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Magistrati e giornalisti. Le querele, il “cahier de doléances”, l’infedeltà necessaria

Nello Rossi il . Giustizia, Informazione, Istituzioni, Società

Si avvicina la scadenza del giugno 2021 fissata dalla Corte costituzionale per la sua pronuncia sul “carcere per i giornalisti” dopo la sollecitazione rivolta al Parlamento ad intervenire, entro un anno, sul tema della diffamazione a mezzo stampa. Dall’approssimarsi di questa data e dagli spunti offerti dalla cronaca traiamo l’occasione per affrontare due questioni estremamente attuali: le querele e le azioni civili dei magistrati per notizie ritenute false e diffamatorie e il cahier de doléances dei giornalisti per la vigente disciplina della diffamazione a mezzo stampa. 

Gli spunti offerti dalla cronaca

L’On. Giusi Bartolozzi è uno dei “due” magistrati che siedono nel parlamento italiano, accalcandosi, insieme a Cosimo Ferri, sull’anta di destra, l’unica funzionante, delle deprecate “porte girevoli” tra magistratura e politica.

In una intervista rilasciata a Radio radicale il 29 aprile – consultabile nel prezioso archivio dell’emittente – l’onorevole Bartolozzi critica il Presidente dell’Associazione nazionale magistrati per avere espresso dubbi sulla veridicità di affermazioni contenute nel libro di Sallusti e Palamara e lo fa mettendo insieme, nel giro di un paio di frasi, un dato non vero ed un potente quanto fallace argomento.

A lei non risulta – dice l’onorevole – che vi siano stati magistrati che hanno presentato querele e dunque, lascia intendere, l’assenza di querele dimostrerebbe che quanto è scritto nel libro è in tutto o in parte vero e credibile.

Tralasciamo il dettaglio che l’on. Bartolozzi non sia informata che numerosi magistrati – tra tutti menzioniamo Giuseppe Cascini, Paolo Ielo, Piergiorgio Morosini – hanno in vario modo reso noto di avere sporto querela e spostiamoci rapidamente su di un altro versante, leggendo la lettera indirizzata il 21 aprile al quotidiano Il Riformista da Guido Neppi Modona, già magistrato, professore e giudice della Corte costituzionale, che non esitiamo a definire un maestro per noi e per molte generazioni di magistrati.

Nella sua lettera Guido Neppi, rivolgendosi al direttore del quotidiano scrive: «Caro Direttore, ho letto nei giorni scorsi che negli ultimi dodici mesi sei stato raggiunto nella tua qualità di direttore de Il Riformista da oltre venti querele per diffamazione a mezzo stampa. La cosa in sé non mi ha impressionato, chi fa bene il mestiere di giornalista, verificando e poi raccontando la verità su fatti e persone, quali ne siano il loro ruolo e l’importanza, è inevitabilmente esposto al rischio di essere querelato, non fosse altro che a titolo intimidatorio. Ciò che mi ha stupito e inquietato è che le querele siano state presentate da altrettanti magistrati, cioè soggetti che svolgono il ruolo istituzionale di tutori della legge, in primo luogo dei diritti costituzionali di libertà, tra cui il diritto di informare e di essere informati. Come a dire che quel diritto non trova applicazione nei confronti di una casta privilegiata formata da giudici e pubblici ministeri che si ritengono intoccabili e per i quali non opera il diritto di cronaca e di critica. Sono certo che questa concezione di casta è estranea alla stragrande maggioranza dei magistrati, ma resta il fatto oggettivo di quelle venti e più querele che ti hanno raggiunto e che verranno giudicate da colleghi dei querelanti.” La lettera si conclude con l’espressione della certezza che il direttore non si farà “intimidire da un gruppetto di magistrati presuntuosi».

Dunque, da un lato c’è chi ripropone la diffusa convinzione che una mancata querela equivalga a patente di verità e, dall’altro, chi sostiene che le querele e le azioni civili nei confronti dei giornalisti – in special modo quelle dei magistrati – costituiscono uno strumento di pressione se non di intimidazione nei confronti della libera stampa.

A complicare ulteriormente il quadro sta la ricorrente denuncia di rapporti troppo stretti tra uffici di procura e giornali, da ultimo esposta con insistenza dal professor Sabino Cassese[1] che a questa impropria alleanza addebita la perversa funzione di naming and shaming, cioè il discredito di indagati in seguito riconosciuti estranei ad ogni addebito ma comunque marchiati agli occhi dell’opinione pubblica.

Per orientarsi in questo intrico di istanze diverse vale la pena di mettere in campo l’arte della distinzione (mai così indispensabile come sui terreni della libertà di informazione, della tutela della reputazione e del loro bilanciamento) per discutere apertamente della condizione dei singoli cittadini di fronte al potere dei media e del cahier de doléances dei giornalisti italiani che chiedono da tempo una nuova e più adeguata disciplina della diffamazione a mezzo stampa.

