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Come cambiare la redazione con lo smart working

Francesco Facchini il . Informazione, Società

redazione-giornaleDopo l’intervento di Giancarlo Tartaglia e di Raffaele Fiengo, ecco il contributo al dibattito sull’uso dello smart working nel lavoro giornalistico di Francesco Facchini, nell’ambito della discussione sul tema avviata dalla Fondazione per il Giornalismo Paolo Murialdi

Smartworking e giornalismo. Parliamone subito, prima che sia troppo tardi. Mi è stato chiesto (un onore) di espormi in prima persona per discettare sul tema che sembra essere, a seconda dei punti di vista da cui lo si guarda, un’opportunità o una trappola. Forse dovremmo cambiare la solita prospettiva da cui vediamo le cose, quella negativa, cercando di pensare agli scenari che può aprire nella professione che versa in una profonda crisi di identità ancor prima che di soldi.

Lo stato delle cose. Era il giugno del 2017 quando è stata introdotta in Italia la legge sul cosiddetto lavoro agile. Una norma che declinava gli elementi del rapporto tra lavoratore e azienda (in modo parziale o totale rispetto all’orario) e che aveva elementi innovativi, ma anche una filosofia vecchia. Aveva ed ha elementi innovativi: tra le parti, infatti, si costruisce un accordo che prevede gli strumenti tecnologici adatti al lavoro, l’equiparazione del compenso tra lavoratori agili e non agili, un diritto alla formazione continua e anche quello, importantissimo, alla disconnessione. Molti gli aspetti controversi, il primo dei quali connesso proprio all’ultimo diritto citato nella frase precedente. Il lavoro agile, basato sull’orario e sul controllo, è stato utilizzato, anche in questo periodo di pandemia, come una specie di giogo sulle spalle del lavoratore utile ad aumentare i tempi di reperibilità (e quindi di disponibilità alle operazioni) annullando ulteriormente i tempi di vita rispetto a quelli del lavoro. La disconnessione? Una specie di chimera. Questa legge badava e bada solo ai dipendenti. E i collaboratori?

Gli altri agili. Già, peccato però che giornali, agenzie, siti e televisioni siano fatti da un popolo di freelance le cui garanzie sono pari a quelle dei rider che ci portano il cibo a casa. Zero. Loro sono gli altri agili. Costretti da sempre allo smartworking, non dotati di accordi, se non in rari casi, con le loro testate, omaggiati spesso di tagli unilaterali al compenso, dotati di rappresentanza nulla. Lo smartworking è la loro vita, ma gli strumenti di lavoro sono i loro, i costi sono i loro, la disconnessione un’assurdità. Sono la maggioranza dei giornalisti d’Italia il cui compenso è sotto i 10 mila euro annui in media. Lo smartworking può essere quel combinato disposto tra tecnologie e cambiamento dei flussi di lavoro che può ribaltare la loro situazione.

Le redazioni. Cos’erano le redazioni prima del Covid e dello smartworking? Astronavi in viaggio verso Marte già ben lontane dalla Terra. Le redazioni, negli ultimi anni, si sono staccate dal reale per creare comunità di interessi o fazioni specifiche (molto spesso collimanti con i desiderata dell’editore di turno). La creazione di quell’opera collettiva di rappresentazione e analisi della realtà che doveva essere un medium è diventata altro. Già prima del Covid erano stanze svuotate di contenuto. Ora sono stanze svuotate anche delle persone e un’occasione ghiottissima per gli editori di abbattere un costo. L’apripista dell’operazione? Caltagirone che ha prolungato lo smartworking de Il Messaggero e ora vola verso la vendita di via del Tritone.

Ok, questo lo stato dell’arte. Ribaltiamo il punto di vista. E se lo smartworking fosse la chiave di volta per il futuro? Ormai gli strumenti tecnologici che abbiamo a disposizione (pc, smartphone e tablet) ci connettono a piattaforme in mobilità sulle quali si possono svolgere tutti i passaggi per la creazione di contenuti di qualsiasi tipo di medium. Già, sto parlando di quello smartworking che anche noi giornalisti ora consideriamo come un autoisolamento, senza pensare che la tecnologia mobile che abbiamo a disposizione potrebbe essere la piattaforma del rilancio. Rivediamo, quindi le posizioni, e gli elementi della costruzione del flusso di lavoro di una testata e pensiamo a come normarli, mettendo sul tavolo i soldi che si risparmiano con le economie di scala delle aziende editoriali e trovando per questi cooptazioni finalizzate a migliorare la condizione di tutto il comparto, non solo quella degli editori.

