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Professione “poliziotto” 40 anni dopo

Daniele Tissone * il . Criminalità, Istituzioni, SIcurezza, Società

La legge 121 dell’aprile 1981 ha cambiato la pubblica sicurezza. avvicinando i suoi lavoratori alla società civile. Oggi, però, servono più risorse per gli operatori, più dotazioni tecnologiche e interventi immediati per la gestione dello stress

La storia della Repubblica italiana è costellata di date e avvenimenti importanti che hanno tracciato la narrazione e la ragion d’essere del nostro vivere civile e democratico. Tra questi sicuramente c’è la riforma della Polizia di Stato, con la legge 121/81, che ha tagliato ad aprile 2021 il traguardo dei 40 anni.

Una riforma che, oltre ad aver migliorato gli aspetti generali della pubblica sicurezza di allora, dando una risposta alla strategia della tensione durante i cosiddetti “anni di piombo”, ha avuto il merito di far avvicinare i lavoratori della sicurezza alla società civile evitando separatezza tra le due componenti. Se vogliamo tracciare un bilancio di questi 40 anni, direi che il tema che andrebbe oggi nuovamente affrontato debba essere quello della conoscenza da parte dei cittadini e dei politici delle condizioni di vita e di lavoro delle forze di polizia. Domandandoci, in particolare, quale sia il profilo della professione svolta e quale sia il carico di responsabilità che porta nella sua esistenza un operatore della sicurezza.

Considerato che, da sempre, si riversano sulle forze di polizia tensioni sociali e conflitti che andrebbero risolti su ben altri versanti, dal tema della casa, agli sfratti come nell’emergenza da Covid-19, fino alla gestione dei flussi migratori. Gestione, questa, che dovrebbe prevedere un doveroso passaggio di competenze nel disbrigo dei permessi di soggiorno, come peraltro veniva richiesto quarant’anni orsono per le tante, troppe incombenze amministrative che ricadono, impropriamente, ancora oggi sugli operatori.

Il tema è pertanto quello di capire come l’organizzazione cui appartiene il poliziotto, Il carabiniere, il finanziere o l’agente di polizia penitenziaria si prende in carico le aspettative, i disagi e i bisogni di chi opera nella sicurezza pubblica. Tema che dovrebbe interessare il cittadino, oltre che gli addetti ai lavori. Questo perché, in questo grande contenitore di competenze, chi svolge quest’attività ha un quotidiano rapporto con la sofferenza e il disagio. Esercita una professione di aiuto, con carichi emotivi e psicologici e sovraccarichi di responsabilità non comuni, tanto da far definire il lavoro in Polizia “stressante per definizione”.

Questa professione, in cui si entra sani e si può uscire malati, anche a causa di quei contatti con un mondo dove si compendia il peggio dell’uomo, tra comportamenti sociali deviati, crimini, sofferenza e morte, necessita di attenzione costante e interventi sul versante del benessere del personale che non può essere appannaggio dei soli rappresentanti dei lavoratori.

Spesso la differenza di questa professione sta nel fatto che i legami operativi e le responsabilità che si creano durante il servizio devono essere inquadrati da chi ha la responsabilità dell’organizzazione. Esistono responsabilità dei singoli, ma soprattutto responsabilità da parte di chi li dirige e che non può far finta di niente. Se si vuole svolgere con coscienza quest’attività, il mezzo con il quale si assicura la legittimità dello Stato deve essere lo “standard” dei diritti della nostra Costituzione e non altro.

Deve essere sempre più inquadrato rispetto ai valori, nel senso di una missione che l’organizzazione conferisce a chi opera nel servizio di Polizia. Se, nel lontano passato, tale “mission” è stata talvolta anche strumento di repressione operaia, con lo slogan coniato dal capo della polizia Angelo Vicari secondo cui “nello Stato democratico la Polizia è al servizio del cittadino” credo ci siamo man mano oggi avvicinati a quel codice etico della polizia europea sottoscritto da tutti i ministri dell’Interno dell’Unione che riprenderemo alla fine del ragionamento.

Anche qui l’aspetto del rapporto con la politica è importante. L’uso pericoloso del tema “sicurezza” e delle sue questioni, secondo cui si ritiene che temi complessi possano essere risolti con semplici soluzioni, associato a un uso strumentale in stile campagna elettorale, non aiutano né mai hanno aiutato le forze di Polizia. In tal senso il pericolo di una connessione tra derive corporativiste e istanze populiste con stati di emergenza va sempre tenuto presente e scongiurato.