Discussione, questa, di grande interesse e di particolare significato per chi – dando vita ad una rivista promossa da magistrati – in qualche modo partecipa dei due mondi della giustizia e della comunicazione ed è in grado di misurare, sia pure su di una scala incomparabilmente più ridotta rispetto a quella dei quotidiani, l’intensità delle reazioni che sempre si accompagnano al libero esercizio del diritto di informare e criticare.

Il giornalista: un moderno visconte dimezzato

Prendiamola alla lontana sia pure per planare poi rapidamente sui temi del presente.

La più gran parte di quanti fanno informazione esibisce un io diviso. Al pari del visconte dimezzato, scaturito dal genio di Italo Calvino; o di una figura mitologica, per metà fragile e inerme e per metà armata e rivestita di aculei pungenti. Il fianco nudo ed esposto di questa figura ha bisogno di protezione, il lato armato e munito può sprigionare un’energia micidiale.

La libertà di chi fa informazione – di regola un soggetto debole, un “salariato” che vive del suo lavoro – deve essere salvaguardata e difesa dai detentori del potere economico o politico, siano essi editori, governanti o soggetti economicamente potenti, che possono avere interesse a limitare o a condizionare impropriamente tale libertà.

Ma nei confronti del singolo cittadino il “salariato” bisognoso di protezione riacquista il volto del potere e si rivela in grado di ledere – con l’uso arbitrario della sua libertà – beni preziosi come l’onore personale e professionale e la reputazione.

Non si può fare a meno di notare che la figura doppia e bifronte del “giornalista” presenta più di una somiglianza con quella del magistrato.

Semplice “salariato” dello Stato, che ha bisogno di essere assistito da forti garanzie di status per essere messo al riparo da condizionamenti e ritorsioni dei potenti, il magistrato è al tempo stesso detentore di un “terribile potere” verso le singole persone, che può danneggiare irrimediabilmente non rispettando o applicando con disinvoltura le regole poste a garanzia dei cittadini.

Da questa duplice fisionomia degli agenti del terzo e del quarto potere deriva, come è noto, l’estrema complessità e delicatezza del regime giuridico che ne regola l’operato, sempre in bilico e alla ricerca di un equilibrio tra il necessario sostegno della loro organica debolezza e l’esigenza di impedire che il potere ad essi attribuito degeneri in arbitrio incontrollato.

Se l’equilibrio si rompe, se prevalgono le soluzioni unilaterali, se la disciplina della responsabilità professionale nelle sue diverse forme non è temperata, ne sono pregiudicati grandi e preziosi beni collettivi come la libertà di stampa e il giudizio indipendente ed imparziale.

Ma se la responsabilità, non solo giuridica ma anche culturale e sociale, per le scelte compiute, diventa introvabile, opaca, irraggiungibile, i singoli cittadini cessano di aver ogni fiducia nell’informazione e nella giustizia che finiscono con l’apparirgli solo come un altro volto, nocivo ed ostile, del potere.

La necessaria infedeltà dei poteri di controllo e di garanzia

Una componente non certo secondaria dell’equilibrio che tutti auspicano sta nella reciproca “infedeltà” della libera stampa e della magistratura indipendente che devono essere non solo libere da pregiudiziali vincoli di fedeltà verso altri poteri ma anche pronte a controllarsi reciprocamente[2].

Ed è per questo che sono state enunciate regole disciplinari ed etiche (ulteriori rispetto a quelle codicistiche sulla violazione del segreto) ed adottate prassi per regolare rapporti tra magistratura e mondo della comunicazione in termini tali da assicurarne la correttezza e la trasparenza.

Si pensi ad esempio al divieto per i magistrati di costituire canali privilegiati con singoli giornalisti o singole testate ed alle prassi virtuose introdotte per fornire le notizie in regime di pubblicità e di parità, rendendo i giornalisti meno tributari di informazioni particolari (magari lecitamente ottenibili ma distribuite in modo mirato o capriccioso).

Il fine di tali norme e di tali prassi è di scongiurare indebite e pregiudiziali forme di complicità o benevolenza che compromettano la funzione dei giornalisti di essere i watchdogs di ogni potere, compreso quello giudiziario, e dei magistrati di giudicare con imparzialità le offese alla reputazione dei cittadini senza potere.

Non mancano – lo vediamo benissimo – violazioni anche clamorose di queste regole elementari[3], spesso goffamente motivate con una proclamata ansia di verità e però immancabilmente produttive di esiti disastrosi.

Ma, finché esiste il diritto, è importante che le deviazioni siano chiamate con il loro nome, siano costantemente contrastate e severamente punite quando scoperte.

Sulle querele dei magistrati

In un siffatto contesto rappresentare le querele per diffamazione dei magistrati nei confronti di libri, giornali, trasmissioni televisive e altri mezzi di comunicazione o le azioni civili da essi intentate come una forma di intimidazione nei confronti della libera stampa non risponde né ai principi giuridici né alla realtà effettuale ed appare un artificio per pretendere un’impossibile esenzione dalle responsabilità connesse al dovere di informare.

