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Il muro di Trump e i rischi per la democrazia

Pierluigi Ermini il . Internazionale, Istituzioni, Società

L’immagine di Donald Trump fermo davanti al muro che lui ha finito di far costruire al confine tra gli Stati Uniti e il Messico, parla più di tante parole.

Quel lungo muro, da lui evocato e promesso fin dall’inizio del suo mandato, è la rappresentazione del vuoto che quest’uomo ha saputo creare in questi quattro anni di suo mandato presidenziale.

Un vuoto soprattutto di umanità, dove le fondamenta di una democrazia liberale, fatta dei diritti delle persone, della dignità di ogni essere umano, di una giustizia da perseguire, sono rimaste aldilà di quel muro.

“Se alzi un muro pensa a ciò che resta fuori” diceva Italo Calvino;  Donald Trump, non ha capito che ciò a cui stava, giorno dopo giorno, rinunciando, altro non era che la visione liberale e democratica di uno stato federale che deve saper tenere insieme le diversità..

Ha rinunciato all’unità del paese, a una pacificazione tra etnie diverse, a una ricerca di maggiore uguaglianza sociale, a un contrasto vero al razzismo, a un’assistenza verso le persone più in difficoltà. Elementi e obiettivi che lui ha visto come cose evanescenti e inutili, nella sua visione autarchica di gestione del suo ruolo e del grande potere che da esso deriva.

Poi ha detto no a forme di collaborazione con gli altri paesi dell’Occidente e in generale dal mondo, a una tutela della nostra casa comune, ampliando il conflitto, soprattutto economico tra i diversi continenti del pianeta.

E anche la ripresa economica, che pure era riuscito a costruire, si è completamente sfaldata dietro una gestione, a dir poco sciagurata, della diffusione della pandemia nel suo paese.

Come Narciso, lui si è specchiato su quel muro, compiacendosi di se stesso. E come tutti i narcisi, anche Donald Trump è un uomo che non è abituato alla sconfitta.

La solitudine di un uomo si percepisce tutta in quelle immagini; nulla può il dito alzato, la smorfia della sua bocca, le parole che tentano una riconciliazione.

Sono frasi espresse senza passione, avvertite come non vere da chi le ascolta.

L’uomo di fronte a quel muro ha un sorriso amaro, con la consapevolezza che sarà ricordato dalla storia soprattutto come il presidente dei due impeachment, della scarsa visione del futuro, dell’isolazionismo e della rabbia..

Qualunque cosa gli accada nei prossimi giorni (impeachment, dimissioni, o l’arrivo alla sua scadenza naturale), o successivamente nei prossimi mesi (sia penalmente che civilmente), Trump appare come un uomo destinato a non avere un futuro politico in prima persona, ma con lui non finirà il cosiddetto “trumpismo”.

La destra populista, che sfida le regole democratiche, non è figlia di Trump, ma di decenni di perdita di diritti da parte di una parte importante del popolo americano. Trump ne è forse più l’effetto che non la causa.

In questi giorni ha fatto molto discutere sia a destra che a sinistra nel nostro paese, quanto affermato al riguardo da Fabrizio Barca, ex ministro del governo Monti e attuale coordinatore del Forum delle diseguaglianze sociali.

Barca parla di un parte dei cittadini americani che hanno subito negli ultimi 30 anni enormi diseguaglianze, che non sono state solo economiche, ma anche sociali, con la perdita di diritti e di riconoscimenti come persone, lavoratori.

Diseguaglianze che hanno riguardato molta della classe lavoratrice americana, con la perdita della classe media, ma anche le difficoltà di tanti lavoratori delle grandi aree industriali del nord.

La lettura del bellissimo libro di Federico Rampini “I cantieri della storia” aiuta a comprendere meglio il pensiero di Barca, nella parte che lui dedica alla Grande Depressione e al New Deal degli anni ‘30.

Ciò che caratterizzò quegli anni fu l’insicurezza che si creò tra le persone dovuta anche all’eccessiva concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi che portò a diseguaglianze estreme.

Tutto questo spinge Rampini a riprendere una bellissima frase di un giudice dell’Alta Corte Louis Brandeis che affermava: “possiamo avere la democrazia, o possiamo avere la ricchezza concentrata in poche mani, ma non possiamo averle entrambe”.

Parole vere e concrete che quanto visto in questi giorni in America, ci fanno riflettere sull’ estrema fragilità anche di quella democrazia.

Ma, attenzione, è un segnale per tutte le democrazie.

Anche per la nostra, soprattutto oggi che ci rendiamo sempre più conto, anche a causa della pandemia, di quanto grandi siano le disuguaglianze sociali in atto nel nostro paese.

A quale risentimento arriva un popolo colpito da enormi disuguaglianze, che non crede più che esista un’alternativa o si sente prigioniero di questo senso di insicurezza che va a toccare il suo stesso ruolo nella società? . E lo spazio che ciò apre all’autoritarismo”.

Fabrizio Barca con il suo intervento non intendeva giustificare i manifestanti di Washington,  ma solo cercare di capire le ragioni per cui quasi metà degli americani si sta oggi identificando in un “essere imbarazzante” e un “mascalzone” come Trump.

Domande e riflessioni che ci devono interpellare tutti, anche noi italiani che siamo di fronte a un bivio e scelte decisive a su come investire i soldi che serviranno per il nostro nuovo new deal.

E dopo quanto sta succedendo in questi giorni nel nostro paese, con la politica che guarda solo a se stessa, completamente staccata dalla realtà e dalle necessità dei cittadini, si ha la sensazione che anche chi ci governa, come Trump, anche se in modi diversi, non sappia vedere cosa c’è aldilà del proprio muro e del rischio che stiamo correndo.

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Trump e l’allergia alla democrazia

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