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Terremoto in Irpinia, 1980. Una toga tra le macerie

Ernesto Aghina * il . Campania, Giustizia, Memoria, Società

Sisma1Il 23 novembre per tanti è una data come un’altra, per alcuni invece è una ferita (ancora) dolorosissima: il ricordo del terremoto dell’Irpinia del 1980, quarant’anni fa, che vide circa 3.000 morti, e un vasto ed impervio territorio quasi completamente devastato. Quello che segue è il “diario” di quei giorni di un (allora) giovane pretore, che ebbe la ventura di prendere servizio a S. Angelo dei Lombardi (epicentro del sisma) solo due mesi prima del terremoto.

Nel “secolo” passato, a differenza di quanto accade oggi, come è noto si poteva accedere alla magistratura subito dopo la laurea in giurisprudenza, senza necessità di un titolo supplementare e fu così che, superato il concorso, a soli 25 anni, indossai la toga che era stata di mio nonno materno.

La prima – e fondamentale – decisione di un “uditore giudiziario” (come una volta si chiamavano i neomagistrati) al termine del tirocinio, è quella della scelta della sede di esordio, operata – sulla base dell’elenco delle sedi disponibili – in ordine di graduatoria del concorso. Ero il terzo dei non pochi napoletani, ed analizzando con trepidazione l’elenco degli uffici giudiziari disponibili (tradizionalmente quelli per cui nessuno degli “anziani” aveva fatto domanda di trasferimento), verificai con disappunto che nella lunga lista non era presente nemmeno un tribunale in Campania.

Solo un giorno dopo (ammetto l’addebito), ebbi modo di capire che la Pretura di S. Angelo dei Lombardi (località a me “cittadino” del tutto sconosciuta) non si trovava tra le brume del nord, quanto nelle verdi valli dell’Irpinia.

Mi recai pertanto per la prima volta in esplorazione a S. Angelo (e ricordo di quel breve tour conoscitivo solo una serie interminabile di tornanti) per accedere ad una cittadina arroccata su un’altura, scoprendo un Tribunale francamente bruttino, forse al disotto della media della grigia edilizia giudiziaria italica.

Non molto per la verità per alimentare il comprensibile entusiasmo di un esordiente ma, acquisita informazione che la sede sarebbe stata richiesta da un concittadino che mi precedeva, la cancellai dai miei orizzonti per dirigermi, insieme al collega De Carolis (oggi Presidente della Corte d’Appello di Napoli), alla volta di Ferrara, dove avevamo concordato di condividere l’inizio dell’attività giudiziaria.

Il fato, che notoriamente governa i destini degli uomini, aveva però in serbo una sorpresa: al momento della scelta della sede il collega che avrebbe dovuto insediarsi a S. Angelo mi comunicò che avrebbe optato per il Tribunale di Lagonegro, più lontano, ma che gli consentiva, sull’autostrada, un percorso più veloce e consono alle prestazioni della sua nuova autovettura.

Fu così che scelsi S. Angelo dei Lombardi, senza particolare convinzione né naturalmente curandomi di consultare la mappa sismica del territorio (cosa che da allora segnalo prudentemente di fare ai magistrati in tirocinio). La nuova sede era raggiungibile in circa due ore di viaggio, per cui restavo sostanzialmente a Napoli, tra gli sguardi ironici di chi, motivato dalla destinazione in zone ad alta densità criminale, mi preconizzava un impegno giudiziario (in effetti non particolarmente suggestivo) formato da abigeati, pascoli abusivi o controversie agrarie in un’area caratterizzata per di più da una frammentazione della proprietà agricola.

Nel settembre 1980 mi trovai così, “giudice ragazzino” a tutti gli effetti, pretore (unico) a S. Angelo dei Lombardi, con la consueta trepidazione degli esordienti (la prima udienza non si scorda mai…), in un mondo rurale caratterizzato da un dialetto di difficile comprensione, dove ad esempio “strumento” qualificava il titolo di proprietà del terreno.