E perciò stupisce che giuristi autorevoli avallino questa vulgata.

La verità è che di fronte a notizie ritenute false, a rappresentazioni deformate dei fatti, a imputazioni di comportamenti scorretti o illeciti il magistrato è “solo” al pari di qualsiasi privato cittadino così che sarebbe profondamente iniquo chiedergli di non reagire con gli strumenti del diritto a tutela del suo onore.

E ciò per più ragioni.

La prima è che l’onore personale e professionale, la reputazione, la credibilità sono per il magistrato il primo strumento di lavoro e la precondizione per proseguire serenamente e proficuamente la sua attività.

La seconda è che – come la cronaca ampiamente dimostra – è ormai invalso il malvezzo di ritenere e di sostenere pubblicamente che una informazione per quanto falsa, arbitraria, ingiustificatamente offensiva, diviene lecita e vera se il diffamatore può “vantare” di non essere stato querelato.

Malvezzo inaugurato da pochi arroganti ma rapidamente adottato e fatto proprio da un segmento, ciarliero e odioso, dell’opinione pubblica esterna ed anche di quella interna alla magistratura, spesso pronta a fare da reggicoda ad ogni insinuazione insultante.

Del resto una querela, che apre la via all’accertamento in contraddittorio dei fatti addebitati, è espressione della sempre rischiosa “lotta per il diritto” che, quando è posta al servizio di valori alti e di interessi vitali, non può essere scambiata per puntiglio, pretesa di intoccabilità, intimidazione.

Infine i numeri e un esame attento della giurisprudenza in materia di diffamazione stanno lì a dimostrare quanto sia priva di fondamento l’idea di una qualsiasi corrività dei magistrati “giudicanti” con i magistrati “querelanti”.

Negli uffici del pubblico ministero le querele dei magistrati sono di regola sottoposte ad un vaglio omogeneo a quello adottato nei confronti di altri denuncianti. Ed egualmente rigoroso è il metro nei giudizi di merito e nella giurisprudenza di legittimità.

Sebbene il clima suggerisca a molti che è venuto il momento di sferrare ai magistrati il classico calcio dell’asino non è qui che si troveranno credibili argomenti per accreditare l’immagine di una magistratura pregiudizialmente incline a difendere i propri privilegi a scapito della tutela dei diritti.

Per una nuova disciplina del reato di diffamazione a mezzo stampa: i giudici comuni stanno facendo la loro parte

Il diniego alla pretesa di una sorta di sempre più ampia franchigia per le falsità, le denigrazioni, le offese, non può comportare anche la sordità rispetto ad altre istanze dei protagonisti del mondo dell’informazione ed all’esigenza di un nuovo assetto delle norme in tema di diffamazione a mezzo stampa.

Sono stati dei giudici comuni – ricordiamolo – a sollevare dinanzi alla Corte la questione di legittimità costituzionale della normativa vigente e segnatamente del “carcere per i giornalisti”.

I tribunali di Salerno e di Bari hanno infatti dubitato della legittimità costituzionale della previsione della pena della reclusione per il delitto di diffamazione a mezzo stampa[4] (art. 595, 3 comma, C.P e art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47) ravvisandone il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 10 CEDU. E ciò sulla base di ampi richiami alla giurisprudenza della Corte EDU in materia di libertà di espressione tutelata dall’art. 10 della Convenzione e ritenuta, di regola, violata laddove vengano applicate pene detentive a giornalisti condannati per diffamazione[5].

Inoltre il Tribunale di Salerno ha svolto un’ulteriore serie di censure sostenendo che la normativa che contempla pene detentive per i giornalisti si pone in contrasto anche:

a) con gli artt. 3 e 21 della Costituzione, in ragione del carattere «manifestamente irragionevole e totalmente sproporzionato» della previsione della pena detentiva rispetto all’importanza della libertà di manifestazione del pensiero (salvi i casi eccezionali in cui la stessa Corte EDU riconosce legittima tale pena);

b) con il principio di offensività del reato di cui all’art. 25 Cost., per essere la pena detentiva sproporzionata, irragionevole e non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato, costituito dal rispetto della reputazione personale;

c) con il principio della funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.) per l’asserita inidoneità della sanzione detentiva ad assicurare la funzione di prevenzione generale e speciale della pena.

Come è noto, la risposta del giudice costituzionale[6] ha replicato il modello, inaugurato nel caso Cappato[7], del rinvio di un anno della decisione al fine di permettere al Parlamento di approvare una nuova e più adeguata disciplina della diffamazione a mezzo stampa rispettosa degli approdi della giurisprudenza della Corte di Strasburgo e in grado di realizzare un nuovo bilanciamento tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione della persona.

