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Strage alla stazione di Bologna, le ultime acquisizioni giudiziarie

Leonardo Grassi * il . Emilia-Romagna, Giustizia, Istituzioni, Memoria

Ci sono importanti novità che riguardano la vicenda giudiziaria della strage di Bologna del 2 agosto 1980.

Il 27 novembre dello scorso anno è iniziata l’udienza preliminare del procedimento a carico di Paolo Bellini, imputato di concorso nella strage, e da poche settimane sono state depositate le motivazioni della sentenza dei giudici bolognesi che ha condannato Gilberto Cavallini all’ergastolo.

L’udienza preliminare è stata rinviata all’11 gennaio prima e successivamente all’uno febbraio ed è quindi in corso di svolgimento.

Bellini, un personaggio ambiguo

Paolo Bellini era già comparso nelle prime indagini sulla strage, ma la sua posizione era stata archiviata. Torna adesso all’attenzione degli inquirenti perché la sua immagine, fra l’altro riconosciuta dalla moglie, compare in un filmato amatoriale che lo ritrae alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, proprio al momento della strage.

Il Bellini è noto alle cronache giudiziarie per molte ragioni e la sua presenza in stazione assume una rilevantissima efficacia indiziante.

Già appartenente ad Avanguardia Nazionale, la formazione eversiva di Stefano Delle Chiaie, si è reso responsabile, fra i molti altri reati, dell’omicidio di un militante di Lotta continua, Alceste Campanile, commesso a Reggio Emilia il 12 giugno 1975, confessato dal Bellini nel contesto di una controversa attività collaborativa.

Trafficante di opere d’arte, ambiguo informatore dei servizi, fuggì all’estero nel 1976 dopo aver commesso un tentato omicidio e si rifugiò in Paraguay con la falsa identità di Roberto Da Silva, commerciante di mobili antichi, la stessa identità con cui ricomparirà ufficialmente in Italia, nel 1981, quando verrà arrestato perché fermato alla guida di un camion carico di mobili rubati.

Bellini è in contatto con la mafia, con Antonio Gioè, coinvolto nella strage di Capaci, con l’ambiente di Delle Chiaie, con uomini dei servizi di sicurezza e, cosa del tutto singolare per un latitante, con il Procuratore della Repubblica di Bologna Ugo Sisti, che viene sorpreso dalla polizia a Reggio Emilia, nell’albergo del padre  proprio poco dopo la strage.

Le indagini sulle agende di Gilberto Cavallini, inoltre, provano un collegamento di quest’ultimo con tale Bellini Giorgio, che in realtà, sulla base di elementi logici analizzati dalla Corte d’Assise di Bologna, dovrebbe invece identificarsi col Bellini Paolo.

Su Bellini convergono l’indagine della Procura Generale, che si conclude con la sua incriminazione per strage, e la motivazione della sentenza contro Gilberto Cavallini, che nel ripercorrere tutti i materiali processuali riguardanti la strage di Bologna prende in considerazione anche la sua posizione con la capacità analitica e la meticolosità che la contraddistingue.

Implicato nel processo palermitano sulla trattativa stato mafia, viene definito dai giudici di Palermo come un “ambiguo personaggio legato ad ambienti dell’estrema destra eversiva” e nella  sentenza del Tribunale di Palermo, citata nella sentenza Cavallini, si afferma che vi furono due canali di trattativa fra Stato e mafia: “Quello tramite Bellini era sicuramente secondario e del tutto ipotetico rispetta a quello principale tramite Vito Cianciamino certamente più autorevole per la caratura di quest’ultimo. Entrambi però confermerebbero l’intendimento delle istituzioni di venire a patti con Riina”.

Oscuri intrecci

Oltre al Bellini la Procura Generale di Bologna, ha inquisito e portato davanti al giudice dell’udienza preliminare un ex generale del SISDE, da pochi giorni deceduto, e un ex ufficiale dei carabinieri, imputati di depistaggio, nonché tale Domenico Catracchia, amministratore dello stabile di via Gradoli 96, a Roma, la cui proprietà è riconducibile ai servizi di sicurezza, dove nel 1978 abitarono Mario Moretti e Barbara Balzarani durante il sequestro dell’Onorevole Aldo Moro e dove anni più tardi, nel 1981, si stabilirono per un certo periodo della loro latitanza alcuni esponenti dei NAR, in un appartamento Francesca Mambro e Giorgio Vale e in un altro Gilberto Cavallini ed altri.

