismo come la Bbc e il quotidiano «The Guardian» avevano rivelato che una nave aveva scaricato rifiuti tossici della multinazionale del trading petrolifero Trafigura al largo della Costa d’Avorio. Secondo stime ufficiali, successivamente citate dalle Nazioni unite, 15 persone erano morte, 69 erano state ricoverate e oltre 108.000 avevano bisogno di cure mediche. [17] Ma Trafigura negava tanta devastazione e, per fermare lo scandalo, aveva arruolato uno dei più aggressivi studi legali di Londra specializzati in querele contro i media: Carter-Ruck. La Bbc iniziò a ritirare i suoi servizi sul caso, mentre il «Guardian» aveva in mano un dossier, il Minton Report, che confermava la pericolosità dei rifiuti: «Questi composti» recitava il documento «sono in grado di causare gravi effetti alla salute umana, se inalati o ingeriti. Tra gli effetti ci sono: mal di testa, difficoltà respiratorie, nausea, irritazione oculare, ulcerazioni della pelle, stato di incoscienza e morte».

La ricerca alla base del Minton Report era stata commissionata da consulenti della multinazionale stessa, che quindi sapeva. [18] Qualcuno aveva fatto arrivare una copia del rapporto al quotidiano londinese. Trafigura, però, ricorse al giudice e mise il «Guardian» sotto scacco con una super-injunction, un provvedimento giudiziario che non solo vietava al giornale di pubblicare il documento, ma gli imponeva anche di non rivelare ai lettori di essere sotto censura per ordine del giudice. Furono WikiLeaks e alcuni giornali stranieri a pubblicare il rapporto.[19] Blog e social network, in particolare Twitter, fecero il resto, tanto che milioni di persone iniziarono a cercarlo su internet. Per il gigante del trading petrolifero fu una sonora sconfitta.

Come con la banca Julius Baer, così con Trafigura, WikiLeaks aveva bypassato la censura perché era stata progettata anche per questo scopo. Mentre le multinazionali utilizzano i buchi delle diverse giurisdizioni per sfuggire a leggi e fisco, la creatura di Assange utilizzava la sua struttura globale di organizzazione giornalistica figlia della rete per cercare di allargare le maglie della libertà di stampa.

Passarono appena due mesi dal caso Trafigura e a novembre 2009 WikiLeaks mise a segno un altro grande scoop: rivelò oltre mezzo milione di messaggi di cittadini americani registrati l’11 settembre 2001, in un arco di tempo che andava da cinque ore prima dell’attacco a ventiquattro ore dopo. [20]

I messaggi pubblicati da WikiLeaks erano stati scambiati attraverso quella che allora era una tecnologia diffusa negli Stati Uniti e non solo: i cercapersone, in inglese pagers, dispositivi – poi completamente superati dai telefoni cellulari – che venivano usati anche da funzionari delle agenzie governative come l’Fbi, il Pentagono o il Dipartimento di polizia di New York. Le comunicazioni intercettate contenevano messaggi di cittadini comuni, ma anche informazioni dal campo che svelavano come alcune autorità federali avevano risposto all’emergenza, per esempio trasmettendo istruzioni per garantire l’operatività delle istituzioni in un momento tanto drammatico. «Chi poteva aver intercettato quelle comunicazioni?» si era subito chiesto il guru della sicurezza informatica Bruce Schneier, commentando le rivelazioni di WikiLeaks. Qualcuno doveva esserne entrato in possesso e averle inviate all’organizzazione di Assange. «È inquietante sapere che qualcuno, forse neppure un governo, intercettava regolarmente la maggior parte (o forse tutti) i dati dei cercapersone nel Lower Manhattan fin dal 2001. Chi? E per quale scopo? Questo non lo sappiamo» concludeva Schneier. [21]

Passarono poco più di tre mesi dopo questo grande scoop e WikiLeaks si materializzò di nuovo.

 

Distruggere WikiLeaks

Stavolta a farsi vivo fu Julian Assange. Era marzo del 2010. Voleva richiamare la mia attenzione su un documento segreto dell’amministrazione Bush che la sua organizzazione aveva appena pubblicato.