Nell’opera di ricerca di un più adeguato equilibrio – ha sottolineato la Corte – le esigenze di garanzia della libertà giornalistica, illustrate con chiarezza nelle sentenze della Corte EDU dovranno essere commisurate alle «altrettanto pressanti ragioni di tutela effettiva della reputazione individuale delle vittime di eventuali abusi di quella libertà da parte dei giornalisti». Vittime che nella società dell’informazione, dei social networks e dei motori di ricerca, della smisurata amplificazione e del carattere potenzialmente perenne dei messaggi diffamatori sono esposte a rischi ancora maggiori che nel passato.

In un siffatto contesto – ha concluso l’ordinanza – la pena detentiva potrà essere conservata in vita solo per le condotte connotate da eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, come le forme di istigazione alla violenza o i messaggi d’odio.

Del resto è questo l’orientamento espresso dalla Corte di cassazione, che in diverse pronunce – tra cui la sentenza n. 38721 del 19 settembre 2019, della V sezione penale[8] – ha annullato le rare sentenze che avevano comminato a giornalisti la pena detentiva per il resto di diffamazione a mezzo stampa, richiamando le decisioni della Corte EDU in materia.

Ed è appena il caso di ricordare che le richieste di pene detentive da parte dei pubblici ministeri per reati di diffamazione commessi con il mezzo della stampa sono da anni una rarità assoluta e che in importanti uffici[9] i magistrati del pubblico ministero sono stati invitati «a tenere nella più attenta considerazione i principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo» nelle loro richieste di pena.

Il punto è che per rispondere alle preoccupazioni di quanti operano nel mondo dell’informazione non è affatto sufficiente cancellare il carcere ma è necessario dar vita ad una nuova disciplina complessiva della materia che offra soluzioni tanto sul versante penale quanto sul terreno, ritenuto non meno insidioso, delle azioni civili intentate contro i giornalisti.

Azioni ritenute in grado di dissuadere e di intimidire soprattutto i giornalisti più giovani ed i molti lavoratori precari che operano nel mondo dell’informazione.

Con ogni probabilità, è a questo più ampio scenario che pensava la Corte costituzionale nel procrastinare di un anno il suo intervento destinato comunque a restare circoscritto all’ambito della normativa penale.

Lo stato dell’arte dei lavori parlamentari

Di qui l’importanza, e per più versi l’indispensabilità, di un intervento del Parlamento chiamato ad essere l’autore di un rinnovato bilanciamento, adeguato ad un contesto sociale ormai interamente pervaso da una molteplicità di canali comunicativi, e di un più organico assetto della responsabilità penale e civile degli operatori dell’informazione.

Se la scadenza fissata dalla Corte è al giugno 2021, c’è un’altra scadenza non eludibile dettata dall’esigenza di governare con strumenti sofisticati un mondo, quello dei media, che ormai innerva profondamente ogni aspetto della moderna vita sociale.

E’ legittimo nutrire un certo scetticismo sulla capacità delle Camere di rispondere in tempo utile alle sollecitazioni della Corte sulla cancellazione del carcere per i giornalisti; scetticismo destinato a crescere se ci riferisce al più ampio compito riformatore che sarebbe necessario mettere in atto.

E’ un dato di fatto che, nel recente passato, il Parlamento, in una situazione istituzionale analoga a quella sin qui descritta, non è riuscito ad intervenire sui temi del fine vita[10].

A dispetto delle non poche delusioni e delle smentite della realtà, chi scrive continua a ritenere che la fiducia nel Parlamento e nella sua centralità non possano venir meno.

Ed è con questo spirito che occorre verificare quale sia lo stato dei lavori parlamentari sui temi che stiamo discutendo.

La sinora blanda ed incerta attività del Senato della Repubblica è per così dire concentrata su due versanti: l’intervento sulle liti temerarie nei confronti degli operatori dell’informazione e la modifica delle norme penali in tema di diffamazione.

Sul primo terreno si muove il testo proposto dalla Commissione Giustizia – comunicato alla Presidenza 1l 19 dicembre 2019 – riguardo al disegno di legge recante Disposizioni in materia di lite temeraria d’iniziativa dei senatori Di Nicola ed altri del 2 ottobre 2018.

Sul versante penale si colloca il testo proposto dalla Commissione Giustizia – comunicato alla Presidenza il 7 luglio 2020 – per il disegno di legge recante «modifiche alla legge 8 febbraio 1948, n. 47, al codice penale, al codice di procedura penale in materia di diffamazione, di diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, di ingiuria e di condanna del querelante nonché di segreto professionale, e disposizioni a tutela del soggetto diffamato», d’iniziativa del senatore Caliendo del 20 settembre 2018.

Un peculiare regime per le liti temerarie nei confronti dei giornalisti

Il testo elaborato a partire dalla proposta del Senatore Di Nicola dalla Commissione Giustizia del Senato consta, al pari della proposta originaria, di un solo articolo che recita:

«Nei casi di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, delle testate giornalistiche online o della radiotelevisione, in cui risulta la mala fede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per il risarcimento del danno, il giudice, con la sentenza che rigetta la domanda, condanna l’attore, oltre che alle spese di cui al presente articolo e di cui all’articolo 91, al pagamento a favore del convenuto di una somma, determinata in via equitativa, non inferiore ad un quarto di quella oggetto della domanda risarcitoria».

