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Riflessioni a margine su Corte Costituzionale ed ergastolo ostativo: molti dubbi e poche certezze

Ottavio Sferlazza * il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Politica, Società

La discussione è aperta. Questo abbiamo scritto in occasione della presentazione dei primi due commenti all’ordinanza della Corte costituzionale n. 97/2021 in tema di ergastolo ostativo.

Non si tratta soltanto di un ammonimento cronologico, ma anche di un principio metodologico, che impone di dare voce a contributi che esprimono dubbi sulla decisione della Corte e si propongono, de jure condendo, di mantenere alta l’attenzione del legislatore sulle esigenze di difesa sociale.

«…ci sono crimini che gli uomini non possono né punire né perdonare. 
Quando l'impossibile è stato reso possibile, 
è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile, 
che non poteva più essere compreso e spiegato coi malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia, del risentimento; 
e che quindi la collera non poteva vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire».

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo

La decisione della Corte

Il nucleo centrale della complessa questione relativa al c.d. ergastolo ostativo è costituito, come è noto, dal contrasto o meno con i principi e valori costituzionali – primo fra tutti, la funzione risocializzante della pena prevista dall’art. 27, comma 3 cost.- della preclusione all’accesso al beneficio della liberazione condizionale per i condannati all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi del c.d. metodo mafioso, vale a dire delle condizioni previste dall’art. art. 7 DL n.152/1991, così come riformulato nell’art. 416 bis I c.p., introdotto dall’art. 5, comma 1, lett. d) D.L.vo 1/3/2018, n.21.

L’operatività di tale preclusione, prevista dall’art.4 bis comma 1 della L. n. 354/75, è esclusa solo nei casi di detenuti o internati che collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58 ter L. cit.

La Corte Costituzionale, con ordinanza n.97/2021 del 15/4/2021, depositata in data 11/5/2021, pur lasciando ragionevolmente presagire una delibazione incidentale adesiva alla tesi della incostituzionalità della norma citata, prospettata dalla Corte di Cassazione con l’ordinanza di rimessione del 3/6/2020, depositata il 18/6/ 2020, ha tuttavia fissato un congruo termine dilatorio per la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Suprema Corte sul rilievo che “Un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame” e che pertanto “esigenze di collaborazione istituzionale impongono a questa Corte di disporre, facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale, il rinvio del giudizio in corso e di fissare una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale in esame all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia”.

L’autorevolezza della decisione, nella quale possono cogliersi univoci segnali di esplicito riconoscimento di “ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata”(cfr. par. 11, secondo periodo ord. cit) ed il largo consenso registratosi in ampi settori della dottrina e della magistratura più progressista, nella quale mi sono sempre riconosciuto, non possono tuttavia esimere chi abbia a cuore l’esigenza di tutela della collettività ed al contempo la tutela di diritti fondamentali dal dovere di esprimere dubbi e riserve, che ancora oggi possono essere legittimamente sollevati, pur nella consapevolezza della esistenza di molteplici profili di distonia nell’attuale disciplina normativa rispetto ad alcuni valori fondanti di uno Stato costituzionale di diritto.

Con l’intento di fornire solo alcuni spunti di riflessione, senza certezze né morali né giuridiche, desidero affidare alcune considerazioni al dibattito che certamente l’ordinanza del Giudice delle leggi e l’auspicato intervento legislativo continueranno ad animare.

Il bilanciamento nello Stato costituzionale 

Come è noto, nello Stato costituzionale di diritto, secondo il correlativo paradigma giuridico del neocostituzionalismo, i diritti fondamentali, per quanto proclamati inviolabili, di fatto possono interferire tra loro e subire delle ragionevoli limitazioni.

Caratteristica tipica di questo modello costituzionale è la collocazione dei diritti fondamentali su un piano di parità più che di relazioni gerarchiche sì da consentire che, nei congrui casi, la tutela di uno di essi, pur limitando la tutela di un altro, che in concreto interferisca con il primo, non ne determini il sacrificio ma solo una parziale limitazione.

Il diritto fondamentale che in un caso risulti recessivo o soccombente rispetto ad un altro in base al criterio del ragionevole sacrificio per la concreta tutela di un valore ritenuto prevalente, potrà riespandersi in tutta la sua pienezza e prevalere in altri casi su altri diritti e sui correlativi principi e valori che vi sono sottesi.

Tra i parametri non scritti, alla stregua dei quali il Giudice delle leggi opera il sindacato di costituzionalità, certamente il principio di “ragionevolezza” ha finito per assumere la funzione di quello che mi piace definire come una sorta di “grimaldello ermeneutico”, traducendosi in un sindacato sull’eccesso di potere legislativo che si avvicina ad un vero e proprio giudizio di merito, nel senso che viene in rilievo la stessa “giustizia” della legge.

Un altro criterio di controllo della legittimità costituzionale delle leggi è rappresentato dalla “razionalità”; più precisamente, nella versione prudenziale accolta dalla Corte: si parla di “non manifesta irrazionalità” e “non manifesta irragionevolezza”.

La razionalità consiste nella “coerenza del sistema normativo”; la ragionevolezza nella “congruità della soluzione normativa alle caratteristiche di senso e di valore del caso disciplinato, congruità valutata non liberamente ma alla stregua dei principi costituzionali”. [1]

Il principio di ragionevolezza ha fatto superare le categorie “merito -legittimità”.

