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Giudici in Calabria

Roberto Lucisano * il . Calabria, Giustizia, Mafie, Società

La notizia che il collegio giudicante del Tribunale di Vibo Valentia, al quale è stata affidata la responsabilità della trattazione del procedimento nato dall’operazione Rinascita Scott sia composto da tre colleghe, ciascuna delle quali ha assunto le funzioni nel maggio del 2018, rappresenta un’importante occasione per sviluppare alcune considerazioni circa le condizioni nelle quali opera la magistratura giudicante in Calabria. 

Ha fatto (giustamente) scalpore la notizia che il collegio giudicante del Tribunale di Vibo Valentia al quale è stata affidata la responsabilità della trattazione del procedimento nato dall’operazione Rinascita Scott sia composto da tre colleghe, ciascuna delle quali ha assunto le funzioni nel maggio del 2018.

La circostanza non poteva in effetti passare sotto silenzio, posto che si fa riferimento a quello che viene ritenuto uno dei più complessi ed importanti processi di sempre contro la criminalità organizzata, che –in sede di rito ordinario- conta 325 imputati per complessive 438 contestazioni di reato, prevede l’assunzione di quasi un migliaio di testimoni e 58 collaboratori di giustizia indicati solo dall’ufficio di Procura e vede impegnati circa 600 difensori.

L’occasione appare importante per sviluppare alcune considerazioni che riguardano le condizioni nelle quali opera la magistratura giudicante in Calabria, questione peraltro tutt’altro che inedita, ma alla quale non si è riusciti in alcun modo a fare fronte con iniziative adeguate.

E’ bene innanzi tutto chiarire che i processi in materia di criminalità organizzata, soprattutto quelli che riguardano un numero assai elevato di soggetti con le più svariate posizioni processuali, comportano la necessità di studio, approfondimento e valutazione di situazioni dalle più varie sfaccettature, da inquadrare, per di più, in contesti territoriali particolari nei quali il cittadino comune si muove ed esercita la propria attività tra condizionamenti, interferenze, ostacoli, lusinghe e timori, di tal che ogni specifica vicenda merita attenzione anche alle sfumature, facendo sì che le indispensabili operazioni di contrasto ai fenomeni criminali poste in essere dagli organi inquirenti trovino adeguata e ponderata valutazione in sede processuale, tanto riconoscendo responsabilità faticosamente acclarate nel corso delle indagini quanto evitando il rischio (sempre possibile in procedimenti di tal fatta) di vittime sacrificali, invischiate loro malgrado in una ragnatela di situazioni determinate da condotte altrui.

Tutto ciò richiederebbe -ancor più a fronte di Uffici di Procura adeguatamente attrezzati di uomini e mezzi e supportati da apparati investigativi di prim’ordine- la presenza massiccia in tali territori di una magistratura giudicante che, sia sul piano numerico che su quello dell’esperienza e delle conoscenze accumulate, si assuma la responsabilità  di gestire in prima persona i procedimenti, costituendo un riferimento costante per i giovani magistrati che in gran numero vi sono destinati all’inizio del loro percorso professionale.

Ebbene, la realtà è invece che – accanto a pochi magistrati di lungo corso radicati su questo territorio ed il cui numero diminuisce progressivamente col tempo – i giovani colleghi di prima nomina si trovano scaraventati in un contesto difficile e complesso, nel quale devono prematuramente assumersi ruoli e compiti che richiederebbero tempi adeguati di conoscenza e di maturazione, venendo destinati da subito, per la penuria di risorse disponibili, anche alla presidenza di collegi composti interamente da m.o.t., chiamati a gestire delicatissimi processi in materia di criminalità organizzata (e non solo, ovviamente).

Il paradosso ulteriore è che, allorquando i colleghi avranno acquisito un minimo di esperienza sul campo coincidente con il prescritto periodo di legittimazione al trasferimento, lasceranno in massima parte la sede originariamente assegnata per raggiungere altre destinazioni.

Se questa è la situazione degli uffici giudicanti di primo grado, altrettante difficoltà si registrano in quelli di secondo grado.

Alla data del 31/12/2020 risultavano pendenti dinanzi alla Corte d’Appello di Reggio Calabria 169 procedimenti DDA, per un totale di 824 imputati ed il numero complessivo dei soggetti detenuti per i processi in fase d’appello ammontava a ben 533.

Non sono dati riportati erroneamente, sono dati reali ed –esaminando le statistiche degli anni precedenti- si rileva che ogni anno le sopravvenienze dei procedimenti DDA superano o sono appena inferiori al centinaio e buona parte di essi, oltre a numerosi reati fine tipici delle organizzazioni criminali, si incentrano su contestazioni di natura associativa relative a decine di imputati detenuti.