Il file riguardava proprio WikiLeaks ed era un’analisi condotta dall’Army Counterintelligence Center (Acic), il centro di controspionaggio militare specializzato nell’individuare entità che possano rappresentare una minaccia per le truppe americane, le loro strutture e informazioni. Il documento descriveva l’organizzazione di Assange in questo modo: «È stata fondata da dissidenti cinesi, giornalisti, matematici ed esperti di tecnologia degli Stati Uniti, Cina, Taiwan, Europa, Australia e Sudafrica. Il suo sito web ha iniziato a operare nei primi mesi del 2007. Il gruppo dei consulenti di WikiLeaks.org include giornalisti, crittografi, un “ex analista dell’intelligence Usa” ed espatriati delle comunità di rifugiati cinesi, russi e tibetani». [22]

La descrizione di WikiLeaks come un’organizzazione fondata da dissidenti, giornalisti, matematici ed espatriati coincideva con quella presente sul suo stesso sito e il controspionaggio americano non contestava né mostrava alcuna forma di scetticismo sulla veridicità di quell’informazione che riferiva di un lavoro collettivo dietro la sua creazione.

Quanto ad Assange, il documento lo definiva così: «È un ex hacker condannato [23] dalle autorità australiane per aver violato le reti informatiche del governo americano e del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti nel 1997. È ampiamente noto per il suo supporto a iniziative che promuovono la trasparenza dei governi, ideologicamente di sinistra, con posizioni antiamericane e si oppone alla guerra globale contro il terrorismo».

Il documento andava avanti argomentando che, poiché chiunque poteva caricare su WikiLeaks un file, senza alcun «controllo  editoriale che ne verifichi l’accuratezza», il sito «potrebbe essere usato per pubblicare informazioni false, scorrette o per fare operazioni di disinformazione e propaganda». Se davvero l’organizzazione di Assange non avesse verificato l’autenticità dei documenti prima di pubblicarli, effettivamente questo rischio sarebbe stato reale, ma la mia esperienza personale smentiva quell’affermazione del controspionaggio americano.

È vero che fino a quel momento avevo avuto pochi contatti con WikiLeaks, ma da quelle poche interazioni avevo capito che i file erano invece sottoposti a verifica, anche perché, come avevo colto fin dall’inizio, all’interno circolava una notevole dose di paranoia. E cosa c’è di più facile che distruggere la credibilità di un’organizzazione giornalistica inviandole documenti falsi, per poi aspettare che vengano pubblicati e gridare al falso?

L’analisi del controspionaggio Usa, tuttavia, coglieva in pieno lo scopo della creatura di Assange: «L’obiettivo di WikiLeaks.org è assicurare che l’informazione fatta filtrare (leaked) venga distribuita attraverso molte giurisdizioni, organizzazioni e individui, in modo che una volta diffusa su internet sia estremamente difficile far sparire del tutto la documentazione».

Era proprio quello che Assange e il suo staff avevano fatto per bypassare la censura nel caso Julius Baer e Trafigura, superando così le limitazioni e le barriere legali dei media tradizionali.

Il file segreto elencava alcuni degli strumenti usati da WikiLeaks per proteggere le fonti che inviavano documenti, come PGP e Tor, il software che consente a un utente di navigare in rete protetto, perché rende difficile, a chi lo sorveglia, scoprire quali siti sta visitando e che attività sta conducendo. Nel riconoscere che lo staff dell’organizzazione di Assange «dimostrava capacità tecniche di alto livello e ingegnosità», non escludeva che «avrebbe potuto ottenere tecnologie, mezzi di trasmissione e di cifratura ancora più sicuri, nel caso in cui fosse riuscito ad avere maggiori risorse finanziarie». Nonostante ciò, secondo il documento, un avversario con capacità e mezzi «poteva cercare accesso al sito e alle sue reti, e questo avrebbe potuto consentire di identificare le persone che fornivano i documenti e i mezzi con cui venivano trasmessi».

Stando a quell’analisi, diverse nazioni, «tra cui Cina, Israele, Corea del Nord, Russia, Vietnam e Zimbabwe, avevano denunciato e bloccato WikiLeaks per impedire ai loro cittadini o agli avversari di accedere a informazioni sensibili, imbarazzanti o di presunta propaganda». Il governo degli Stati Uniti, invece, fino a quel momento non l’aveva censurata, eppure il file rivelava nero su bianco come il controspionaggio Usa guardasse a WikiLeaks: «Rappresenta una potenziale minaccia per l’esercito degli Stati Uniti» affermava, perché la possibilità che un dipendente del governo americano fornisse informazioni sensibili o segrete al sito non poteva «essere esclusa».