Le tecnologie? Tutte nel telefonino. Sono un esperto di mobile content creation. Creo prodotti editoriali, formo, insegno, offro consulenze tutte basate sul lavoro interpretato con le device mobili. È ora di scrollarsi di dosso la paura del cambiamento e di far entrare la mobilità nel lavoro giornalistico con l’obiettivo di metterla a frutto per un risultato editoriale migliore e quindi perfino più vendibile. Con il telefonino si girano film, perché non si può fare un intero prodotto editoriale? Sulle piattaforme di lavoro collaborativo si possono costruire i processi decisionali di un giornale, creare contenuti in collaborazione simultanea, scrivere articoli, caricare contenuti multimediali nei programmi di redazione, archiviare, intervistare, produrre video senza contatto fisico, creare infografiche, fare analisi dei dati. Cosa stiamo aspettando?

I nuovi redattori e le nuove redazioni. “Houston, abbiamo un problema…”. Ecco il nuovo ruolo delle redazioni. Devono essere centri di controllo dei passaggi di produzione del risultato editoriale e di protezione e coordinamento dei giornalisti. Luoghi dove si pensa, ma anche dove si vede la realtà che ci circonda. Ogni smartphone di ogni giornalista può essere collegato alla “centrale” per aiutarne il lavoro, coadiuvarne lo sviluppo, guidarlo al risultato. La redazione deve diventare un cuore pulsante di un sistema le cui vene, grazie al lavoro virtuale, tornano ad essere terminazioni sul territorio. Le redazioni, ora mere catene di montaggio quantitativo, tornerebbero proprio grazie ai ponti che costruisce lo smartworking, corpi con occhi e orecchie su quello che sta succedendo nella realtà. I redattori dovrebbero ricevere tra le mani lavoro vivo, eseguito in tempo reale, da trattare per l’armonizzazione col risultato che il cervello di questo corpo ha dato al cuore. Una mia collega, quando deve andare in redazione, dice “vado in fonderia”. I redattori dovrebbero dire: “Vado al centro di controllo”. Per un redattore lo smartworking dovrebbe essere il mezzo con cui andare a cercare la notizia stando di fronte al fatto per poi andarla a rifinire in redazione sulla sua scrivania.

Contratti, collaboratori e mezzi. La contrattualistica della nostra professione è stata travolta dal tempo e dalla crisi. È il momento di cambiarla proprio in chiave smart, ma come un combinato disposto che non risponda più a turni di catena di montaggio, ma sia integrato con i risultati editoriali e migliori la qualità del lavoro e la vita del lavoratore. Il vincolo fiduciario tra giornalista e giornale non dovrebbe più essere governato da numeri quantitativi, ma da numeri qualitativi. Detto questo va aggiunto che anche i collaboratori vanno riconosciuti come smartworker e messi a lavorare con accordi e mezzi adatti alle ore impiegate a costruire il risultato e a rappresentare quegli occhi e quelle orecchie dei quali il corpo redazione ha bisogno. I mezzi? Un perfetto kit da mobile journalist costa meno di mille euro. Anche gli strumenti amministrativi di una testata possono diventare utilizzabili su piattaforme virtuali e codificare il rapporto di lavoro con il contributore. Affinché sia certo e venga pagato. Subito. Come si fa per un idraulico.

Questione di soldi. Gli strumenti del lavoro agile vanno adeguati al tempo e la revisione del ruolo delle redazioni, dei redattori e dei freelance va fatta secondo una logica di sistema. L’editore dev’essere cooptato a mettere sul tavolo le risorse risparmiate dal contenimento dei costi fissi delle redazioni per rinnovare il rapporto con le vene che rappresentano i terminali di quel cuore pulsante che deve ricominciare a essere la redazione, vero centro di pensiero e di controllo tecnico del prodotto finale. Le risorse economiche si trovano lì, ma ci vuole un nuovo impianto contrattuale e di rapporto tra editori e giornalisti affinché siano redistribuite equamente. Non può finire tutto a un gioco per il quale gli editori si sbarazzano degli immobili delle redazione e si mettono in tasca il risparmio. I giornalisti facciano un passo avanti e cambino le regole del gioco, gli editori anche.

Fonte: www.fondazionemurialdi.it

 

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