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‘Ndrangheta e politica in Lombardia: c’era una volta?

Lorenzo Frigerio il . Corruzione, Giustizia, Lombardia, Mafie

La notizia è arrivata solo ieri in tarda serata e quindi non è stata adeguatamente coperta dai mass media, nonostante la rilevanza che una simile pronuncia della Corte di Cassazione avrebbe invece meritato.

Sono state infatti confermate dalla prima sezione penale della Suprema Corte le condanne erogate in sede di Appello per alcuni degli imputati nel procedimento che ha riguardato le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Regione Lombardia e le relative accuse di voto di scambio.

Alla sbarra l’ex assessore regionale alla casa Domenico Zambetti, condannato a 7 anni e 6 mesi di carcere, il regista Ambrogio Crespi (sei anni), Ciro Simonte (otto anni), Eugenio Costantino (4 anni e 4 mesi). Costantino, che durante l’iter giudiziario è stato riconosciuto essere il referente della cosca Di Grillo-Mancuso, ha visto quest’ultima condanna sommarsi in continuazione ad una precedente di 11 anni. Rigettati i ricorsi di Zambetti e Crespi e dichiarati inammissibili quelli degli altri due imputati, la sentenza della Corte di Appello di Milano del 23 maggio 2018 è diventata così definitiva.

Al centro di questa vicenda giudiziaria, partita nell’ottobre del 2012, l’arresto di Zambetti, potente assessore in quota UDC nella giunta di Regione Lombardia allora guidata da Roberto Formigoni, con l’ipotesi del voto di scambio tra l’uomo politico e le cosche della ‘ndrangheta sancito dal versamento di alcune tranche di denaro, fissate sulla base di 50 euro per ogni voto procurato. Nella conferenza stampa successiva agli arresti, Ilda Boccassini, allora alla guida della DDA di Milano, ebbe uno sfogo amaro: «Quello che è successo è devastante per la democrazia. È la prima volta che un voto di scambio viene accertato durante le indagini. La democrazia e la libertà di voto sono state violate».

Un caso di scuola quindi, rimasto un unicum tanto da spingere successivamente il legislatore a modificare più volte l’art. 416 ter del codice penale, un reato che per la sua vischiosità richiede uno sforzo di non poco conto per produrre le prove a sostegno dell’ipotesi investigativa.

Nell’immediatezza la vicenda scatenò un terremoto politico del quale scrivemmo in diretta anche se soltanto, con il passare del tempo, sarebbe assurta a rappresentare simbolicamente l’inizio della fine del “Celeste” Formigoni, fino a quel momento il dominus indiscusso della politica lombarda.

Celeste non era solo il soprannome dell’ex presidente di Regione Lombardia ma è anche il cognome di Alfredo, già sindaco di Sedriano, comune alle porte di Milano, che fu arrestato nell’ambito dell’inchiesta, salvo poi uscirne indenne nel corso del processo. Sedriano fu però sciolto per gli accertati condizionamenti mafiosi della macchina amministrativa nell’ottobre del 2013 e il provvedimento fu confermato successivamente confermato da Tar e Consiglio di Stato.

“Ho subito di tutto e sono risultato alla fine integro, onesto e inattaccabile, oltre che incorruttibile. Nessuno potrà mettere mai in dubbio questo”: con queste parole Celeste ha deciso qualche giorno fa di candidarsi nuovamente alla carica di primo cittadino di Sedriano, alla prossima tornata di amministrative, proponendosi come guida di tutto il centrodestra o almeno di una parte di esso (notevoli i malumori finora espressi in casa leghista per questa candidatura giudicata inidonea e intempestiva). Staremo a vedere.

Sono passati più di otto anni, eppure sembra trascorsa un’era geologica. Dopo l’operazione Crimine-Infinito che colpì nel luglio del 2010 le cosche all’opera tra Calabria e Lombardia, al termine di un’indagine congiunta tra i magistrati di Milano e di Reggio Calabria, non fu più possibile sostenere che le mafie al nord non c’erano grazie ad una sorta di immunità garantita da solidi anticorpi civili.

