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D’Alì, ricorso in Cassazione. Richiesto obbligo di dimora per ex sottosegretario all’Interno

Rino Giacalone il . Giustizia, Mafie, Sicilia

Mafia: la Procura Generale di Palermo insiste nel chiedere l’obbligo di dimora per l’ex sottosegretario all’Interno. Nelle sentenze c’è però lo scenario trapanese fatto di storiche connivenze con i mafiosi 

La Corte di Appello di Palermo – sezione misure di prevenzione – ha revocato i vincoli sulla libertà personale per l’ex senatore trapanese Antonio D’Alì, ma la decisione che ha rimosso l’obbligo di dimora per tre anni che nel 2019 gli era stato imposto dal Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani, che aveva riconosciuto una certa pericolosità sociale per i suoi rapporti con esponenti di Cosa nostra, non è stata certo indolore per l’ex senatore trapanese.

I giudici della Corte di Appello di Palermo – diversi ovviamente da quelli che stanno processando l’ex senatore trapanese per concorso esterno in associazione mafiosa – hanno escluso l’attualità della pericolosità sociale per il senatore D’Alì, ma nel ricostruire la storia giudiziaria trapanese hanno attestato che la pericolosità sociale è rimasta manifesta sino almeno al 2005.

Un giudizio che può apparire contraddittorio ma che consegna alla storia un dato, quello che tra il 2001 e il 2006 al Viminale, sede del ministero degli Interni, su una delle poltrone di sottosegretario è stato seduto un politico, Tonino D’Alì che per i giudici, e non solo per quelli della Corte di Appello di Palermo, era in contatto con Cosa nostra. E in particolare con i famigerati Messina Denaro. Quelli che stavano ad un passo da Totò Riina e Bernardo Provenzano. A cento passi da una delle possibili moderne trattative tra la mafia e lo Stato.

E’ questo l’ennesimo passaggio giudiziario sul caso D’Alì, che è ancora imputato di concorso esterno in associazione mafiosa, per due volte prescritto e assolto, ma la Cassazione ha stabilito il doversi ripetere il processo di secondo grado in corso da qualche tempo. Un caso giudiziario che sul finire degli anni ’90 era finito in archivio, tirato fuori dalle nuove indagini attorno alla cupola trapanese coordinate dai pm Paolo Guido e Andrea Tarondo e condotte dalla Squadra Mobile di Trapani e che guardarono a Tonino D’Alì, 68 anni, parlamentare dal 1994 al 2018, proprio nel periodo clou della sua carriera politica, quando con premier Berlusconi nel 2001 andò a sedere al Viminale, restando ad un passo dalla nomina ministeriale. Contro di lui fu avviato un processo col rito abbreviato che però ancora continua dopo la decisione della Cassazione di far tornare il processo in Corte di Appello a Palermo.

In quelle carte a disposizione dei giudici è raccolto il modo col quale D’Alì, da banchiere, capo della Banca Sicula, una banca sospetta per investigatori come il questore Rino Germanà, e dove era stato assunto Salvatore Messina Denaro, figlio e fratello di mafiosi, mafioso lui stesso, si è plasmato politico e come da politico ha governato, come se fosse stato un re (ma a lui piaceva di più immaginarsi come un Podestà) la sua terra. Si perché a guardare bene è tutta una questione di terra, vigneti in particolare. Come quelli posseduti da D’Alì nelle campagne di contrada Zangara a Castelvetrano, in parte venduti a un prestanome di Matteo Messina Denaro e Totò Riina, in un periodo in cui gli stessi mafiosi stavano decidendo la strategia di attacco con lo Stato, con le stragi che da lì a poco sarebbero state attuate a Capaci e in via D’Amelio e poi continuando a Roma, Milano e Firenze. Terreni che appartengono a quella terra dove per i giudici cominciò la storia dei rapporti tra D’Alì, banchiere prima e politico dopo, con i mafiosi. I suoi campieri erano don Ciccio e Matteo Messina Denaro, padre e figlio.

Una rete di rapporti con la consorteria mafiosa, quella emersa e raccontata nelle trecento pagine della sentenza scritta dai giudici del Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani – presidente Daniela Troja a latere Visco e Maraccoli – che non è stata smentita dai giudici di appello. Con una grande forza giudiziaria è stata percorsa la lunga parentesi politica del D’Alì segnata, sin dall’esordio in politica, con la prima elezione al Senato nel 1994, da rapporti pericolosi con la congrega mafiosa trapanese. In quella sentenza è possibile riconoscere uno ad uno i partecipanti a quel “cerchio magico” del senatore dove oltre a mafiosi riconosciuti come tali erano presenti imprenditori non punciuti ma legati al mondo di Cosa nostra.