La necessità di una sintesi tra ragionevolezza e principi supremi si traduce sul piano ermeneutico nella sintesi, o complementarietà, tra piano logico, assiologico e teleologico dell’interpretazione stessa.

In altri termini, l’approccio ermeneutico in sede di scrutinio di legittimità costituzionale deve tener conto non solo di un parametro di razionalità intrinseca delle norme ma anche di un ordine valoriale e delle finalità.

E appena il caso di rilevare che il bilanciamento – che nella sua concreta attuazione si atteggia come tecnica argomentativa – implica necessariamente la formulazione di giudizi di valore, cioè valutazioni etico-politiche ineliminabili che condizionano il ragionamento giuridico ed il risultato della opzione assiologica che vi è sottesa.

Tanto premesso, fin dal primo momento in cui è stato avviato un serrato dibattito sui possibili profili di contrasto della disciplina del c.d. ergastolo ostativo con valori e principi fondamentali riconosciuti dalla nostra carta costituzionale, mi sono a lungo interrogato sulla compatibilità tra il regime preclusivo all’accesso a determinati benefici ed il quadro normativo costituzionale di riferimento.

Devo ammettere che pur prendendo atto dell’autorevole recente pronuncia, allo stato meramente “ricognitiva”, della Corte Costituzionale e della non meno autorevole ordinanza della Corte di cassazione rimettente, le considerazioni che ne costituiscono il tessuto argomentativo non hanno del tutto fugato le mie perplessità ed ancora oggi continuo ad interrogarmi se non sia possibile un diverso approdo ermeneutico rispetto a quello che una attenta analisi dei provvedimenti citati e dei percorsi motivazionali lasciano ragionevolmente presumere, anche alla luce della evoluzione della giurisprudenza delle corti nazionali e sovranazionali sul tema.

Pur senza ripercorrere analiticamente l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia di normativa di contrasto alla criminalità di stampo mafioso, elaborata dal legislatore dopo la drammatica stagione stragista degli anni ’92-’93, ispirata al c.d principio del doppio binario, va rilevato preliminarmente che la progressiva “erosione” da parte del Giudice delle leggi della presunzione di spiccata pericolosità sociale del soggetto che faccia ricorso al c.d. metodo mafioso si è arrestata di fronte al doveroso riconoscimento che l’appartenenza ad un sodalizio di stampo mafioso – così come ad una associazione terroristica ex art. 270 bis c.p. (cfr. da ultimo sentenza di rigetto n.191/2020) – giustifica la presunzione assoluta di inadeguatezza di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere.

Ed invero, tale presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere – la cui operatività dopo le modificazioni introdotte dall’art. l’art. 4, comma 1, L. n. 47 del 2015, che ha sostituito il secondo periodo del comma 3 dell’art. 275 c.p.p., è oggi limitata ai reati di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen.,- continua a fondarsi sulla ratio giustificativa che l’appartenenza a un’associazione di tipo mafioso “implica, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, un’esigenza cautelare che può essere soddisfatta solo con la custodia in carcere, non essendo le misure «minori» sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità”(cfr. da ultimo sentenza n. 136/2017 che richiama la sentenza n. 265 del 2010).

Tale ratio è stata ribadita anche nella sentenza relativa ai delitti aggravati dall’uso del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa (sentenza n. 57 del 2013) e in quella relativa al concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso (sentenza n. 48 del 2015), che hanno riguardato fattispecie “contigue” a quella dell’art. 416-bis c.p., ma non caratterizzate da un’uguale esigenza.

Come la Corte Costituzionale ha riconosciuto (cfr. sent. n.136/2017) la stessa, nelle pronunce concernenti il previgente testo dell’art. 275, comma 3, c.p.p. “ha sempre effettuato una comparazione tra gli altri reati previsti da tale disposizione e oggetto delle varie questioni di legittimità costituzionale, da un lato, e l’associazione di tipo mafioso, dall’altro, rimarcando di volta in volta la diversità di quest’ultima”.

In particolare, nella citata sentenza n. 136/2017 – con la quale la Corte ha da ultimo ribadito la compatibilità costituzionale della presunzione di cui all’art. 275 comma 3 c.p.p. in relazione alla fattispecie associativa di cui all’art. 416 bis c.p. – si ricorda che nelle pronunce sul previgente art. 275, comma 3 c.p.p., nel delineare la differenza tra il delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e quello di associazione di tipo mafioso, la Corte, dopo aver rilevato che il secondo delitto, pur essendo come il primo di natura associativa, è “normativamente connotato – di riflesso ad un dato empirico-sociologico – come quello in cui il vincolo associativo esprime una forza di intimidazione e condizioni di assoggettamento e di omertà, che da quella derivano, per conseguire determinati fini illeciti” ha aggiunto che la sua “caratteristica essenziale è proprio tale specificità del vincolo, che, sul piano concreto, implica ed è suscettibile di produrre, da un lato, una solida e permanente adesione tra gli associati, una rigida organizzazione gerarchica, una rete di collegamenti e un radicamento territoriale e, dall’altro, una diffusività dei risultati illeciti, a sua volta produttiva di accrescimento della forza intimidatrice del sodalizio criminoso”.