Ricordo che venni subito adottato dal personale amministrativo dell’ufficio, del tutto comprensivo per le mie inevitabili incertezze iniziali di giudice monocratico (quando si compone il collegio si fruisce dell’ausilio dell’esperienza dei colleghi più esperti), e tutti i funzionari di cancelleria sono stati miei indimenticati compagni di avventura, uniti in quella magica coesione lavorativa che caratterizzava solo il (mai troppo) rimpianto ufficio di Pretura mandamentale.

Il mio primo procedimento giudiziario non fu certamente eclatante: l’appello di un provvedimento di sfratto emesso dal giudice conciliatore, competente per le cause di minimo valore, relativo ad un esercizio commerciale cittadino.

Parva materia, verrebbe da dire, ma la paterna saggezza del vice pretore Mignone (un anziano avvocato che univa ad un’elegante calligrafia una profonda cultura umanistica), intuendo le mie perplessità di fronte ad una fattispecie mai esaminata prima durante il tirocinio, mi consigliò di non affrettare la decisione per poter meglio valutare il merito della questione giuridica. Mi illustrò l’importanza che quel locale (il più importante ritrovo di S. Angelo) aveva nel contesto urbano, nonostante il modesto valore della causa, e l’opportunità di esaminare con cura gli atti; raccogliendo le sue indicazioni, il mio primo atto giudiziario fu quindi quello di sospendere l’esecuzione dello sfratto, prevista nella settimana successiva.

Il 23 novembre 1980, domenica, non ero a S. Angelo dei Lombardi, dove pure avevo preso in locazione un bilocale in prossimità del Castello longobardo, e nemmeno a Napoli, per cui non ho patito il terrore di quei lunghissimi 90 secondi del sisma: un altro, decisivo, segno del destino.

Il lunedì successivo, nell’iniziale ridda di confuse comunicazioni, come tanti non pienamente consapevole dell’area esatta interessata dal terremoto, raggiunsi in auto S. Angelo di buon’ora per la mia udienza penale.

Al mio arrivo trovai uno scenario agghiacciante, fatto di silenzi squarciati da urla di dolore, macerie ed ancora macerie per ogni dove: una cittadina sconvolta da un’apocalisse che me la rendeva (per quel poco che avevo imparato a conoscerla) del tutto irriconoscibile.

Il Tribunale (sede anche della Pretura), per quanto segnato da profonde e visibili ferite nella sua struttura, era tra i pochi edifici ancora agibili; il moderno ospedale un ammasso di detriti, la mia abitazione semplicemente dissolta.

Credo di essere stato tra i primi a raggiungere S. Angelo, in cui peraltro erano già presenti militari del genio e vigili del fuoco per cui, superato lo sbalordimento dinanzi ad uno spettacolo per me del tutto imprevisto, compresi che la mia tenuta da ufficio era del tutto inadeguata: mi tolsi giacca e cravatta e cominciai ad aiutare un gruppo di persone impegnate nel liberare da un cumulo di detriti una zona (posta in prossimità dell’incrocio che portava all’ufficio postale) in cui si avvertiva distintamente, sotto le macerie, un lamento.

Scavammo freneticamente a mani nude per un tempo che non riesco a quantificare, incoraggiati dalla percezione di suoni sempre più vicini, e mi resta ineludibilmente impressa nella memoria la sensazione al tempo stesso di sorpresa e angoscia che derivò dal veder ergersi dalle rovine un ……. pastore tedesco che terrorizzato, si diede alla fuga scartando in una corsa frenetica e incontrollata.

Il “mio” terremoto a S. Angelo dei Lombardi è da sempre tutto raccolto in quell’immagine di un cane impazzito, che si allontana tra le macerie, sbandando senza meta, in uno scenario di polvere e di morte.

A quel primo e terribile giorno seguirono accadimenti in frenetica successione, segnati dal disorientamento di un giovane pretore alla ricerca di un ruolo utile in quella tragedia, in cui le domande erano ben diverse e prioritarie rispetto a quelle di giustizia.

Mi recai pertanto a Napoli dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, dove venni confinato ad una lunghissima anticamera, interrotta solo quando, qualificandomi come Pretore di S. Angelo dei Lombardi, venni travolto dagli abbracci e dalla solidarietà dei colleghi che (impropriamente) mi qualificarono come una sorta di sopravvissuto.