Non c’è attualità, hanno sostenuto i giudici di appello, ma esistono, hanno evidenziato, tutta una serie di contatti che collocano una manifestata pericolosità sociale sino a un tre lustri addietro rispetto ad oggi. A cavallo tra i due secoli, XX e XXI, D’Alì resta imputato, non ha più l’obbligo di dimora, ma non può dirsi estraneo a contatti con Cosa nostra.

Resta cristallizzato anche nell’ultima sentenza delle misure di prevenzione il rapporto con i Messina Denaro, la fiducia dei boss riposta nel latifondista D’Alì, e poi i rapporti con i mafiosi Virga, con gli imprenditori Morici e Coppola, i detentori di un enorme pacchetto di appalti pubblici, le rivelazioni del mazarese Enzo Sinacori, la indicazione di D’Alì come uno dei possibili candidati trapanesi nel movimento Sicilia Libera, il partito della mafia, che poi si fermò dinanzi all’emergere di Forza Italia.

Anche i giudici di appello hanno citato le vicende relative alla Calcestruzzi Ericina e al prefetto Fulvio Sodano. Il prefetto difendeva la Calcestruzzi Ericina perché questa impresa dopo la confisca stava fallendo nelle mani dello Stato, soffocata dalla soverchieria mafiosa, D’Alì affrontò Sodano in malo modo. Era sottosegretario all’epoca e nel 2003 il prefetto fu trasferito da Trapani. Una decisione che i mafiosi avevano anticipato, certi che il trasferimento da Trapani ci sarebbe stato. Così parlavano come provano le intercettazioni, e parlavano di quel prefetto tinto che sarebbe andato via ancora prima che il Viminale decidesse quel trasferimento. Era il capo mafia don Ciccio Pace che parlando con i suoi accoliti diceva che quel prefetto se ne stava andando. I giudici sono stati severi con D’Alì: l’episodio è prova “sufficiente a dimostrare il contributo offerto da D’Alì a sostegno degli interessi mafiosi”. L’episodio ha come scenario i primi anni del 2000, all’interno di quel periodo di manifestata pericolosità sociale, lontano però dall’attualità. Per i giudici non c’è prova che D’Alì intervenne per far trasferire quel prefetto che a suo dire, con un giudizio sprezzante e fuori posto, “era favoreggiatore della calcestruzzi Ericina”.

Adesso la Procura Generale di Palermo ha presentato ricorso in Cassazione contro la decisione dei giudici di Appello di liberare D’Alì dai vincoli della misura di prevenzione, rendendolo perfettamente libero di tornare a muoversi. Nel ricorso presentato in Cassazione dal pg Rita Fulantelli, si sostiene che i giudici di Appello “non hanno compreso la piena compenetrazione nell’ambiente mafioso di D’Alì…la Corte non ha considerato che episodi successivi al 2001 (quali, nel 2003, la rimozione di un Prefetto che si era opposto alle ingerenze del D’Alì negli appalti pubblici in favore di appartenenti a Cosa Nostra) avrebbero dovuto costituire elemento di certezza della pervicacia e del protrarsi della condotta (di concorso esterno in associazione mafiosa) da parte del D’Alì, con ciò sottovalutando elementi di rilievo posti alla sua attenzione anche al fine di accertare l’attualità della riconosciuta pericolosità sociale qualificata dello stesso”.

Nel ricorso c’è una forte critica al giudizio di appello: “i giudici – si legge – hanno svilito l’importanza di alcune dichiarazioni”, quelle dell’imprenditore Nino Birrittella e del sacerdote Ninni Treppiedi. Erronea valutazione poi sul contenuto delle intercettazioni risalenti al 2016 che in carcere hanno permesso di ascoltare il potente boss di Palermo, Giuseppe Graviano – legatissimo al latitante Matteo Messina Denaro – parlare proprio secondo la pg del senatore D’Alì.

Per la Procura Generale sono proprio quei segreti svelati in carcere da Graviano ad un altro soggetto a dare attualità alla pericolosità sociale dell’ex sottosegretario: “Graviano parla dei legami con quello che cercano non usando verbi al passato ma al presente”. Così come prova dell’attualità dei rapporti per la Procura generale di Palermo è l’incontro nelle campagne trapanesi, risalente al 2014, tra D’Alì e esponenti della cosca mafiosa. Incontro “fotografato” dai carabinieri durante una indagine antimafia, quella che scaturì nella cosiddetta operazione “Pionica” che ha già portato a numerose condanne.