Ha inoltre rilevato che “sono tali peculiari connotazioni a fornire una congrua “base statistica” alla presunzione considerata, rendendo ragionevole la convinzione che, nella generalità dei casi, le esigenze cautelari derivanti dal delitto in questione non possano venire adeguatamente fronteggiate se non con la misura carceraria, in quanto idonea – per valersi delle parole della Corte europea dei diritti dell’uomo – “a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine”, minimizzando “il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti” (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia)» – sentenza n. 231 del 2011);

Si è riconosciuto, in particolare, che l’elemento in grado di legittimare costituzionalmente la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere è rappresentato infatti dallo “stabile inserimento nell’associazione di tipo mafioso, il quale, per le caratteristiche del vincolo, capace di permanere inalterato nonostante le vicende personali dell’associato e di mantenerne viva la pericolosità, fa ritenere che questa non sia adeguatamente fronteggiabile con misure cautelari “minori” (sentenza n. 265 del 2010) ed ancora che “la diversa graduazione di gravità e di pericolosità tra le condotte dei singoli appartenenti all’associazione rileva ai fini della determinazione della pena da irrogare in concreto, ma non incide sulle esigenze cautelari, perché anche la semplice partecipazione è idonea, per le connotazioni criminologiche del fenomeno mafioso, a giustificare la presunzione sulla quale si basa la norma in questione”.

Secondo la Corte, “in questa prospettiva non ha rilievo la distinzione tra la posizione del partecipe e quella degli associati con ruoli apicali, perché, quali che siano le specifiche condotte dei diversi associati e i ruoli da loro ricoperti nell’organizzazione criminale, il dato che rileva, e che sotto l’aspetto cautelare li riguarda tutti ugualmente, è costituito dal tipo di vincolo che li lega nel contesto associativo, vincolo che fa ritenere la custodia in carcere l’unica misura in grado di «troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità” (sentenza 265 del 2010)”.

E’ appena il caso di rilevare come il dato socio-criminologico della concreta fenomenologia della fattispecie associativa di stampo mafioso sia stato adeguatamente valorizzato, in modo dirimente, nel bilanciamento tra principi e diritti costituzionalmente tutelati, dimostrando ancora una volta che in tale tipo di tecnica argomentativa la formulazione di giudizi di valore, e quindi di opzioni etico-politiche, costituisca un momento ineliminabile del ragionamento giuridico e della connessa dimensione assiologica.

Chi scrive non disconosce certamente che la presunzione di inadeguatezza di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere di cui all’art. 275, comma 3 c.p.p. comporta “solo” una più grave limitazione, ma pur sempre “temporanea”, della libertà personale rispetto al c.d. ergastolo ostativo che di fatto può sancire irrimediabilmente la condanna ad un “fine pena: mai”.

Va tuttavia rilevato che anche quella presunzione di inadeguatezza di misure diverse dal più grave regime custodiale – che operando nella fase cautelare “agevola probatoriamente” la permanenza dello status custodiae – determina comunque un aggravamento di quel progressivo affievolimento della presunzione di non colpevolezzza fino alla condanna definitiva che consegue ad ogni fase e grado del giudizio, man mano che vengano acquisite conferme successive del riconoscimento della responsabilità, affievolimento che, come è noto, costituisce il fondamento giustificativo della legittimità costituzionale della custodia cautelare.

È stata infatti ritenuta “manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 27 cost, dell’art. 303, comma 1, lett. d, parte seconda, c.p.p. atteso che il diverso trattamento della durata dei termini di custodia cautelare previsto nel caso di “doppia condanna” trova la sua giustificazione, anche sul piano della ragionevolezza, nell’affievolimento della presunzione di innocenza in presenza di una condanna intervenuta in primo e secondo grado e quindi di un doppio giudizio di colpevolezza”.(cfr. cass Sez. IV Sentenza n.4680 del 9/12/1999. Rv. 215449)

Ciò stante, appare evidente come il bilanciamento tra diritti di elevato rilievo costituzionale può giustificare il sacrificio o la limitazione di uno di essi per soddisfare una esigenza ritenuta in concreto maggiormente meritevole di tutela, e pur nella consapevolezza che perfino la definitiva affermazione di responsabilità può rivelarsi fallace tanto che è previsto l’istituto della revisione.

Tutto il c.d. sistema del c.d. doppio binario è contrassegnato dalla diversificazione di trattamento sia nella fase delle indagini preliminari che del giudizio e della esecuzione penale.

E appena il caso ricordare alcune disposizioni che incidono sulla disciplina ed il trattamento di diritti fondamentali:

– La disciplina del c.d carcere duro di cui all’art. 41bis Ord. Pen.

– La durata massima dei termini di fase della custodia cautelare di cui agli artt. 303, comma 1 lett. a) n. 3 in rel. all’art. 407 comma 2 lett. a); art. 303, comma 1 lett. b) n.3 bis;

– Livello probatorio di minore gravità indiziaria per disporre intercettazioni telefoniche ed ambientali (art. 13 D.L. 13/5/1991, n.152 conv, L. n. 203/91);

– Disciplina dell’uso del captatore informatico prevista dall’art. 266, comma 2 bis c.p.p. introdotto dall’art.4 comma 1 lett.a, n.2 del D.Lvo 29/12/2017 n. 216.

– Requisiti della prova in casi particolari (art. 190 bis, comma 1 c.p.)

– Termini di durata delle indagini preliminari (art. 497, coma 2 lett. a) n.1 c.p.p.) e deroga, nel caso di richiesta di proroga, all’obbligo dell’avviso di cui all’art. 406 comma 3 e 5 bis c.p.p.