Mi venne attribuita extra ordinem un’auto di servizio (con guida personale) e venni “promosso” sul campo da pretore a pubblico ministero (in uno con il collega Barbuto, pretore di Lacedonia), in un ufficio di Procura acefalo per il collocamento in aspettativa del Procuratore della Repubblica in carica, che all’epoca era privo di sostituti procuratori.

In un inverno gelido, senza alcuna esperienza professionale alle spalle, mi trovai a rappresentare l’istituzione giudiziaria dell’alta Irpinia dinanzi alle massime cariche dello Stato, tra cui l’indimenticato presidente Pertini, pranzando nella neve in tende militari e dormendo in un container metallico, posto dinanzi al Tribunale, assegnatomi dal neosindaco designato dopo la morte del suo predecessore.

Una sorta di epopea fatta di emergenze, situazioni imprevedibili che costringevano a decisioni metagiuridiche, il tutto sullo sfondo di uno scenario apocalittico, fatto di sofferenza e disperazione.

II dopo terremoto si connotò di dinamiche convulse e a volte surreali.

Ricordo la protesta dei cittadini di Lacedonia, esclusi dalle provvidenze post sismiche, che paralizzarono l’autostrada Napoli-Bari, determinando la “carica” (e numerosi arresti) da parte dei carabinieri guidati dal giovane capitano Enrico Cataldi (divenuto poi generale e comandante del Racis), catapultato in un solo giorno dal Trentino a S. Angelo dei Lombardi dopo il decesso del capitano Pecora.

Ho ancora vivida l’immagine della catasta di bare, di ogni tipo e dimensione, depositate davanti al cimitero (rivelatosi presto insufficiente), da una catena di soccorritori che avevano ricevuto via radio la segnalazione dell’emergenza ed erano generosamente accorsi con il loro carico ligneo, senza che alcuno avesse poi avvertito della saturazione della necessità, determinandone l’utilizzazione quale combustibile di falò notturni per attenuare i rigori della notte.

La successiva, accorata istanza di centinaia di familiari, che chiedevano di avere una tomba su cui piangere il congiunto deceduto (sepolto per l’emergenza in una fossa comune), mi indusse poi a disporre l’esumazione delle salme, per procedere al loro riconoscimento individuale.

Nel mosaico di fatalità non posso non ricomprendere anche la circostanza che molti cadaveri erano stati rinvenuti, nel tradizionale orario dell’appuntamento serale televisivo con la partita di calcio, sotto le macerie del bar Corrado, proprio l’esercizio di cui avevo (purtroppo) disposto poco prima la sospensione dell’esecuzione dello sfratto. Tra gli avventori anche l’allora sindaco di S. Angelo dei Lombardi, il giovane avvocato Guglielmo Castellano.

Rammento il pathos della mia prima esperienza di pubblico ministero in un processo contro un giovane ufficiale (inevitabilmente condannato ad una pena severa) accusato di avere occultato una cassetta contenente un piccolo tesoro in monete d’oro e dollari, consegnatagli dai suoi sottoposti, che l’avevano rinvenuta sotto le macerie di una casa di campagna, vulnerando così il credito meritoriamente acquisito sul campo dall’esercito.

Non ho dimenticato le precipitose fughe all’aperto derivanti dalle periodiche scosse di assestamento, che interrompevano l’attività di un ufficio giudiziario che aveva orgogliosamente ripreso la sua attività, processando per direttissima alcuni (fortunatamente pochi), “sciacalli” sorpresi a trafugare i poveri beni abbandonati tra le rovine.

Seguirono le indagini condotte sui cosiddetti “crolli facili”, l’arresto di esponenti del Genio Civile e di costruttori derivate dal deposito di elaborati peritali che avevano evidenziato plurime violazioni della normativa antisismica, la risonanza mediatica che accompagnò la solerte ripresa dell’attività giudiziaria nell’area del cratere, il titolo del quotidiano Il Mattino: “I giudici tra le macerie”.