Anche la sentenza Cavallini si occupa del Catracchia, dei covi di Via Gradoli e più in generale affronta alcune zone oscure del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro, discostandosi con ricchezza di argomentazioni dalla versione ufficiale dei brigatisti pentiti, che ormai appare sempre meno credibile.

Affronta il tema del luogo del rapimento di Moro, quella via Fani che percorre un quartiere ove vi erano numerose abitazioni e strutture nella disponibilità dei servizi di sicurezza, sì da essere il luogo ideale per tenere sotto controllo una complessa azione militare nel pieno centro della città di Roma, quale è stato appunto il rapimento di Moro, e dove al momento del rapimento, inspiegabilmente, si trovava un alto ufficiale del SISMI, il Colonnello Camillo Guglielmi. Questi, ci ricorda la sentenza, non era un ufficiale qualsiasi, era infatti inserito nella struttura di Gladio ed era il diretto superiore di personaggi addestrati all’uso di esplosivi e ad azioni di guerriglia e controguerriglia, e a sua volta dipendeva direttamente dal generale Musumeci, piduista e depistatore.

La sentenza ipotizza poi punti di convergenza fra il terrorismo di destra e quello di sinistra, proprio nell’arco di tempio che intercorre fra il rapimento di Moro e la strage di Bologna, quasi una sorta di attacco concentrico allo Stato, teorizzato in alcuni documenti, ed evocato da alcuni collaboratori, che avrebbe dovuto portare per dirla con Franco Freda, alla disintegrazione del sistema.

Tratta infine anch’essa, come i Procuratori Generali, la posizione di Domenico Catraccha, che, come ricordato, era stato amministratore dello stabile di via Gradoli 96 dove fu tenuto sequestrato Aldo Moro fino alla fine del 1977 e dove abitarono indisturbati Mario Moretti e Barbara Balzarani, mentre le forze di polizia battevano a tappeto gli edifici egli appartamenti circostanti, per essere infine dirottate a cercare il cadavere di Aldo Moro, nel lago della Duchessa.

Quello stesso Cartacchia che anni più tardi affittò due appartamenti di via Gradoli a uomini dei NAR e a Enrico Tommaselli, leader di terza posizione che nel processo NAR 2 elesse domicilio proprio in via Gradoli 96.

Gelli, Ortolani e il ruolo dei servizi

Nell’indagine dei Procuratori generali di Bologna entrano poi, in veste di sovventori o mandanti, quattro personaggi già altrimenti ritenuti coinvolti nella strategia della tensione.

Si tratta di Licio Gelli, e Umberto Ortolani, ritenuti mandanti e sovventori dell’attentato, e di Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, il primo considerato mandante-organizzatore ed il secondo solo organizzatore della strage.

Le accuse nei loro confronti, tutti deceduti, scaturiscono dall’analisi di un documento contabile che Licio Gelli custodiva, ripiegato nel suo portafogli, all’atto del suo arresto in Svizzera il 13 settembre 1982, rimasto a lungo sconosciuto nella sua interezza agli inquirenti bolognesi per ragioni che destano più di un sospetto sulla correttezza delle indagini.

Si tratta di annotazioni contabili di Licio Gelli, fra le quali una intestata “Bologna” che rappresenta la ricostruzione dei movimenti di un conto corrente in dollari e di appunti, dai quali si ricava una movimentazione di quindici milioni di dollari in un arco di tempo a cavallo della strage. I primi versamenti avvengono subito prima e subito dopo la strage, il 20, il 30 luglio e il primo settembre per un importo complessivo di otto milioni di dollari.

Da un’analisi delle sigle apposte a lato dei versamenti e dalle successive indagini la Procura Generale ha individuato come finanziatori e mandanti della strage di Bologna i già menzionati Licio Gelli, Federico Umberto D’Amato, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi, tutti affiliati alla P2 e tutti implicati nella strategia della tensione fin dai suoi esordi.

Parte delle somme sarebbero state poi dirottate verso Aldo Semerari, psichiatra legato al mondo della destra e dei servizi ucciso dalla camorra il primo aprile 1982, probabilmente perché era prossimo a iniziare una collaborazione con la magistratura.