Tanto premesso in ordine al quadro normativo vigente in tema di criminalità organizzata di stampo mafioso ed alle deroghe alla disciplina ordinaria fondate sulla ritenuta pericolosità sociale, particolarmente spiccata, di soggetti appartenenti ad un sodalizio criminoso riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p., la “delibazione ricognitiva” della questione di illegittimità costituzionale operata dalla Corte con l’ordinanza che qui si commenta si fonda su alcuni argomenti, peraltro già valorizzati dalla Corte EDU nella sentenza Viola, che pongono in dubbio sia la natura libera della scelta di collaborare pretesa dalla disposizione scrutinata, sia l’opportunità di equiparare la mancanza di collaborazione con la pericolosità sociale del condannato.

In particolare, si è sostenuto che il motivo principale per cui i detenuti si rifiutano di collaborare è il timore di porre in pericolo la propria vita o quella delle loro famiglie.

Da ciò discende che la mancanza di collaborazione non sempre è il risultato di una scelta libera e consapevole, né riflette necessariamente la continuità nell’adesione ai valori criminali o l’esistenza di collegamenti in corso con l’organizzazione di tipo mafioso.

D’altra parte si è anche richiamata la possibilità di ipotizzare ragionevolmente una situazione in cui un detenuto condannato possa collaborare con le autorità, senza che ciò costituisca il segno di un ravvedimento da parte sua o un’effettiva interruzione dei contatti con il sodalizio criminale.

Un altro argomento a sostegno del ritenuto contrasto della disciplina preclusiva scrutinata con l’art. 27, terzo comma Cost. si fonda sul rilievo che l’onere della collaborazione può richiedere la denuncia a carico di terzi nonché determinare, oltre ai già richiamati pericoli per i propri cari, dichiarazioni autoincriminatorie, anche per fatti da giudicare.

La inesigibilità dei rischi di una collaborazione imposta

La retorica della presunta inesigibilità di una scelta collaborativa sotto il profilo della inevitabile esposizione a rischio dei propri congiunti rivela tutta la sua fragilità etica ove si consideri che le scelte gravemente antisociali degli affiliati a potenti organizzazioni mafiose, ‘ndranghetiste o camorriste – per citare quelle storicamente più radicate nel tessuto sociale e la cui forza è data proprio dal consenso sociale su cui possono contare – soprattutto di quei soggetti che rivestono posizioni apicali o che comunque hanno svolto un ruolo di capi e promotori, hanno determinato e determinano costantemente ed attualmente una gravissima esposizione a rischio, non solo della collettività, ma dei loro stessi stretti congiunti, sia in relazione al coinvolgimento in sanguinose faide familiari di cui la storia criminale del nostro paese è tristemente ricca, sia sotto il profilo dei modelli culturali imposti ai figli.

Sotto il primo profilo, è appena il caso di rilevare che le lunghe detenzioni o le “latitanze”, sia per sfuggire alla legge dello Stato che a quella spesso ben più implacabile della vendetta degli schieramenti contrapposti, espongono i più stretti congiunti a regimi di vita tormentati e insopportabili, connotati da sofferenze, privazioni, isolamento sociale ed emarginazione, difficoltà di inserimento sociale e lavorativo e comprensibili pregiudizi le cui vittime sono in primo luogo i figli; basti pensare alle gravi conseguenze che discendono oggi dalla rigorosa applicazione dell’istituto delle interdittive antimafia sui cui rigidi automatismi è in atto un vivace dibattito per gli effetti che possono produrre sulla economia e sulle concrete opportunità di inserimento nel mondo lavorativo per imprese e persone fisiche a causa di ingombranti ed inevitabili rapporti di parentela o affinità.

Quanti giovani in Sicilia e in Calabria, per citare le realtà territoriali che chi scrive conosce meglio per avervi svolto le proprie funzioni giurisdizionali, hanno gridato la loro disperata richiesta di aiuto per le difficoltà di inserimento lavorativo per il comprensibile pregiudizio, normativo e sociale, che discende dal cognome che portano!

E che dire poi della sistematica imposizione di modelli culturali fondati sull’etica dell’ordine, della obbedienza acritica e della omertà che vengono trasmessi, anche attraverso il ruolo insostituibile svolto da madri e mogli di boss all’interno di famiglie mafiose per la trasmissione di quei disvalori?

Forse è giunto il momento di interrogarsi sui gravissimi danni che il partecipe ad una associazione mafiosa arreca proprio a coloro nei confronti dei quali è chiamato ad assolvere a precisi doveri giuridici e morali di solidarietà, mantenimento ed educazione mentre i “codici”, spesso non scritti, della organizzazione di appartenenza gli impongono perfino di soffocare il grido di chi – per esempio mogli e madri – ha osato reclamare il diritto alla autodeterminazione, opponendosi alla logica della sopraffazione e della obbedienza acritica, rivendicando, talvolta fino all’estremo sacrificio, per se stesse ed i loro figli, il più antico e fondamentale dei diritti: “il diritto di avere di diritti” (per richiamare il titolo del saggio di Stefano Rodotà), ed in particolare quello di essere liberi di scegliere il proprio futuro.

E’, quindi, su questi presupposti che si impone una riflessione sul ruolo della donna nell’ambito delle associazioni e delle famiglie mafiose anche al fine di valutare se il “sacrificio familiare” insito in una eventuale scelta collaborativa imposta dalla attuale normativa ostativa non sia ragionevolmente preferibile a quelli devastanti derivanti dalla permanenza nello stato di detenzione e/o in una perdurante e irrescindibile militanza criminale.

