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Giustizia, le verità rovesciate

Gian Carlo Caselli il . Cultura, Giustizia, Politica, Società

Le parole e il loro significato. Garantismo. Se non è veicolo di eguaglianza degrada le garanzie a strumento di sopraffazione e privilegio

Angelo Panebianco, sul Corriere del 22 giugno, ha stigmatizzato come difetti della cultura politica italiana la “distorsione continua del senso delle parole” e la “identificazione della verità con l’utilità”. Vorrei ricollegare le sue giuste considerazioni al dibattito sulla giustizia.

Anche su questo versante la posizione culturale prevalente è quella che considera la giustizia come sinonimo di convenienza («è giusto non ciò che rispetta le regole ma ciò che conviene»).

Circa 30 anni fa la stagione di Mani pulite e delle inchieste sui rapporti fra mafia e politica segnò – per il nostro Paese – un forte recupero di legalità. Per un po’ di tempo sembrò che potesse prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. E si innescò un sentimento di aspettativa fiduciosa nella giustizia e nei giudici (talora  sopra misura, come quando ci furono toni da tifo calcistico…). Questa “luna di miele” è durata poco, perché la novità di una magistratura che – sia pure con tutti i suoi limiti – cercava finalmente di applicare la legge anche ai “potenti” non poteva lasciare costoro indifferenti. E difatti i “potenti” (soprattutto i nuovi) hanno reagito con vigore, senza risparmio di mezzi ed energie.

Ed ecco lo scatenarsi, ormai da decenni, di una crociata anti giudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali. Perché non soltanto in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia  determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (spesso indicati “tout court” come avversari politici). Con il  dilagare dell’idea, terribilmente italiana, di una giustizia  “à la carte” valida per gli altri ma mai per sé. E con l’«utilità» imposta come metro di valutazione, sostituendo – con effetti culturali (e talora pratici) devastanti – i tradizionali criteri di correttezza e rigore.

La direzione delle indagini e dei processi, non il metodo, è diventata la chiave di lettura della professionalità e della serietà degli inquirenti e dei giudici. Col risultato che il recupero di legalità in atto agli inizi degli anni Novanta è stato costretto a percorrere strade sempre più impervie. Mentre per corrotti e collusi si determinava il vantaggio di  una minor fatica nel ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste.

Quanto alla distorsione delle parole, esemplare è stato l’uso del termine “ giustizialismo”. Un tempo nei vocabolari la parola era unicamente riferita alla politica dell’argentino Peron, mentre era del tutto sconosciuta nel lessico giudiziario. Cominciò a farne parte quando, con una cinica furbata, qualcuno pensò di escogitare un modo per suggerire callidamente l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito  a partire da una sorta di  verità rovesciata, con una specie di cartellino rosso da brandire in prevenzione contro chiunque non fosse d’accordo con certe idee.

Distorcendo nel contempo anche la parola “garantismo”: applicata ad un garantismo “strumentale”, che vorrebbe disarmare la magistratura di fronte al potere economico e politico; nonché ad un garantismo “selettivo”, che gradua le regole in base allo “status” dell’imputato. Mentre il garantismo se non è veicolo di eguaglianza non è, anzi degrada le garanzie a strumento di sopraffazione e privilegio.

Come nel caso (frequente) della confusione tra assoluzione e prescrizione, comoda per non dover ammettere le responsabilità di certi politici.

Fonte: Corriere della Sera, 24/06/2021

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