Le modifiche apportate dalla Commissione alla proposta Di Nicola[11] riguardano due aspetti: l’entità della somma cui deve essere condannato chi ha intentato la lite temeraria (ridotta dalla Commissione ad un “quarto” di quella oggetto della domanda risarcitoria rispetto alla originaria previsione della “metà”) e la posizione del “giornalista” convenuto, al quale non è più richiesto di formulare una specifica istanza di condanna di chi ha promosso l’azione civile con mala fede o colpa grave.

Modifica, quest’ultima, che appare problematica per le difficoltà che il giudice potrebbe incontrare nell’accertare d’ufficio la mala fede o la colpa grave dell’attore senza che il “giornalista” convenuto abbia formulato sul punto una specifica istanza e articolato una richiesta di prove.

Come che sia, l’intento della norma è con ogni evidenza quello di porre un freno a domande risarcitorie esorbitanti, mettendo in campo come deterrente una condanna particolarmente gravosa nel caso che la lite promossa risulti temeraria.

In altri termini si tratta di un meccanismo che mira a rimediare ad una prassi, di forte valenza intimidatoria nei riguardi dei giornalisti, introducendo una sorta di contrappasso omeopatico, anch’esso intensamente punitivo, nei confronti di chi agisce in giudizio maliziosamente o sconsideratamente.

Il contrappasso prefigurato nel disegno di legge è davvero l’unica o almeno la più adeguata soluzione per calmierare le richieste di risarcimento nei confronti dei giornalisti e dar vita ad un regime complessivamente più equilibrato?

Bisognerà rispondere di sì, se si ritiene che il legislatore non possa precludere all’attore – pena la violazione dell’art. 24 Cost. – di quantificare il danno di cui chiede il risarcimento (fermo restando il suo onere di specificare e provare in giudizio modi e forme del pregiudizio subito), e se si esclude che la determinazione dei danni, in questo speciale ambito, possa essere sempre rimessa alla valutazione discrezionale del giudice.

L’alternativa agli automatismi del disegno di legge all’esame del Senato consisterebbe nell’affidare al ragionevole esercizio della discrezionalità del giudice la determinazione sia dei danni derivanti dall’offesa alla reputazione sia di quelli cagionati dall’azione civile proposta in malafede o con colpa grave, precludendo alle parti ogni preventiva quantificazione e disinnescando così gli effetti potenzialmente intimidatori di richieste risarcitorie altissime nelle cause civili per diffamazione nei confronti dei giornalisti.

Del tutto inaccettabile appare invece l’altra proposta, pure prospettata nel dibattito pubblico[12], di subordinare l’esercizio dell’azione civile al preventivo versamento di una cauzione – pari alla somma richiesta come risarcimento o comunque su di essa parametrata – che servirebbe a risarcire il giornalista in caso di rigetto della domanda avanzata nei suoi confronti.

Per un verso i non abbienti o i meno abbienti sarebbero impossibilitati o almeno fortemente dissuasi dall’agire in giudizio a tutela della loro reputazione[13] e, per altro verso, la causa si trasformerebbe da sede di accertamento dell’esistenza o meno di un illegittimo pregiudizio alla reputazione in una sorta di duello rusticano avente come posta in palio il risarcimento o la perdita della cauzione.

Il versante della responsabilità penale

Sul versante della responsabilità penale il testo proposto dalla Commissione giustizia del Senato – che modifica in più punti l’originaria proposta del senatore Caliendo – introduce numerose e significative innovazioni.

Sono cancellate le pene detentive per i giornalisti, che vengono sostituite da multe, che, nel caso della diffamazione a mezzo stampa vanno da 5000 a 1000 euro, per crescere notevolmente, collocandosi nella forbice da 10000 a 50000 euro, «se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità».

Si introduce poi un articolato regime di rettifiche e smentite, corredato da due importanti corollari.

Il primo consiste nella possibilità – per il soggetto al quale siano state negate la rettifica o la smentita richieste o che le abbia ottenute in termini difformi da quelli previsti dalla nuova normativa – di rivolgersi al giudice ai sensi dell’art. 700 c.p.c. per chiedere un ordine di pubblicazione, alla cui emissione fa seguito la condanna dell’inadempiente al pagamento di una sanzione, da 5.165 a 51.646 euro, destinata alla cassa delle ammende.

Il secondo corollario è costituito dalla previsione di una peculiare causa di non punibilità per il reato di diffamazione.

Gli autori delle offese e i responsabili dei quotidiani cartacei e on line e dei media audiovisivi e radiofonici non saranno punibili tutte le volte che, su richiesta dell’interessato e con modalità conformi ai requisiti di legge, siano state pubblicate o diffuse rettifiche o smentite «idonee a riparare l’offesa».