Mi sembra plausibile affermare, sulla base di una lunga esperienza maturata in Sicilia e di quella, più breve ma comunque ultradecennale, in Calabria, che il ruolo della donna all’interno della famiglia mafiosa è non poco mutato, nel senso di una sua sempre più forte partecipazione ai processi decisionali.

Tradizionalmente, infatti, la donna di ‘ndrangheta e di mafia ha svolto un delicato ruolo di collegamento e trasferimento di comunicazioni ed ordini tra il padre o il marito detenuto e gli altri associati.

In particolare, molteplici acquisizioni investigative hanno consentito di accertare lo svolgimento di un ruolo di intermediazione in relazione a disposizioni impartite da stretti congiunti detenuti, soprattutto nel settore estorsivo, ovvero di specifiche attività di intestazione fittizia di beni e reimpiego dei capitali illeciti del gruppo criminale.

I successi investigativi degli ultimi hanno prodotto importati risultati, che si possono qui sommariamente descrivere:

– hanno notevolmente accresciuto la fiducia dei cittadini nelle istituzioni anche sotto il profilo della percezione di una significativa presenza dello Stato che nel Sud era storicamente visto come una entità nemica o comunque distante e disinteressata;

– hanno favorito nuove collaborazioni;

– hanno gravemente incrinato il mito della invulnerabilità e invincibilità della ‘ndrangheta e della mafia;

– hanno messo in crisi un modello culturale fondato sulle regole dell’ordine, della sottomissione e della subalternità della donna ed il loro ruolo tradizionale di trasmissione di quei disvalori, favorendo coraggiose scelte collaborative da parte di donne di ‘ndrangheta, di cui, per citarne una appartenente ad una antica e prestigiosa “dinastia”, Giuseppina Pesce costituisce l’esempio più eclatante.

Né può essere sottaciuto l’importante contributo offerto dalla testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, la quale ha reso ai magistrati rilevanti dichiarazioni su gravi fatti di sangue consumati nel territorio di Rosarno.

L’attività di indagine ha consentito di acquisire univoci elementi che hanno dimostrato le pesantissime pressioni psicologiche ed i maltrattamenti che la donna aveva subito da parte del padre, della madre e del fratello, nei cui confronti sono stati adottati provvedimenti restrittivi per il delitto di maltrattamenti aggravati dalla morte ed altro.

Come è tristemente noto, le fortissime pressioni della famiglia di origine, anche attraverso il ricatto morale e la strumentalizzazione dell’amore per i figli ancora in tenera età, la hanno indotta dapprima a fare rientro a Rosarno e poi a togliersi la vita ingerendo acido muriatico.

Ipotesi, questa, alla quale, in esito al giudizio, si è sostituita quella della costrizione da parte dei genitori ad ingerire l’acido per simulare un suicidio.

Ecco dunque l’importanza della presa di distanza da parte di alcune donne da un certo modello culturale di moglie e madre le quali, attraverso il ripudio della logica della obbedienza acritica e della sottomissione al capo- famiglia, riscattano la propria dignità di donna, tradizionalmente destinata a trasmettere ai figli “valori”, anzi disvalori, e modelli culturali arcaici, e decidono finalmente che si può e si deve assicurare ai figli un futuro diverso rispetto a quello ineluttabile delle stesse scelte criminali dei padri.

Di qui l’importanza del ruolo antagonista della donna e delle sue enormi potenzialità emancipatorie, perfino sul piano del contrasto culturale alla criminalità organizzata di tipo mafioso, comunque localmente denominata, con particolare riferimento alla mafia ed alla ‘ndrangheta per la loro forte connotazione familistica.

Ed invero, i valori e la cultura della legalità devono essere assimilati ed interiorizzati fin dall’infanzia per favorire lo spontaneo adeguamento a quel sistema di valori comuni e condivisi che costituiscono il fondamento dell’etica collettiva di una comunità.

Gli psicologi della formazione e dell’educazione ci hanno insegnato che i processi di acculturazione attivati nell’età adulta difficilmente riescano a scalfire l’educazione ed il sistema di orientamento valoriale acquisito nei primi anni di vita.

Ciò per il semplice fatto che mentre nell’età adulta il processo educativo viene attivato attraverso il canale della razionalità discorsiva su personalità già strutturate, nell’infanzia il processo educativo si sviluppa invece attraverso i meccanismi profondi ed inconsci della interiorizzazione emotiva e del gioco delle proiezioni simboliche.

La famiglia e la scuola hanno il compito di cogliere attraverso la sensibilità didattica ed educativa dei docenti tutti i segnali che depongano per l’interiorizzazione da parte dello studente di un sistema distorto di valori, correggendo e orientando il processo educativo verso la formazione di una autentica cultura della legalità, che significa ripudio di quei disvalori ai quali si accennava sopra.

Ed infatti, i valori acquisiti successivamente, in età adulta, a meno che non avvengano profondi fenomeni di destrutturazione e strutturazione della personalità, spesso si adagiano su quelli acquisiti in precedenza o vengono reinterpretati alla luce di questi con un inconscio processo di ibridazione, tra gli uni e gli altri.

E’ significativo il fatto che proprio per sottrarre molti figli di affiliati ad organizzazioni mafiose all’inesorabile destino cui sopra si faceva cenno gli uffici giudiziari minorili più avveduti – primi fra tutti la Procura ed il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria – con una coraggiosa ed innovativa giurisprudenza hanno loro teso una mano facendo ricorso agli istituti della sospensione e decadenza dei padri condannati per associazione mafiosa dalla potestà genitoriale sui figli minori, adottando provvedimenti di allontanamento dal loro contesto ambientale e familiare e disponendone il collocamento in una casa famiglia.

