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Piazza Fontana, quel commissario di Padova che aveva capito tutto

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Memoria

formella piazza fontana 2Pasquale Juliano in un memoriale inviato ai magistrati prima di Piazza Fontana aveva scritto che erano imminenti degli attentati. Finì accusato di aver costruito prove false contro i “neri” e  di averli perseguitati

Lo “specifico” del terrorismo stragista sta innanzitutto nella ferocia degli attentati contro cittadini inermi. Poi nell’impiego di una violenza che colpisce, nel mucchio, chiunque capiti a tiro; non una violenza “selettiva” come quella del terrorismo di sinistra o di destra, che dal mondo della clandestinità decide quali “simboli” uccidere o “gambizzare”.

Infine, uno “specifico” costante dello stragismo è il coinvolgimento di settori inquinati delle istituzioni, a livello di programmazione dell’attentato e/o  depistaggio delle indagini.

Questi tratti si ritrovano tutti nel “grappolo” di stragi che colpì il nostro Paese  il 12 dicembre di 50 anni fa: due volte a Milano, con la bomba alla Banca dell’agricoltura di piazza Fontana (17 morti) e un’altra (inesplosa) presso la Banca commerciale italiana; poi – praticamente in contemporanea con Milano – tre ordigni a Roma, uno presso la Banca nazionale del lavoro (13 feriti), altri due presso l’Altare della patria (4 feriti).

I colpevoli “dovevano” necessariamente essere anarchici o genericamente di sinistra. Per contro, la matrice fascista delle stragi “doveva” essere assolutamente coperta. E così, ecco le accuse contro un ballerino (Valpreda) e  un ferroviere (Pinelli), morto precipitando da una finestra della Questura. Accuse che poi risulteranno del tutto false, ma che intanto erano servite ad accreditare la pista anarchica presso la “grande” opinione pubblica.

Secondo lo storico Guido Crainz (“Il paese mancato – Dal miracolo economico agli anni Ottanta”, Donzelli 2003;  citato da Miguel Gotor in “L’Italia nel Novecento – Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon”, Einaudi 2019), il depistaggio ha fatto venire al pettine il nodo dell’epurazione mancata alla fine del fascismo, grazie alla quale il personale di “alta polizia” formatosi sotto la dittatura era stato sistematicamente “riciclato” da Scelba e ricollocato nei posti chiave.

Un po’ quel che era accaduto in magistratura, dove magistrati compromessi col regime riuscirono non di rado a scalare i vertici giudiziari, al punto che alla presidenza della Cassazione e a quella della Corte costituzionale furono nominati l’ex procuratore generale della Repubblica di Salò e l’ex presidente del Tribunale della razza!

Ma non è tutto: pur di ottenere lo scopo (occultare la matrice fascista delle stragi) si è attivato un meccanismo di jattanza impudente davvero rara, costruendo una storia che insieme alla verità ha travolto l’onore e la vita di un funzionario scrupoloso e onesto. E’ la storia (raccontata da Toni Mira su “Avvenire”, riprendendo un’intervista del giugno 1996) di un commissario di Polizia di Padova – Pasquale Juliano – che in un memoriale inviato ai magistrati prima di Piazza Fontana aveva scritto che erano imminenti degli attentati.

Egli stava indagando sui neofascisti Freda e Ventura e sul gruppo veneto di Ordine nuovo, uomini di cui aveva capito l’estrema pericolosità. Ma invece di essere sostenuto, Juliano venne bloccato. Sospeso dalle funzioni e dallo stipendio, trasferito in un posto dove in sostanza fu costretto a non far più nulla, finì lui sotto processo, accusato di aver costruito prove false contro i “neri” e  di averli perseguitati. Dopo 10 anni fu assolto. Morì nell’aprile 1998 ad appena 66 anni. Senza che nessuno (conclude Mira) gli abbia mai chiesto scusa.

Sta di fatto che, a tutt’oggi, i mandanti e gli esecutori materiali delle stragi del 12 dicembre 1969 sono sconosciuti. Ciò sul piano giudiziario, nonostante una serie di elementi che convergono verso Freda, Ventura e Ordine nuovo veneto. L’accurata e sistematica attività di depistaggio istituzionale ha funzionato. Tuttavia, il disegno politico sottostante non è passato grazie alla reazione delle forze democratiche.

Secondo la lettura più accreditata, tale disegno (la cosiddetta strategia “della tensione”) era volto in maniera aprioristica e ingiustificata a negare ogni pista nera, per poter scaricare sulla sinistra la responsabilità delle stragi. Così da inasprire lo scontro sociale e spostare a destra l’opinione pubblica, con l’obiettivo ultimo di un governo “d’ordine” sul modello greco. E ciò mentre si profilava (nel giugno 1969) una “strategia dell’attenzione” di Moro verso le forze di sinistra, avvisaglia di un possibile cambio di fase politica.

Una situazione che richiama Portella della Ginestra, la prima strage della storia dell’Italia repubblicana (11 morti e 56 feriti). Qualche migliaio di persone si era riunito il 1° maggio 1947 non solo per la festa dei lavoratori, ma pure per festeggiare la netta vittoria del Blocco del popolo (socialisti e comunisti) alle elezioni regionali del 20 aprile.

Anche in questo caso un cambio di fase politica non gradito a tutti. Ribadito il 12 maggio, sul piano nazionale, dal presidente del Consiglio De Gasperi, sancendo la fine della collaborazione con i partiti socialista e comunista fin lì applicata.

Tornando a Moro, impossibile non ricordare la tragedia del massacro della scorta, della lunga prigionia dello statista e del suo assassinio ad opera delle Brigate rosse, quando – nel 1978 – egli  stava faticosamente riuscendo a dar vita a un governo di unità nazionale, realizzando una svolta di segno opposto a quella di De Gasperi del 1947.

Come se nel nostro paese operasse una specie di cupa “damnatio”, tutte le volte (per esempio Portella, piazza Fontana e via Fani) che si vuol cambiare toccando certi interessi, anche internazionali.

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

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