La causa di non punibilità opera inoltre anche per l’autore dell’offesa che abbia chiesto ai responsabili delle testate la pubblicazione della rettifica o della smentita ricevendone un rifiuto.

Per le querele temerarie è previsto che, a seguito dell’assoluzione del giornalista «perché il fatto non sussiste» o perché «l’imputato non lo ha commesso», il giudice, ove ravvisi la colpa grave del querelante, possa condannarlo al risarcimento del danno ed al pagamento di una somma da 2000 a 10000 euro in favore della cassa ammende.

Di importanza non secondaria è infine l’innovazione proposta in tema di competenza territoriale. Estendendo a tutti i media il regime già in vigore per le televisioni si prevede che il giudice competente per i reati di diffamazione a mezzo stampa sia quello di residenza della persona offesa[14].

Non poche sono state le critiche provenienti dal mondo dell’informazione tanto al testo del disegno di legge di iniziativa del senatore Caliendo quanto al testo proposto dalla commissione giustizia del Senato[15].

All’apprezzamento per la cancellazione delle pene detentive per i giornalisti e per l’introduzione di una causa di non punibilità collegata alla pubblicazione di rettifiche e smentite, ha fatto subito seguito una lunga serie di rilievi.

Si è contestata, in primo luogo, la mancata depenalizzazione della materia, unitamente alla entità delle multe, ritenuta eccessiva.

Ma anche molti altri aspetti del disegno di legge nel testo proposto dalla commissione sono stati ritenuti inadeguati e insoddisfacenti.

In particolare, è stata criticata la previsione secondo cui le rettifiche o le smentite, per potere essere invocate come causa di non punibilità, debbono essere pubblicate senza commento e senza risposta.

Si è poi lamentata la scarsa efficacia deterrente delle norme proposte in tema di querele temerarie e si è ritenuta ingiustamente punitiva l’irrogazione – in caso di recidiva – della pena accessoria dell’interdizione dalla professione di giornalista per un periodo da uno a sei mesi.

Il dissenso, infine, si è appuntato anche sul nuovo regime della competenza territoriale per i procedimenti riguardanti i reati di diffamazione, considerato penalizzante per i piccoli giornali.

Non è questa la sede per un esame approfondito dei complessi profili di un possibile intervento riformatore e delle ragioni addotte dagli operatori dell’informazione.

Qui basterà rilevare che all’attuale cahier de doléances sembra destinato a sostituirsene un altro, non meno corposo, riguardante questa volta una prospettiva riformatrice che peraltro rimane tuttora molto incerta.

Come si è già accennato, infatti, non è azzardato prevedere che entro giugno 2021 il Parlamento non varerà alcuna riforma, lasciando ancora una volta alla Corte costituzionale il compito di cancellare dall’ordinamento il pericoloso relitto del “carcere per i giornalisti”.

In attesa dell’auspicata riforma o di un intervento del giudice delle leggi occorrerà ancora una volta far leva sulla responsabilità e sulla misura di quanti operano nei mondi dell’informazione e della giustizia.

Misura dei magistrati che devono mostrarsi sempre più consapevoli del valore assoluto della libertà di informazione, riservando la condanna del giornalista ai soli casi nei quali la reputazione del cittadino sia effettivamente e gravemente compromessa per effetto dell’attribuzione di fatti falsi o di espressioni insultanti e applicando la pena detentiva solo laddove ricorrano discorsi d’odio e l’istigazione alla violenza.

Misura dei giornalisti e dei direttori dei giornali nel maneggiare i loro strumenti di lavoro, che deve essere garantita sia dalla professionalità dei singoli sia da una giustizia disciplinare effettiva, che non possa più essere aggirata, beffata e clamorosamente elusa come pure è avvenuto in casi notissimi di giornalisti radiati dall’albo ma tranquillamente mantenuti in servizio.

Di questo ha bisogno la battaglia da intraprendere per far vivere il regime di infedeltà necessaria che rappresenta l’architrave di un rapporto tra mondi e poteri dal quale devono essere bandite compiacenze, collusioni e connivenze.

* Magistrato, direttore di Questione Giustizia

Note

[1] E’ sufficiente citare in proposito l’ultima intervista del professor Cassese Procure e giornali, i rapporti sono troppo stretti, apparsa su Il Giornale del 3.5.2021 senza che vi sia bisogno di menzionare, data la sostanziale identità di contenuti, articoli e interviste precedenti sul tema.

[2] Giornalisti e magistrati – per obbedire, gli uni, al dovere di informare e, gli altri, solo alla legge – devono essere pronti a disobbedire ai voleri e ai comandi di altri poteri che intendano intralciare il loro compito primo di conoscenza, di critica, di giudizio. Ma questa sistematica infedeltà – necessaria al fine di rendere il miglior servizio ai cittadini comuni, privi di potere – deve estendersi anche ai reciproci rapporti tra informazione e giustizia, nel cui ambito i giornalisti non devono arretrare dinanzi alla critica severa dell’operato del giudiziario e dei suoi singoli rappresentanti e i magistrati sono chiamati a tutelare, senza compiacenze, i diritti all’onore ed alla reputazione lesi da un esercizio improprio e deviante dell’informazione. Su questi temi mi permetto di rinviare ad un mio scritto Giustizia e informazione. Poteri infedeli, poteri nemici? in questa Rivista, n. 4/ 2008.