Come si legge in un provvedimento emesso in data 6/3/2012, il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria provvedeva “all’allontanamento immediato dei tre minori dal contesto ambientale e familiare….. permeato da dinamiche malavitose e comunque da valori improntati ad una sub- cultura, con un travisato senso dell’”onore” e del “rispetto”; …”l’allontanamento dei minorenni dal nucleo familiare ristretto – ove risulta ancora presente la negativa figura della nonna materna – e il loro collocamento in una casa famiglia appare misura indispensabile sino a che non saranno individuate, nell’ambito parentale o altrove, figure idonee a occuparsi dei medesimi e a preservarli da un destino simile a quello della madre (nonché del padre detenuto dall’anno 2004)”.

Nello stesso provvedimento il tribunale rilevava che “In altri termini, il pieno coinvolgimento del padre dei bambini nelle dinamiche familiari segnalate e comunque – come accertato dalle sentenze definitive di condanna – in contesti di criminalità organizzata depongono – in prospettiva futura e nell’assenza di una netta posizione di distacco da tale ambito – per la sua inadeguatezza normativa e di indirizzo nei confronti dei figli (presupposto imprescindibile per un corretto esercizio della potestà genitoriale”.

Questa giurisprudenza ha dato impulso al progetto “Liberi di scegliere” recepito in un protocollo governativo che ha permesso a decine di ragazzi e alle loro famiglie di sperimentare nuovi orizzonti di vita .

Alla stregua delle considerazioni che precedono, in una prospettiva di ponderazione e bilanciamento tra valori e principi costituzionalmente tutelati, credo che una valutazione assiologica che non sia disancorata dalle concrete dinamiche fenomenologiche della criminalità di stampo mafioso, comunque localmente denominata, deve farsi carico dei devastanti effetti prodotti da modelli culturali destinati a segnare irreversibilmente i processi psicologici di crescita dei figli nell’età evolutiva rispetto a quelli connessi con una prospettiva di vita supportata dalla protezione assicurata dallo Stato a chi decide di collaborare ed ai suoi familiari.

Alcuni boss detenuti hanno scritto al Presidente del tribunale per i minorenni di Reggio Calabria per ingraziarlo “per le opportunità che sta offrendo ai miei figli, le avessi avute io forse non mi troverei in questo luogo di sofferenza. Sono d’accordo con lei, solo allontanando i bambini dalla Calabria si può assicurare loro un futuro sereno nel solco della legalità e in un ambiente diverso da quello nel quale sono cresciuto io…”[2]

Orbene, è irragionevole pretendere che questi condannati completino il percorso di riscatto – di cui quelle lettere sembrano costituire un segnale di avvio – collaborando con la giustizia e fornendo quindi prove univocamente sintomatiche di convinta e sincera revisione critica del proprio vissuto criminale, così restituendo ai loro figli un modello genitoriale diverso ed una famiglia naturale sia pur con i disagi di un programma di protezione ?

La scelta di collaborare e i sintomi di ravvedimento

Ma l’argomento centrale del percorso argomentativo della ordinanza in esame è costituito dal superamento della posizione assunta dalla stessa Corte sulla questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., sollevata in relazione all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., appunto nella parte in cui impedisce del tutto, in assenza di un’utile collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit., l’accesso alla liberazione condizionale.

Come è noto, la risposta della sentenza n. 135 del 2003 era stata negativa, sul rilievo che la preclusione all’accesso alla liberazione condizionale, per il detenuto che non collabora, “non è frutto di un automatismo, poiché è lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialità prevista dalla disposizione censurata.”

Quella preclusione, in definitiva, osservava la Corte, “deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo”.

Con la sentenza n. 253/2019 – ma le premesse per una risposta diversa si erano già delineate a partire dalla sentenza n. 306/1993 – la Corte afferma che “la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali.”

Questi argomenti, come la Corte ricorda nella ordinanza, era già stati sviluppati della Corte EDU, soprattutto nella sentenza Viola contro Italia ed in particolare nella parte in cui veniva sottoposta a critica “una disciplina che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realtà essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli”.

La Corte di Strasburgo aveva rilevato che la collaborazione con le autorità non può essere considerata l’unica dimostrazione possibile della dissociazione del condannato perché trascura gli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto.

L’assunto centrale si fondava sul rilievo che «non è escluso che la dissociazione con l’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia».

Tanto premesso in ordine ai punti dirimenti del percorso argomentativo che ha condotto all’approdo ermeneutico dell’ordinanza n. 97/2021, devo ammettere di nutrire ancora riserve e dubbi sulla prospettata “irragionevolezza” della presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante.

Ed invero, l’esperienza maturata in materia di criminalità organizzata consente di affermare che costituisce pacifica acquisizione processuale, oltre che dato acquisito alla coscienza collettiva, che l’organico inserimento in sodalizio di stampo mafioso segna la vita dell’affiliato in modo irreversibile, atteso che, a parte la figura, per esempio, del c.d. uomo d’onore “posato” – di quei soggetti cioè che per età o condizioni di salute vengono per così dire posti in uno stato di “quiescenza”, che però non ne recide i legami di adesione psichica al programma ed al sistema di orientamento “valoriale” con il sodalizio ma solo dal punto di vista operativo – generalmente il c. d. “pungiutu”, cioè l’uomo d’onore formalmente affiliato, si trova in una situazione di succubanza, ricattabilità e coinvolgimento così soggiogante da non poter recidere i legami criminali e né recedere dalla “affectio societatis” se non con la morte, spesso violenta, ovvero con una scelta collaborativa: tertium non datur.

