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Zone rosse in Lombardia: il percorso obbligato della giustizia

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Lombardia, Società

alzano coronavirusLa pandemia che ha flagellato il nostro Paese e gran parte del mondo si può raccontare in vari modi.

Ma c’è una verità assoluta e indiscutibile. Ed è il tremendo dolore causato. Testimoniato da un interminabile elenco di persone morte soffrendo. Ma anche dal dolore dei familiari: uomini e donne che ancora oggi pagano il prezzo di quei lutti vivendo un tormento dell’anima che non lascia respiro.

Al di là di tale unica verità, domina l’incertezza.

Per mesi siamo stati invasi da un esercito di virologi epidemiologhi scienziati e specialisti vari con logaritmi al seguito. Un’epidemia nell’epidemia, che ha indotto un intelligente burlone ad inventarsi sui social una sorta di album “Panini” con le figurine dei protagonisti dello “spettacolo”. Oltretutto, spesso in conflitto fra loro, ciascuno a difendere tesi dileggiate dagli altri. All’inizio per qualcuno si trattava di una banale influenza, mentre per altri era la nuova peste.

Ancora oggi c’è chi sostiene che il virus è ormai innocuo, ma la tesi è bollata da alcuni come irresponsabile. In sostanza, una sola certezza: per molti profili – anche di decisivo rilievo – il virus è sconosciuto o indecifrabile. Di qui perplessità e confusione che di certo non facilitano (anzi!)  il compito della Procura di Bergamo cui tocca accertare – in prima istanza –  se vi siano state o meno responsabilità penali nella “catena” di fatti, scelte e decisioni cui seguirono gli effetti disastrosi che sappiamo.

Il quadro poi è complicato dalla molteplicità degli “anelli” che direttamente o indirettamente hanno o possono aver contribuito a formare tale catena: premier e ministri; amministratori regionali e locali; associazioni di categoria; CTS (Comitato tecnico scientifico); ISS (Istituto superiore della sanità); OMS (Organizzazione mondiale della sanità, con la sua costola italiana);  responsabili del servizio sanitario; RSA; unità di crisi …. con possibili sovrapposizioni di confini fra le varie competenze.

Ora, come si sa la responsabilità penale è personale e vincolata alla verifica della sussistenza di due parametri fondamentali: colpa e nesso di causalità fra condotta ed evento.

Colpa significa “imprudenza, negligenza o imperizia”. Per escludere quest’ultima si ricorre ai tecnici (solo Trump può permettersi di farne a meno…), ma se si sentono tutti i tecnici e poi si decide tempestivamente di conseguenza, ecco che la configurabilità di “imprudenza o negligenza” si fa obiettivamente tutt’altro che semplice, anche in presenza di scelte che si rivelano sbagliate.

E le difficoltà aumentano quando si tratta di dimostrare il nesso di causalità, posto che il virus – lo ripetiamo – per  molti importanti profili è sconosciuto o indecifrabile, caratteristica che essendo confermata persino dal “conflitto” fra gli “specialisti” si potrebbe addirittura definire ontologica.

E poi: la colpa e il nesso di causalità, se non proprio oltre ogni possibile dubbio (requisito richiesto per la fase del giudizio), devono essere provati in modo convincente e sicuro già nelle indagini preliminari.

Resta fermo che ricostruire i meccanismi delle scelte fatte a tutti i livelli è di fondamentale importanza per una comunità civile che voglia  seriamente elaborare il lutto di una tragedia così epocale.

Ma oltre alla responsabilità penale ce ne sono altre (avesse mai ragione Davigo?) di carattere morale, politico, amministrativo. Accertabili con Commissioni d’inchiesta parlamentari o regionali. Basta volerlo, impegnandosi però a trarne insegnamenti concreti.

Non come avvenne per la Commissione Anselmi sulla  P2: un’immensa fatica per raccogliere una montagna di dati significativi, poi  accantonati come se  nulla fosse mai successo.

Il Fatto Quotidiano, 14/06/2020

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