In tutti questi anni, con una progressione inarrestabile ogni regione dell’Italia settentrionale ha perso la patente di “isola felice”, mentre nel resto del Paese arresti di boss e confische di beni continuavano a fioccare senza soluzione di continuità: dopo la Lombardia è toccato al Piemonte, alla Liguria, all’Emilia-Romagna, poi al Veneto e al Friuli Venezia Giulia, alla Valle D’Aosta per arrivare poi infine anche in Trentino Alto Adige, come testimoniato dall’operazione Perfido.

In Calabria, l’opera poderosa avviata dalle Procure di Reggio Calabria (sotto la direzione del procuratore Gaetano Bombardieri e dei suoi aggiunti Gaetano Paci e Giuseppe Lombardo) e di Catanzaro (si pensi solo a cosa rappresenta oggi il processo Rinascita-Scott, istruito dal procuratore Nicola Gratteri) ha in questi ultimi anni messo a dura prova la capacità di resilienza delle cosche. In Lombardia, il passaggio di consegne tra Ilda Boccassini e Alessandra Dolci alla guida della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano è avvenuto nel segno della continuità di un impegno nel contrasto alle mafie che è oggi una punta di eccellenza del sistema giudiziario.

Tra la fine del 2020 e l’inizio di questo 2021, non c’è stata settimana in cui non sia giunta notizia di nuovi imponenti blitz delle forze dell’ordine, molti dei quali neppure finiti sotto i riflettori dei mass media.

Certo la pandemia occupa inevitabilmente tutti gli spazi dell’informazione e sembra che la gente non abbia interesse a sentire altro; eppure dovrebbe interessare la pubblica opinione conoscere come il consenso politico viene gestito, quando ad essere chiamate in causa sono le cosche.

C’è anche un altro rischio, cioè che la vicenda dell’ex assessore Zambetti, condannato dalla Cassazione per aver comprato i voti delle cosche, venga rubricata come una storia di un passato lontano, che è impossibile possa manifestarsi  in futuro.

Sicuramente sarà difficile trovare e condannare un uomo politico per aver comprato i voti mafiosi. Del resto le stesse modifiche introdotte nella previsione dell’articolo 416 ter c.p. sono a testimoniare lo sforzo di adeguare la legge alla realtà. Ma non parliamo di questo.

Ci riferiamo piuttosto al fatto che la questione mafie sembra essere definitivamente uscita dal dibattito politico, nonostante gli allarmi autorevoli sulle più che probabili intromissioni delle mafie nella gestione dei finanziamenti che arriveranno dall’Europa e nonostante le inchieste in corso in diverse procure italiane sui condizionamenti criminali dell’emergenza sanitaria in corso.

Se ci si abitua a questa coabitazione tra legale e illegale che, in alcuni contesti territoriali, non solo al sud, vede il mafioso essere trattato alla stregua di un rispettato uomo d’affari, al quale rivolgersi per ogni evenienza, è davvero la fine.

Qualche giorno fa, proprio Alessandra Dolci, intervenendo ad una iniziativa on line promossa dai coordinamenti di Libera Monza, Como e Lecco, nel ricostruire le attività delle cosche in Brianza, ha manifestato un profondo disappunto raccontando di Cosimo Vallelonga, 72 anni, boss di ‘ndrangheta, finito da poco agli arresti. Nonostante fosse stato già condannato per 416 bis c.p. sia al termine dell’operazione “La notte dei fiori di San Vito” di metà degli anni ’90, sia nell’operazione “Infinito” del 2010, Vallelonga continuava ad esercitare un ruolo indiscusso non solo all’interno della consorteria criminale, ma soprattuto nella società e nel territorio, viste le molte persone che ne cercavano consenso e consiglio, finite nelle intercettazioni degli inquirenti.

Ecco fino a quando sarà normale rivolgersi al boss e non allo Stato nelle sue diverse articolazioni, la battaglia sarà persa.

La storia di Zambetti è esemplare perché ci racconta di come per lui sia stato possibile pensare di trovare una scorciatoia politica nella relazione con i clan, anzichè percorrere i sentieri più tortuosi del confronto elettorale e della quotidianità della democrazia.

Speriamo allora che la storia delle relazioni pericolose tra la ‘ndrangheta e la politica in Lombardia sia finita per sempre e che questa sentenza rappresenti la pietra tombale su ogni possibile connubio.

Purtroppo i dubbi a tale proposito sono più di uno..

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