Come è noto “la forza di intimidazione del vincolo associativo” serve al sodalizio per riaffermare la propria supremazia non solo nei confronti della società civile ma soprattutto all’interno della stessa organizzazione.

In un siffatto contesto socio-criminologico appare chiaro come risulti evidente, in primo luogo, che il carattere “necessitato” di una eventuale collaborazione imposta dalla disciplina ostativa dell’art. 4 bis comma 1 ord,. pen in esame non sia connotato da un disvalore umano e sociale maggiore di quello insito in una situazione di totale asservimento e annullamento della proprio libertà e dignità umana che consegue alla deliberata scelta di aderire ad una organizzazione mafiosa, la quale dispone di un potere di vita e di morte sul proprio affiliato e la sua famiglia, con particolare riferimento ai figli che fin dalla adolescenza spesso sono destinati e costretti a scelte irreversibili imposte da certi modelli culturali e educativi.

Sotto tale profilo la “scelta tragica”, evocata dalla Corte, “tra la propria (eventuale) libertà, che può comportare rischi per la sicurezza dei propri cari e la rinuncia ad essa per preservarli da pericoli”(cfr. par.6 ord. n. 97/2021) non è più drammatica, per sè e i propri cari, di quella di una volontaria adesione a programmi criminosi che segneranno per sempre la propria esistenza e quella di persone innocenti (i figli in primo luogo) che ne subiranno le conseguenze, oltre ai danni gravissimi per la collettività.

In secondo luogo, non si tratta di disconoscere che la scelta collaborativa possa sottendere calcoli utilitaristici che non garantiscono che vi sia sotteso un autentico ravvedimento, ma di riconoscere, con particolare riferimento a chi, in relazione al ruolo svolto in seno al sodalizio mafioso, si sia macchiato di crimini efferati (“che gli uomini non possono né punire né perdonare” come ci ricorda la riflessione di H. Arendt che ho riportato in esergo), che in ogni caso la collaborazione imposta dalla disciplina ostativa costituisce l’elemento dotato, più di ogni altro, di maggior “univocità sintomatica” della elevata probabilità di rescissione dei legami con il sodalizio e, quindi, di una scelta che appare dotata di maggiore capacità dimostrativa nella prospettiva di una risocializzazione che non si vuole né negare né precludere ma solo ancorare a comportamenti che, per i costi che vi sono sottesi, possono ragionevolmente e proporzionatamente rispetto agli interessi in gioco, essere pretesi dalla Stato e dalla collettività senza che ciò appaia umanamente inesigibile e costituzionalmente irragionevole.

Alla stregua delle considerazioni che precedono non coglierebbe nel segno il richiamo, pur contenuto nella ordinanza in esame, ad un “onere di collaborazione che può richiedere la denuncia a carico di terzi,….(omissis) e rischiare altresì di determinare autoincriminazioni anche per fatti non ancora giudicati”(cfr. par.6 cit).

Quanto alla chiamata in reità e/o in correità, si tratta di eventi fisiologicamente connessi con una scelta collaborativa ed anzi auspicati ed auspicabili nella prospettiva di difesa sociale la cui esigenza è sottesa alle scelte di politica criminale: avvertire tutto questo come un pericolo o una condotta inesigibile equivarrebbe paradossalmente a legittimare senza volerlo la cultura della omertà.

In questo quadro appare certamente rispondente alla esigenza di contrastare una criminalità organizzata aggressiva e diffusa, la scelta del legislatore di privilegiare finalità di prevenzione generale e di sicurezza della collettività, attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia.

Quanto poi alle possibili dichiarazioni autoincriminanti, provocarle non significa affatto favorire o istigare all’autocalunnia ma solo pretendere una piena e completa ammissione di responsabilità suscettibile di rigorosa verifica alla stregua dei criteri di valutazione dettati dall’art. 192 c.p.p.

E appena il caso di rilevare che la stessa Corte (cfr. par. 7 ord. cit.) rileva che “La presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente. Non è affatto irragionevole, come meglio si dirà tra breve, presumere che costui mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza”.

Ciò che invero lascia perplesso chi scrive è l’assunto che “tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà”.

A sommesso avviso di chi scrive, per le ragioni che sopra si è tentato di chiarire, il quadro di spiccata pericolosità sociale desumibile dalle scelte criminali del condannato per reati previsti dalla disciplina ostativa, come ricostruite attraverso le sentenze irrevocabili, non rende manifestamente irragionevole né inesigibile una condotta collaborativa che, alla stregua di criteri di proporzionalità, venga legislativamente assunta come affidabile parametro di valutazione di ravvedimento, in termini di elevata probabilità, prossima alla certezza.

Tanto più poi non appare manifestamente irragionevole né palesemente in contrasto con l’art. 27 terzo comma cost. pretendere che la scelta collaborativa costituisca un prius logico e giuridico in punto di ammissibilità di accesso al beneficio della liberazione, ove si consideri che il ravvedimento è un processo interiore di difficile accertamento la cui verifica va affidata inevitabilmente alla valutazione di comportamenti univocamente sintomatici e sotto tale profilo la scelta di intraprendere un percorso collaborativo, per i costi che essa comporta e per la incompatibilità, secondo l’id quod plerumque accidit, con la permanenza del vincolo associativo, costituisce certamente un indice rivelatore dotato di particolare capacità dimostrativa.