Se è vero che molte questioni sociali attraversano oggi le democrazie occidentali (vedasi, tra tutte, la questione migratoria, che assume sempre maggior rilevanza politica anche da noi), è anche vero che l’approccio emergenziale con il quale si sono affrontati finora i problemi non ha fatto altro che rinviarne le soluzioni. In questo senso anche la produzione legislativa non ha facilitato il compito delle forze dell’ordine, come dimostrano le modifiche alla legge sulla legittima difesa o come gli interventi volti a facilitare il possesso e la detenzione di armi presso le abitazioni.

Leggi pericolose, inutili ed eticamente sbagliate, considerato che, dai dati in possesso dell’Opal di Brescia, tra 2017 e il 2020 gli omicidi con armi legalmente detenute sono stati nel nostro Paese ben 129 a fronte dei 91 morti per mafia nonché delle 37 morti per furti o rapine. Quei politici che spesso hanno alimentato le paure, amplificandole probabilmente per allontanare le persone dalla percezione dei problemi reali, puntando il dito contro gli ultimi per ottenere il consenso dei penultimi, non hanno giovato all’attività degli operatori.

Anche la qualità dell’agire di Polizia è più importante della quantità. Così, nelle realtà a maggiore densità criminale, si dovrebbe puntare più sul versante info-investigativo che sulla presenza “muscolare” nel territorio. È infatti certo come l’andamento della criminalità sia indipendente dal numero di poliziotti presenti sul territorio. Territorio, il nostro, che conta il più alto numero di mafiosi in servizio permanente al mondo. Se è vero che tensioni sociali e conflitti attraversano l’Occidente, è pur vero che “nel mezzo di queste tendenze” vi sono le polizie che, lo ricordiamo, sono molto più a contatto con la generalità dei cittadini rispetto a qualsiasi altra agenzia o istituzione pubblica. Apparati che intervengono nelle situazioni più problematiche.

A 40 anni da quella riforma la “statalità dell’ordine e della sicurezza pubblica” è, per fortuna, ancora garantita dallo Stato nonostante i tentativi di surrogarne le funzioni (vedasi ronde, impiego dei militari e tentativi vari di devoluzione di competenze a guardie particolari giurate e polizie locali). Segnali che la valenza simbolica delle istituzioni pubbliche del controllo si stiano attenuando. Il cittadino deve credere negli operatori della sicurezza che intervengono in caso di disastri o calamità come anche semplicemente a supporto di problemi personali o interpersonali, oltre che nella repressione dei reati e in una gamma di modalità che vede l’operatore di Polizia avere a che fare con problemi e miserie di ogni genere. Sciagure del mondo che la dicono lunga sulla complessità e la difficoltà di un simile mestiere che è unico nel suo genere.

Un’attività che dovrebbe essere implementata con le giuste risorse per i suoi operatori, ma anche con risorse tecnologiche e mezzi invertendo quella concezione che considera la sicurezza una spesa. Gli attuali organici necessitano di un piano straordinario di assunzioni di giovani leve, indispensabile per il mantenimento degli attuali standard assicurati da un personale in servizio che registra l’età media anagrafica più elevata in Europa.

Un approccio competente sulle problematiche legate alle attività delle forze di Polizia attraverso una maggiore conoscenza è oggi quanto mai necessario affinché si migliorino le condizioni di vita e di lavoro di tale personale, migliorando le forme di approccio e relazionali con la popolazione. Servono infine immediati interventi sul versante della gestione dello stress, dall’ordinarietà del lavoro in Polizia fino a quelle situazioni operative da “decisione dell’ultimo secondo”, affinché eventuali trasformazioni situazionali possano venire gestite al meglio.

In questo senso, più una democrazia è avanzata più il livello di fiducia nella Polizia è elevato. Ciononostante, anche negli attuali sistemi democratici si possono costruire forme di discriminazione che giustificano particolari forme di violenza, ad esempio la situazione dei migranti, in particolare donne e bambini, ospitati presso i centri di detenzione amministrativa del Paese.

Dico questo perché spesso anche i poliziotti subiscono le distorsioni del sistema. Il poliziotto è un essere umano con una variabilità di situazioni inimmaginabili cui far fronte che richiederebbero conoscenze e competenze fuori dal comune, un essere umano che può sbagliare. La cui preoccupazione, anche per le conseguenze che ne derivano, è per la sua famiglia. Riconosciamogli la dignità che merita affermando e praticando quel codice etico dove i doveri della polizia verso il pubblico e i diritti del pubblico verso la polizia si sublimano.

Di questi temi abbiamo parlato lo scorso 22 aprile, in uno straordinario convegno seguito in diretta streaming sui social da migliaia e migliaia di persone, cui hanno partecipato, presso la sede della Cgil nazionale, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, il capo della Polizia Lamberto Giannini, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini e altri autorevoli ospiti. 40 anni dopo la grande riforma è ora, forse, di un nuovo cambio di passo. Nel segno di quella straordinaria legge.

* Segretario generale Silp Cgil 

Fonte: Collettiva

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