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La Costituzione non è un taxi

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Mafie

carcereNei giorni del Coronavirus sta diventando un problema quello dei mafiosi detenuti al 41 bis mandati “ai domiciliari”. Preliminare ad ogni altra considerazione è che lo Stato deve tutelare la salute di tutti i detenuti, mafiosi compresi, e del  personale anche in situazioni di emergenza pandemica. Utilizzando a tal fine – prima di tutto – le strutture sanitarie che già funzionano nelle carceri o  adattando nuovi locali.

Fissato questo principio base, resta aperta la discussione su altri versanti.

È vero che la pena (articolo 27 della Costituzione) deve tendere alla rieducazione del condannato, ma ciò ha un senso solo quando si tratta di condannati che mostrano di volersi reinserire o almeno fanno sperare che prima o poi ci proveranno.

Non è assolutamente il caso dei mafiosi “irriducibili”, che cioè non si sono “pentiti” collaborando con lo Stato, e perciò vengono assoggettati al regime carcerario del 41 bis. Non lo è ontologicamente, culturalmente e strutturalmente. I mafiosi infatti giurano fedeltà perpetua all’associazione; lo status di “uomo d’onore” si conserva fino alla morte; solo “pentendosi” (cioè dimostrando concretamente di voler disertare dall’organizzazione criminale) si cessa di farne strutturalmente parte. La perpetuità del vincolo (salvo “pentimento”) è storia plurisecolare ed immutabile della mafia confermata da esperienze univoche e convergenti. Una realtà che all’evidenza  è incompatibile con una prospettiva di recupero.

A chi sostiene (giustamente, ci mancherebbe) che la Costituzione vale per tutti, si può osservare che essa non è un taxi da prendere solo quando fa comodo.

Il mafioso è vissuto e vive per praticare un metodo di intimidazione, assoggettamento e omertà capace di dominare parti consistenti del territorio nazionale e momenti significativi della vita politico-economica del Paese.

In questo modo il mafioso contribuisce in maniera concreta e decisiva a creare tutta una serie di ostacoli di ordine economico e sociale che limitano fortemente la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendo il pieno sviluppo della persona umana. In altre parole, il mafioso è la negazione assoluta del fondamentale articolo 3 della Costituzione e di ogni suo principio.

E se vuole accedere ai benefici che la Carta prevede, deve dimostrare di essere davvero rientrato nella Costituzione. Altrimenti pretenderebbe benefici senza meritarli per niente, e sarebbe sostanzialmente una truffa.

D’altra parte, la Corte Costituzionale (sentenza  n. 253/2019), nell’estendere ai mafiosi del 41 bis la possibilità di ottenere permessi premio, premessa la particolare intensità e forza del vincolo criminale, ha stabilito che “si esige dal detenuto il definitivo abbandono” di tale vincolo.

ll mafioso non pentito continua a essere convinto di appartenere a una “razza” speciale, nella quale rientrano soltanto coloro che sono davvero uomini (non a caso autodefinitisi “d’onore”). Tutti gli altri, quelli del mondo esterno, non sono uomini. Sono individui da assoggettare. Non persone ma oggetti, esseri disumanizzati. E non va mai dimenticato che il 41 bis segna la fine di un’inaccettabile anomalia: criminali sanguinari che –  fino al 1992  –  se ne stavano  in galera come in un grand hotel, da dove continuavano “liberamente” a comandare e ordinare delitti.

Ricordare questi dati non significa cedere a logiche vendicative ispirate a “cattivismo” giustizialista. Sono riflessioni basate sulla facile previsione che aprire spazi di libertà ai mafiosi “irriducibili” comporta il pericolo che molti saprebbero approfittarne per rientrare in un modo o nell’altro – rafforzandolo – nel giro delle attività criminali tipiche della mafia (droga, “pizzo”, gioco d’azzardo, appalti truccati ecc.). Una falla nell’antimafia. Un lusso che lo Stato non si può assolutamente permettere. In ogni caso, un segnale di arretramento e debolezza che la mafia potrebbe cogliere per avviare nuove, come dire, “baldanzose” strategie criminali.

E poi ci sono anche le vittime dei delitti di mafia (familiari compresi, ovviamente), i cui diritti non sono da meno di quelli dei mafiosi detenuti. In ogni caso vanno bilanciati con le esigenze di tutela della collettività, messe a rischio di collasso proprio dal crimine organizzato di stampo mafioso. Salvo replicare il don Ferrante di Alessandro Manzoni: che negava l’esistenza della peste mentre ne stava morendo.

Infine, occorre evitare la frammentazione delle decisioni in tema di 41 bis: non dovrebbero occuparsene tanti magistrati qui e là dispersi in tutte le sedi giudiziarie della penisola; sarebbe bene centralizzare la competenza in un unico ufficio, affidando le funzioni di PM ad un pool di magistrati della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo.

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

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