Si tratta di notizie già ampiamente riportate dalla stampa, sulle quali tuttavia mi soffermo anche per osservare che dagli ultimi provvedimenti giudiziari bolognesi esce completamente smentita ancora una volta la tesi “negazionista” secondo cui i NAR condannati per la strage con sentenze passate in giudicato, cioè Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, sarebbero le vittime innocenti di un oscuro complotto giudiziario ordito dai famigliari delle vittime e da magistrati politicizzati, come se i famigliari delle vittime avessero preteso un colpevole basta sia per soddisfare la loro sete di vendetta e come se  magistrati delle estrazioni culturali più diverse, tutti “toghe rosse”, tutti asserviti al partito comunista, si fossero prestati al loro gioco.

Credo che l’espressione “toga rossa”, poi diffusasi ampiamente nel circuito mediatico, sia nata proprio in relazione ai magistrati di Bologna che allora si occuparono della strage.

Dalle recenti indagini e dalla motivazione della sentenza contro Cavallini esce poi completamente smentita anche l’idea che i NAR, autori della strage, fossero  un gruppo di ragazzini avulso da qualsiasi collegamento con la strategia della tensione e con i suoi sinistri esponenti, ragazzini che avrebbero praticato una sorta di terrorismo che si autodefiniva “spontaneismo armato”, tesi questa cara alla Procura della Repubblica di Bologna e che la Corte d’Assise sottopone a una critica stringente.

Sono emersi invece nessi importanti fra gli autori materiali della strage e i servizi segreti piduisti che li hanno strenuamente coperti con un’impressionante serie di depistaggi, analiticamente descritti dalla sentenza Cavallini, e che hanno addirittura fornito loro dei covi, come ci dice l’emblematica vicenda del covo di Via Gradoli, utilizzato in tempi diversi sia per terroristi di sinistra che di destra.

La sentenza della Corte d’Assise di Bologna, oltre a ripercorrere minuziosamente quarant’anni di indagini, ponendo a confronto le diverse dichiarazioni rese nel corso del tempo da imputati e da collaboratori di giustizia, e a porsi perciò come un prezioso archivio di materiali istruttori, anche poco conosciuti, arriva a concludere che la strage di Bologna si inserisce a pieno titolo nella strategia della tensione, tesi questa frequentemente messa in discussione, e che la strage di Bologna sarebbe addirittura, come tutte le altre stragi una “strage di Stato”.

Dai depistaggi alla disinformazione

Di fronte a questi risultati, la disinformazione, prosecuzione dei depistaggi al di fuori di processi, ha già iniziato a fare il suo lavoro, e secondo alcuni articoli di stampa anche i procuratori generali bolognesi che hanno condotto l’inchiesta sarebbero magistrati politicizzati, come certo erano politicizzati quelle decine e decine di magistrati che a vario titolo, pubblici ministeri, giudici istruttori, magistrati d’appello e di cassazione ecc. hanno contribuito alle condanne degli affiliati ai NAR.

Se ne hanno già i primi sentori, nella stampa e in alcuni siti, ma la disinformazione deve ancora attrezzarsi, specie di fronte alle oltre duemila pagine della sentenza di condanna di Gilberto Cavallini, che nel ribadire la responsabilità dei NAR ripercorre i percorsi argomentativi delle precedenti sentenze di condanna e propone argomenti sino ad ora inediti ed inedite ricostruzioni di alcune vicende specifiche.

Si tratta di un documento importante, che al di là della condanna di un imputato, si impone prepotentemente sul piano del dibattito storico e giudiziario sulla strage di Bologna, proponendo con forza un punto di vista per certi versi inedito con il quale comunque si dovrà confrontare chi voglia occuparsi della strage di Bologna con spirito libero e mente serena.

* Magistrato, ha svolto funzioni di giudice istruttore, di gip, di sostituto procuratore generale e di presidente di sezione a Trieste e Bologna. Per oltre dieci anni si è occupato di terrorismo nell’ambito di istruttorie sulla strage del 2 agosto 1980 e su quella del treno Italicus del 4 agosto 1974. Presidente di tribunale a Montepulciano e Siena, si è occupato del processo Montepaschi. Ha scritto diverse pubblicazioni in tema di diritto penale e di terrorismo di destra. Fa parte del comitato consultivo della Presidenza del Consiglio sulla desecretazione e il versamento agli Archivi dello stato degli atti relativi a fatti di terrorismo stragista.

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