La circostanza che una parte degli imputati di un procedimento opti per il giudizio abbreviato ed un’altra parte per il rito ordinario e che assai di frequente sussistano strette interconnessione tra i processi che si celebrano comporta poi l’estrema difficoltà (a causa dei gravissimi vuoti di organico di cui si dirà) di garantire di volta in volta la presenza di un collegio composto da colleghi che non versino in situazioni di incompatibilità o che abbiano espresso precedenti valutazioni che possano offuscarne l’immagine di terzietà richiesta dal principio del giusto processo.

Numeri altrettanto consistenti (e di gran lunga i più alti d’Italia in proporzione al bacino d’utenza del distretto ed all’organico dei magistrati) sono poi quelli concernenti il settore delle misure di prevenzione ed, in particolare, quelle di tipo patrimoniale, spesso riguardanti svariati beni (mobili, immobili, imprese, società, grandi attività commerciali) per valori complessivi di decine di milioni di euro, che richiedono competenze tecniche e capacità di lettura certamente inusuali rispetto all’ordinario bagaglio tecnico della categoria.

Nell’anno 2020 sono stati 155 i procedimenti di prevenzione sopravvenuti in grado di appello, di cui ben 51 relativi a misure patrimoniali

Ebbene, allo stato, la Corte reggina annovera una scopertura del 40% dei posti di consigliere (dei 27 previsti in organico ne sono presenti solo 16) e nessun meccanismo normativo prevede che si possa d’ufficio colmare almeno in parte questi vuoti, come avviene in primo grado con i M.O.T..

L’effetto è che i colleghi (ma, soprattutto, le colleghe) presenti si sobbarcano un lavoro di enorme portata che, tra udienze da celebrare spesso fino a tarda sera, relazioni da predisporre per i nuovi processi e ponderosissime motivazioni di sentenze da scrivere, non lascia alcuno spazio alle minime esigenze personali e familiari e fa vivere costantemente nell’incubo delle scadenze dei termini di custodia (o di quelli di efficacia dei provvedimenti di confisca delle misure patrimoniali) da rispettare ed, ancor più, nel timore che tali condizioni di lavoro comportino un esercizio della giurisdizione che rischia di non essere sempre approfondito ed idoneo come la delicatezza delle questioni e la tutela di tutti i soggetti coinvolti imporrebbe.

Tutti i colleghi che qui operano sono orgogliosi del lavoro che svolgono quotidianamente, chiedono solo di poter lavorare meglio e di usufruire di condizioni che consentano di evitare il moltiplicarsi a dismisura di impegni straordinariamente gravosi, ciascuno dei quali richiede livelli di studio ed attenzione fuori dal comune su questioni che incidono sulla vita e sulla libertà delle persone coinvolte.

Si pone, dunque, il problema di comprendere che in questi territori l’emergenza democratica in ambito giudiziario è costituita proprio dall’esigenza di garantire l’esercizio della giurisdizione nella forma più alta confrontandosi con procedimenti lunghi, complessi e difficili. Mentre sono tanti i colleghi più esperti che da altre parti d’Italia chiedono di andare e poi di restare negli uffici di Procura più esposti, evidentemente non esercita analogo fascino la prospettiva di svolgere un ruolo oscuro ma essenziale per stessa tenuta democratica del Paese, quale quello di confrontarsi con la gestione di processi di tale natura.

Per quanti sforzi si siano fatti in proposito anche a livello personale da ciascuno di noi nel tentativo di sensibilizzare colleghi provenienti da altre aree territoriali ad un impegno professionale, anche temporaneo e mediante l’istituto dell’applicazione extradistrettuale, non si è mai riusciti a creare una sensibilità diffusa alla questione, ma solo assai sporadiche e limitate adesioni.

Eppure si ha la presunzione di ritenere che l’esercizio corretto, equilibrato, sereno ed impegnato della giurisdizione in processi di tale natura, in sintonia con quanto avvenuto in passato in particolare in terra di Sicilia, dovrebbe costituire una spinta idonea, tanto sul piano della formazione professionale individuale che su quello dell’impegno civile.

A fronte di uno scenario di tal fatta, non penso davvero che (soprattutto) la magistratura progressista possa continuare ad ignorare la questione, apparendo davvero improcrastinabile che si crei una mobilitazione delle coscienze su quella che appare come l’emergenza più grande della giustizia italiana.

* Presidente della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria

Fonte: Questione Giustizia

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