La Procura generale è netta. Bisogna tornare a dare valore al giudizio formato dai giudici di primo grado: “Il proposto in altre parole non ha mai voluto assumere atteggiamenti di assoluto distacco nei confronti di ambienti i riconducibili a “cosa nostra” con ciò manifestando una persistenza ed un’attualità del vincolo che ho la legato all’associazione mafiosa per oltre un ventennio…nel 2014 il D’Alì  ha proseguito nel mantenere i suoi contatti con un mondo dal quale  avrebbe dovuto manifestare con evidenza anche all’esterno di volere prendere le distanze. Ed invece nel 2014 il D’Alì (in quell’incontro con i mafiosi interessati a raggiungere un affare ndr) ha mostrato di non volere in alcun modo mettere in atto chiare condotte di negazione di qualsiasi contatto con soggetti mafiosi”.

La Procura generale ha quindi chiesto l’intervento della Cassazione per un giudizio da riscrivere: “La Corte di Appello di Palermo avrebbe dovuto valutare nel loro complesso ed in una visione unitaria, la stabilità del rapporto con l’associazione mafiosa, strettamente connessa alla natura del primo significativo intervento in favore “cosa nostra” (ed in particolare di Matteo  Messina Denaro)  intervento che, dato il ruolo politico assunto da proposto, deve valutarsi di rara gravità.

Si tratta di una disponibilità che è proseguita nel tempo dovendo ricambiare il favore ricevuto da Cosa nostra per i voti ricevuti favorendo, dunque, a sua volta quegli stessi elementi di Cosa nostra che lo avevano, appunto, aiutato a vincere le elezioni fino a diventare Senatore della Repubblica. La disponibilità offerta in favore di Cosa nostra è stata nel tempo costante e ha risposto alle singole esigenze specifiche dell’associazione che, di volta in volta,  ha avuto bisogno di un intervento del D’Alì, nel delicato e redditizio settore dell’aggiudicazione degli appalti o nella tutela delle proprie attività imprenditoriali ovvero nel più delicato ambito della permanenza a Trapani di funzionari dello Stato anche avvalendosi delle prerogative proprie di un Senatore”.

Non c’è una pericolosità sociale la cui fine è stata fissata dai giudici nel 2005: “Egli ha manifestato la sua pericolosità in un arco di tempo assai lungo che va certamente dal 1992 al 2005 e, come ritenuto dalla stessa Corte di Appello di Palermo, si è protratto di fatto fino ai primi mesi del 2011. Il patto stretto nel 1992 pensato da  Matteo Messina Denaro e stretto anche con Salvatore Riina hanno segnato l’intera vita del D’Alì. Quel patto, che se stretto con “cosa nostra”, si trasforma in un eterno vincolo – “tu sei là che là che ti diverti ed io sono qua rinchiuso” ricordava Francesco Virga dal carcere al D’Alì nel Natale del 1998, in un periodo successivo alle elezioni del 1994.

Adesso si attende il responso della Cassazione. Ma indubbiamente c’è da dire che nelle indagini manca ancora una parte del contorno di persone, della corte del senatore, che in oltre 30 anni lo ha seguito. Personaggi rimasti fuori dalle indagini, qualcuno ancora in carriera politica, figure particolari che magari stanno pensando di ricostituirsi verginità politica al fianco di nuovi soggetti politici arrivati sulla ribalta politica del capoluogo trapanese e non solo. Soggetti che magari tengono per se determinati segreti.

Altra cosa poi. Resta per intero uno scenario preciso. La provincia di Trapani è davvero un luogo strano. Mafiosissimo, da sempre massonico, quasi sempre impenetrabile. Qui le cose si vengono a sapere, quando si vengono a sapere, con circa mezzo secolo di ritardo.

Un esempio sono le tremila pagine di motivazione della sentenza sulla uccisione del giornalista e sociologo Mauro Rostagno. A 32 anni di distanza da quel delitto, si scopre che a dare l’ordine di uccidere Rostagno, “pericoloso ficcanaso” per i mafiosi fu, proprio don Ciccio Messina Denaro e che quel segreto venne coperto da carabinieri, servizi segreti, magistrati che si adoperarono molto per depistare le indagini. Il tutto, raccontano quegli atti, avvenne in un contesto politico inquietante. Dove si annida l’humus delle trattative!

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