La S.C. (Sez. 1, Sentenza n. 3312 del 14/01/2020, Chiavetta, Rv. 277886) ha avuto modo di precisare che “In genere, si intende per ravvedimento un riscatto morale nel reo, colto da una valutazione globale della personalità del condannato che consideri tutti gli atti o le manifestazioni di condotta, di contenuto materiale e morale, tali da assumere un valore sintomatico. Occorre cioè cogliere un comportamento attivo di pronta e costante adesione alle regole, un riguardoso e consapevole rispetto verso gli operatori penitenziari, una azione riparatrice nei confronti delle vittime dei reati, un reale interessamento verso dette vittime, una sollecitudine verso la sorte delle persone offese (ad esempio, per attenuare i danni e alleviarne il dolore, per chiedere il loro perdono e la loro solidarietà umana: questo aspetto peculiare non va sovrapposto necessariamente con quello di un eventuale risarcimento dei danni)”.

Ed inoltre, secondo un orientamento consolidato, “il giudizio prognostico di ravvedimento deve essere formulato sulla base di un completato percorso trattamentale di rieducazione e recupero che sia in grado di sostenere la previsione, in termini di certezza, di una conformazione al quadro ordinamentale e sociale a suo tempo violato”.

Nella stessa sentenza la Corte ha affermato il principio che “non può attribuirsi automatica valenza di ravvedimento alla corretta collaborazione con la giustizia” occorrendo comunque l’acquisizione di “elementi positivi da cui dedurre un reale processo di revisione critica della devianza, che correttamente andava ricercato nel comportamento tenuto dal ricorrente stesso nelle varie manifestazioni della sua vita, nonché nella volontà di reinserimento nella società, dedotta dall’interesse dimostrato per i valori etici e sociali, dalle prove di altruismo e di solidarietà nonché dall’interesse dimostrato per le vittime dei reati commessi”.

Alla stregua dei principi sopra espressi non può dubitarsi che una scelta collaborativa, pur non sufficiente, possa e debba costituire un attendibile ed irrinunciabile parametro di valutazione che può conferire agli ulteriori comportamenti richiesti una capacità dimostrativa idonea a sostenere la previsione, in termini di certezza, di una conformazione al quadro ordinamentale e sociale a suo tempo violato.

Alcune brevi considerazioni conclusive de jure condendo  

La Corte ha operato una chiara opzione ermeneutica ed ha certamente indicato al legislatore una strada in una direzione univoca che deve fare i conti con una probabile delibazione incidentale di illegittimità costituzionale nella prospettiva di una armonizzazione dell’intero sistema per renderlo compatibile con il quadro costituzionale di riferimento.

Pur con i dubbi e le perplessità sommessamente sopra esposti, che interrogano le coscienze di chi, come lo scrivente, esprime la preoccupazione e la consapevolezza della difficoltà di conciliare le esigenze di difesa sociale e il principio della funzione risocializzante della pena e, quindi, la necessità di offrire una speranza a chi alla fine del percorso rieducativo abbia sottoposto a revisione critica il proprio vissuto, si può solo esprimere l’auspicio di una riforma che sappia conciliare e bilanciare le esigenze di tutela della collettività con la difficile prova e valutazione del “ravvedimento”, tenendo responsabilmente e realisticamente conto della natura, delle modalità operative e delle devastanti capacità di condizionamento culturale, sociale ed economico delle associazioni riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p.

Il pericolo è costituito dal fatto che la pur irrinunciabile funzione risocializzante della pena possa aprire la strada a fallaci e fuorvianti manifestazioni di ravvedimento che non tengano conto del dovere di fornire alla giustizia, ed alla collettività in nome della quale essa è esercitata, prove adeguate alla gravità dei reati commessi, fra le quali in primo luogo significativi contributi (salvo quanto previsto dal comma 1 bis dell’art. 4 bis ord. pen. in ordine alla accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione) alla disarticolazione di strutture criminali che solo la collaborazione può offrire.

Questa collaborazione si atteggia come un dovere morale ed una concreta forma di giustizia “riparativa” che va ben oltre il paradigma retributivo e rieducativo e le loro connesse ed inseparabili aporie.

Il compito che attende il legislatore non è semplice, anche perché la strada appare segnata dall’ordinanza della Corte, né è possibile fare previsioni.

Può solo auspicarsi che vengano previsti rigorosi criteri di valutazione che consentano alla magistratura di sorveglianza di formulare attendibili prognosi di emenda e ravvedimento e che la collaborazione, pur destinata ad essere esclusa dal novero delle condizioni preclusive di ammissibilità, possa costituire in concreto il principale e più attendibile parametro di valutazione anche in relazione allo spessore criminale ed al ruolo svolto dal condannato all’interno del sodalizio.

[1] G.Zagrebelsky, Principi e voti. La Corte Costituzionale e la politica, Einaudi 2005, pag. 85.

[2] Roberto Di Bella con Monica Zappelli, Liberi di scegliere – La battaglia di un giudice minorile per liberare i ragazzi della ‘ndrangheta, Rizzoli,2019, pagg. 234-239

Fonte: Questione Giustizia

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