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A vent’anni da Genova 2001: non dimenticare, ma guardando avanti

Magistratura democratica il . Brevi, Cultura, Memoria, Politica, Società

L’articolo 13, quarto comma, della Costituzione prevede che sia punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.

Si tratta dell’unico obbligo di incriminazione espresso dalla nostra Costituzione antifascista, che raccoglieva la memoria ancora bruciante delle violenze del regime contro i dissidenti e gli oppositori politici.

Il rilievo costituzionale conferito alla protezione delle persone “ristrette” – termine che richiama non solo lo stato di detenzione e di internamento in r.e.m.s., così come di  arresto e fermo, ma anche il trattamento sanitario obbligatorio e  il trattenimento nei Centri di permanenza per i rimpatri – richiede un’assoluta effettività della giurisdizione sulle violazioni dei diritti umani che vedono coinvolte le Forze dell’ordine, anzitutto nella fase delle indagini per l’accertamento dei fatti e delle responsabilità e poi nell’esercizio dell’azione penale e nel processo.

A vent’anni dai fatti di Genova ci troviamo invece a constatare la persistente difficoltà della giurisdizione nell’entrare in profondità nei fatti di abuso contro le persone private della libertà, nell’accertare le reali dinamiche degli eventi e nello stabilire le responsabilità dei singoli pubblici ufficiali.

Impossibilità, in molti casi, di individuare gli agenti responsabili, omertà istituzionale e puntuali attività di depistaggio rappresentano una costante di queste vicende che non si sono certo esaurite nel 2001: ricordiamo infatti, tra le tante vittime successive, Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi.

Non ha costituito un reale  punto di svolta l’introduzione nel codice penale, con Legge n. 110 del 2017, del reato di tortura; nonostante si tratti di un’innovazione legislativa apprezzabile – e  peraltro attuata con molto ritardo rispetto alla ratifica, nel 1988, della Convenzione ONU contro la tortura del 1984 -, il testo uscito dall’iter parlamentare non si caratterizza per chiarezza dei presupposti bensì per formulazioni non facilissime da comprendere (come il riferimento a condotte declinate solo  al plurale, o alla “verificabilità” del trauma psichico della vittima) e quindi idonee a causare incertezza e controvertibilità nell’interpretazione.

Oggi, davanti alle drammatiche immagini delle violenze sui detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, pur nella doverosa attesa del lavoro della magistratura inquirente e fermo il principio di presunzione di non colpevolezza delle persone iscritte nel registro degli indagati, si avverte il rischio che torni a ripetersi uno scenario oscuro nel quale la confusione e  i tentativi – in parte già emersi dalle intercettazioni rese pubbliche – di alterazione delle fonti di prova rendano ancora una volta estremamente difficoltoso il cammino della giustizia.

Proprio pronunciandosi sui fatti di Genova, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sentenza del 7 aprile 2015 – Cestaro c. Italia), ha riaffermato che, quando una persona sostiene di avere subito, da parte della polizia o di altri servizi analoghi dello Stato, un trattamento contrario all’articolo 3 della Convezione Edu, tale disposizione, combinata con il dovere generale imposto allo Stato dall’articolo 1, di «riconoscere a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà definiti (…) [nella] Convenzione», richiede, per implicazione, che vi sia un’inchiesta ufficiale effettiva e che tale inchiesta deve poter portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili. «Se così non fosse, nonostante la sua importanza fondamentale, il divieto legale generale della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti sarebbe inefficace nella pratica, e sarebbe possibile in alcuni casi per gli agenti dello Stato calpestare, godendo di una quasi impunità, i diritti di coloro che sono sottoposti al loro controllo».

In relazione alla mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti nella scuola Diaz-Pertini,  la Corte ha ribadito che è contraria alla Convenzione l’impossibilità di identificare i membri delle forze dell’ordine, presunti autori di atti contrari alla stessa, e che, quando le autorità nazionali competenti schierano i poliziotti con il viso coperto per mantenere l’ordine pubblico o effettuare un arresto, questi agenti sono tenuti a portare un segno distintivo – ad esempio un numero di matricola – che, pur preservando il loro anonimato, permetta di identificarli in vista della loro audizione qualora il compimento dell’operazione venga successivamente contestato (Ataykaya c. Turchia, n. 50275/08, 22 luglio 2014, § 53; Hristovi c. Bulgarie, no 42697/05, § 92, 11 ottobre 2011, et Özalp Ulusoy c. Turquie, no 9049/06, § 54, 4 giugno 2013).

Sin dal 2012, nella risoluzione sulla situazione dei diritti fondamentali nell’Unione europea, esprimendo preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell’UE, il Parlamento europeo invitava gli Stati membri a introdurre misure per rafforzare il controllo giuridico e democratico delle autorità incaricate dell’applicazione della legge, per garantire una assunzione di responsabilità e per escludere l’immunità, in particolare per i casi di uso sproporzionato della forza e di torture o trattamenti inumani o degradanti, e raccomandava per questo l’introduzione per  il personale di polizia di un numero identificativo.

Come da molti in questi giorni sottolineato, occorre dunque ripensare ai modelli organizzativi delle agenzie di polizia e agli strumenti  –  come i codici o i numeri indentificativi individuali per rendere  identificabili i singoli agenti e funzionari – che favoriscano una effettiva prevenzione di violazioni dei diritti umani delle persone ristrette e un più efficace controllo, amministrativo e giudiziario, sull’operato delle Forze dell’ordine: a garanzia delle persone private della libertà, certo,  ma anche a garanzia di tutti gli agenti che svolgono correttamente il loro servizio.

Insistere oggi, come e più di vent’anni fa, per la migliore attuazione della speciale protezione che la Costituzione assegna alla persone private della loro libertà è il modo più sincero e soprattutto più propositivo di ricordare le immagini indelebili della Caserma di Bolzaneto e della scuola Diaz.

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