Avendo concluso che rappresentava una minaccia, WikiLeaks andava distrutta. Come? Con metodi più presentabili di quelli usati da regimi come la Cina o paesi come Israele, che, secondo quanto rivelava il documento, risolvevano il problema alla radice con strumenti autoritari, come la denuncia e la censura completa. Ma sebbene le intenzioni degli Stati Uniti fossero più presentabili, non per questo erano meno gravi. «Siti come WikiLeaks.org» recitava il file «usano la fiducia come centro di gravità, proteggendo l’anonimato degli insider, delle fonti e dei whistleblower. Smascherando l’identità di chi fornisce documenti, denunciandoli, licenziandoli dal posto di lavoro, incriminandoli, possiamo danneggiare o distruggere quel centro di gravità.»

Quando lessi questo documento rimasi impressionata. Il file portava la data di marzo del 2008. WikiLeaks era stata fondata il 4 ottobre 2006: aveva poco più di un anno quando il controspionaggio di una superpotenza, gli Stati Uniti, aveva già deciso che andava distrutta, perseguitando le sue fonti, individuando, licenziando e mettendo in prigione chi inviava file che non dovevano essere resi pubblici, tipo quello sul lager di Guantánamo.

Togliendo di mezzo un’organizzazione aggressiva come quella di Assange, che aveva avuto il coraggio di dire no al Pentagono, il megafono dell’informazione sarebbe rimasto ampiamente nelle mani dei vecchi media, che in tanti casi – anche se non in tutti – si erano rivelati supini alle richieste di un governo come quello americano, la cui influenza raggiunge ogni angolo del pianeta. WikiLeaks andava neutralizzata proprio perché non era parte di quel club e non giocava secondo le sue regole.

La situazione appariva problematica su tutti i fronti: regimi come la Cina, secondo il documento, la stroncavano sul nascere, censurandola, mentre democrazie come gli Stati Uniti pianificavano di distruggerla con tecniche più presentabili ma comunque incompatibili con la libertà di stampa, come l’attacco alle sue fonti giornalistiche e ai whistleblower che rivelavano abusi. Che futuro si preparava per Julian Assange e WikiLeaks?


Note

[15] Stefania Maurizi, Dai rifiuti spunta lo 007, in «L’Espresso», 6 agosto 2009, consultabile al link: https://espresso.repubblica.it/palazzo/2009/08/06/news/dai-rifiuti-spunta-lo-007-1.15163 e sul sito di WikiLeaks al link: https://wikileaks.org/wiki/Dai_rifiuti_spunta_lo_007.

[16] Il file è accessibile a chiunque sul sito di WikiLeaks al link: https://wikileaks.org/wiki/Ganapini_servizi_segreti_presidenza_della_repubblica,_1-4_Jul_2008.

[17] Queste stime sono riportate anche nel report delle Nazioni unite Ten years on, the survivors of illegal toxic waste dumping in Côte d’Ivoire remain in the dark, 19 agosto 2016.

[18] David Leigh, Minton Report: Carter-Ruck give up bid to keep Trafigura study secret, in «The Guardian», 16 ottobre 2009.

[19] Il Minton Report è accessibile a chiunque sul sito di WikiLeaks al link: https://wikileaks.org/wiki/Minton_report

[20] I messaggi sono accessibili a chiunque sul sito di WikiLeaks al link: https://911.wikileaks.org/files/index.html.

[21] Post pubblicato da Bruce Schneier il 26 novembre 2009 sul suo blog www.schneier.com.

[22] Il file è accessibile a chiunque sul sito di WikiLeaks al link: https://file.wikileaks.org/file/us-intel-wikileaks.pdf.

[23] L’informazione riportata dal controspionaggio americano non è corretta. È vero che, da teenager, Julian Assange era stato un hacker, ma i reati per cui fu condannato nel dicembre del 1996 – non nel 1997, come afferma erroneamente il documento – consistevano nell’hackeraggio della compagnia telefonica Nortel, non delle reti del governo americano, come spiegherò più avanti.


Abstract: Stefania Maurizi, “IL POTERE SEGRETO. Perché vogliono distruggere Julian Assange e Wikileaks”, Chiarelettere, Milano 2021

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