La presenza di un collega (ma soprattutto un maestro) quale Franco Roberti, all’epoca giudice istruttore (poi assurto alla carica di procuratore Nazionale Antimafia), mi consentì di affrontare problematiche probabilmente impegnative per chiunque si fosse trovato ad affrontare una simile contingenza, ma sicuramente impensabili per un giovanissimo pretore, che doveva ogni volta affrontare e superare lo sconcerto dell’interlocutore (anche autorevole) di turno, sorpreso dall’incontro con un magistrato ben lontano dall’ austera saggezza che avrebbe dovuto connotarlo secondo l’immaginario collettivo.

Con Roberti, e con una colonna dell’esercito, fummo incaricati su disposizione “superiore” di prelevare tutti i fascicoli processuali depositati presso il Tribunale di S. Angelo, per trasferire (temporaneamente??) ad Avellino l’ufficio giudiziario. L’ostacolo umano dei corpi degli avvocati del Foro locale, sdraiati sulla neve per impedire la marcia dei camion, indusse a più miti consigli, evitando di infierire su una comunità segnata dalla sorte, che vedeva nel “suo” Tribunale un presidio di legalità e di vanto cittadino.

Ricordo le parole persuasive di Roberti: “Eccellenza, questa gente ha già perso tutto, se togliessimo loro anche il Tribunale, che è il centro della vita pubblica, completeremmo l’opera del terremoto”.

Quale giudice tutelare, curai la gestione di decine di tutele di minori, orfani per il sisma, raccogliendo storie strazianti di bambini irrimediabilmente stravolti da una violenza partita dalla terra e capace di scuotere il profondo del loro cuore, lì dove si nascondono le paure, in cui si era annidata per non lasciarli più.

Il cammino della ricostruzione fu lento e difficile, segnato anche da episodiche infiltrazioni camorristiche che determinarono un complesso dibattimento con numerosi imputati provenienti dall’agro sarnese-nocerino. Per portalo a termine revocai la mia domanda di trasferimento alla Procura di Napoli, e continuai per molti anni la mia funzione di Pretore, una sorta di “medico condotto” del diritto, aduso a ricevere i più disparati protagonisti di conflitti tra confinanti, beghe familiari, ecc., più inteso alla promozione di un accordo tra le parti più che a determinare la ragione e il torto secondo le norme del codice.

Ricordo con nostalgia un contadino (tale Petito) quasi quotidianamente presente in ufficio, con il volto perennemente bruciato dal sole e con una coppola a strette falde che, scappellandosi teatralmente dinanzi all’ “eccellenza”, rivelava la sommità di una cute bianchissima; sostanzialmente viveva per una causa che lo contrapponeva da anni ad un vicino per un “tomolo” di terreno. Quando la decisi (in senso per lui favorevole) percepii distintamente il suo disagio, superato solo dalla notizia dell’appello proposto da parte del suo rivale, che gli consentì (ne sono certo non senza soddisfazione), di legittimare le sue ulteriori peregrinazioni in Pretura, divenuta ormai la sua seconda casa…

Quel legame con S. Angelo dei Lombardi, insorto in una situazione tragica, ebbe modo di consolidarsi con il tempo, parallelamente alla scoperta di un territorio ricco di cultura e di tradizioni, a cui venni avvicinato da avvocati di grande umanità e capacità professionale.

Mi trasferii a Napoli solo quando, con la soppressione degli uffici di pretura, compresi che era venuto il tempo di chiudere un’esperienza irripetibile per affrontare un nuovo e diverso percorso.

Quarant’anni anni sono tanti, ma conservo nel cuore voci, volti ed immagini (sbiadite) di un tempo lontano, di una calamità naturale che mi sfiorò soltanto, ma in modo comunque sufficiente a determinare, in una palestra di formazione giudiziaria del tutto atipica, emozioni incancellabili.

La cittadinanza onoraria di S, Angelo dei Lombardi, conferitami in occasione di un anniversario di quel maledetto 23 novembre, è per me motivo di orgoglio come la sua motivazione “per aver difeso l’istituzione giustizia” nei giorni del terremoto, che campeggia sulla targa donatami dal Comune ed esposta nel mio ufficio, memore che “il ricordo della felicità non è più felicità, mentre il ricordo del dolore è ancora dolore”.

Fonte: Giustizia Insieme

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