[3] Al dovere di una corretta “comunicazione” degli uffici giudiziari e dei singoli magistrati – realtà radicalmente diversa dalle discutibili iniziative di qualche Procuratore – è dedicato un Obiettivo del n. 4/2018 della Trimestrale di Questione Giustizia intitolato Il dovere della comunicazione, con scritti di Stasio, Maccora, Lingiardi, Ippolito, Cesqui, Rossi, Giunti, Giorgi, Pignatone, De Cataldo, Petrelli, Guglielmi, Lecca, Calandra, Spataro, Deidda.

[4] L’ordinanza del tribunale di Bari (la n. 149 del r.o. 2019) ha incentrato le proprie censure unicamente sul trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 13 della legge n. 47 del 1948, che prevede in via cumulativa la pena della reclusione da uno a sei anni e quella della multa non inferiore a 258 euro (e non superiore a 50.000 euro, giusta il disposto dell’art. 24 cod. pen.) per il caso di «diffamazione commessa col mezzo della stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato». L’ordinanza del Tribunale di Salerno (iscritta al n. 140 del r.o. 2019) ha esteso invece le questioni anche all’art. 595, terzo comma, cod. pen., che prevede in via alternativa la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro (e dunque, ancora, non superiore a 50.000 euro) per il caso di diffamazione recata, tra l’altro, con il mezzo della stampa.

[5] La giurisprudenza della Corte EDU risale come è noto alla sentenza della grande camera 17 dicembre 2004, Cumpn e Mazre, nella quale si sostiene, tra l’altro, che il timore di sanzioni detentive è in grado di produrre un evidente effetto dissuasivo (“chilling effect”) rispetto all’esercizio della libertà di espressione dei giornalisti – in particolare nello svolgimento della loro attività di inchiesta e di pubblicazione dei risultati delle loro indagini – tale da riverberarsi sul giudizio di proporzionalità, e dunque di legittimità alla luce della Convenzione, di tali sanzioni. I principi enunciati nella sentenza Cumpn sono stati più volte ribaditi (ex multis, sentenza 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia), anche in pronunce riguardanti l’Italia (sentenza 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia e sentenza 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia) nelle quali al riconoscimento della legittimità dell’affermazione di responsabilità penale dei giornalisti si è accompagnata la valutazione del carattere comunque sproporzionato della pena detentiva inflitta anche se condizionalmente sospesa o cancellata dalla grazia presidenziale.

[6] Ordinanza Corte costituzionale n. 132 del 9-26 giugno 2020, Pres. Cartabia, red. Viganò.

[7] Cfr. G.L. Gatta, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo “schema Cappato” e passa la palla al Parlamento rinviando l’udienza di un anno in Sistema penale, 10 giugno 2020. Su questa tematica v. anche L. Tomasi, Diffamazione a mezzo stampa e libertà di espressione nell’orizzonte della tutela integrata de diritti fondamentali, in Sistema penale, 21 gennaio 2021 e F. Oriana, Diffamazione e pena detentiva: in attesa del legislatore, dalla Cassazione nuovi spunti sul difficile equilibrio fra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione, in Sistema penale, 29 gennaio 2021.

[8] La sentenza citata nel testo conferma l’indirizzo già espresso nella precedente decisione della V Sezione penale della Corte, la n. 12203 del 13 marzo 2014 secondo cui «l’irrogazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria, pur a seguito del riconoscimento di attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, non sembra rispondere alla ratio della previsione normativa che, nel prevedere l’alternatività delle due sanzioni, palesemente riserva quella più afflittiva alle ipotesi di diffamazione connotate da più spiccata gravità». Su questi stessi temi cfr. anche Cass. Penale, V, n. 13069/21 e n. 13993/2021.

[9] Cfr. al riguardo la circolare dell’8 ottobre 2013 del Procuratore della Repubblica di Milano nella quale, tra l’altro, i sostituti – ferma restando la loro libertà del PM di udienza di concludere nel modo ritenuto più opportuno – sono invitati a segnalare preventivamente al Procuratore i casi nei quali potrebbero ricorrere “circostanze eccezionali “tali da rendere proporzionata la richiesta di applicazione di pena detentiva.

[10] Si tratta, del resto, dello stesso Parlamento che, nel corso della pandemia, non ha avvertito il bisogno di fissare regole sulla questione cruciale dell’ordine delle vaccinazioni; non per stabilire regole rigide (suscettibili di essere superate dagli eventi e dalla sperimentazione dei vaccini) ma per definire un quadro chiaro di competenze individuando a chi spettasse di fissare i criteri di priorità, chi avesse il potere di derogarli per adeguarli a situazioni locali o settoriali e quali sanzioni fossero applicabili ai trasgressori. Con l’effetto di lascare il Paese inerme di fronte ad un terrificante trinomio: afasia (del parlamento), anomia (dell’ordinamento), anarchia (delle amministrazioni coinvolte nel piano vaccinale).

[11] Questo il testo del ddl Di Nicola Art. 1. Art. 1. 1. All’articolo 96 del codice di procedura civile, dopo il primo comma è inserito il se­guente: 1. All’articolo 96 del codice di procedura civile è aggiunto, in fine, il seguente comma: «Nei casi di diffamazione commessa con il mezzo della stampa, delle testate giornalistiche online o della radiotelevisione, in cui risulta la mala fede o la colpa grave di chi agisce in sede di giudizio civile per risarcimento del danno, su richiesta del convenuto, il giudice, con la sentenza che rigetta la domanda, condanna l’attore, oltre che alle spese di cui al presente articolo e di cui all’articolo 91, al pagamento a favore del richiedente di una somma, determinata in via equitativa, non inferiore alla metà della somma oggetto della domanda risarcitoria».

[12] Da ultimo tale proposta è stata ribadita da Marco Travaglio nel suo incontro – confronto con il giudice costituzionale Francesco Viganò sul tema Libertà di informazione e carcere per i giornalisti, che è stato pubblicato il 2.4.2021 e può essere ascoltato nella interessante Libreria dei podcast della Corte costituzionale sul sito ufficiale della Corte. La Libreria, che è nata il 2 giugno 2020 ed annovera ormai molti importanti titoli, si inserisce nel quadro delle iniziative della Corte dirette a promuovere la cultura costituzionale attraverso l’utilizzazione dei più moderni strumenti di comunicazione.

[13] Sull’annoso tema della legittimità dell’imposizione di una cauzione a carico di chi agisce in giudizio cfr. Corte cost. n. 14 del 2004, nella quale si chiariva come «il problema – non nuovo nella giurisprudenza di questa Corte – della compatibilità tra il principio costituzionale che garantisce a tutti la tutela giurisdizionale dei propri diritti e singole norme che impongono determinati incombenti (anche di natura economica) a carico di coloro che tale tutela richiedano, sia stato risolto alla luce della distinzione fra gli oneri che sono “razionalmente collegati alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione», da ritenere evidentemente consentiti, e quelli che tendono, invece, «alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle finalità predette”, i quali – conducendo al risultato “di precludere o ostacolare gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale”– incorrono “nella sanzione dell’incostituzionalità” (cfr. sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001)». Cfr. anche Corte cost. n. 67 del 1960.

[14] Art. 30, comma quinto, secondo periodo, I. 6 agosto 1990, n. 223. Sul punto cfr. Cass. Penale, V, n. 33287/2016: «Vero è che l’art. 30, comma quinto, secondo periodo, I. 6 agosto 1990, n. 223, prevede una competenza per territorio in capo al giudice del luogo di residenza della persona offesa dal reato di diffamazione commesso con il mezzo della trasmissione televisiva. Tuttavia la medesima disposizione normativa limita l’applicazione di tale deroga ai principi generali in tema di competenza territoriale, al solo caso contemplato dal comma quarto dello stesso articolo, riguardante i reati di diffamazione, commessi attraverso trasmissioni radiofoniche e televisive, consistenti nell’attribuzione di un fatto determinato […] qualunque sia il soggetto autore del reato di diffamazione consistente nell’attribuzione di un fatto determinato». «Ne consegue che quando la diffamazione commessa attraverso una trasmissione televisiva non consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, […] troveranno applicazione le regole ordinarie di determinazione della competenza per territorio, previste dall’art. 8, co. 1, del codice di rito, secondo cui la competenza per territorio è determinata dal luogo in cui il reato è stato consumato […] legittimando in tal modo l’intervento dell’autorità giudiziaria nel cui territorio si è verificata la percezione del messaggio offensivo contenuto nella trasmissione televisiva, essendo ragionevole la presunzione che la trasmissione in diretta di un notiziario possa essere fruita da più persone. Né si oppone a tale ricostruzione interpretativa l’osservazione che, in tal modo, potrebbe verificarsi una concorrenza di più giudici ordinari nel prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla stessa persona, in quanto, ove si verifichi un conflitto di tal genere e non sia possibile individuare il luogo in cui le prime due persone abbiano avuto percezione della diffamazione, troveranno applicazione le regole suppletive di cui all’art. 9, c.p.p.»

[15] Nel testo vengono sinteticamente e riassuntivamente esposti i rilievi critici formulati in documenti, pubblici appelli e progetti di legge dalla FNSI (Federazione nazionale della stampa italiana), dal CNOG (Consiglio Nazionale Ordine dei giornalisti), da Ossigeno per l’Informazione e Articolo 21.

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