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Prato, due imprenditori condannati come “caporali”

Luca Soldi il . Giustizia, Migranti

Tribunale PratoLa lunga fila di biciclette che da via Roma, da Via del Purgatorio, sfilano verso il centro ci riportano al tempo delle grandi fabbriche, delle sirene che urlavano a fine turno.

Dei vestiti sporchi di grasso, dei capelli coperti di peluria. Di quella stanchezza che doveva finire appena arrivati sulla soglia di casa perché c’era da fare nei campi, c’era da rassettare le poche cose.

C’era soprattutto la voglia di sognare, di sperare, di faticare, finito il giorno, un’ora in più.

Quegli uomini, quei giovani, senza fari, senza luci, ci ricordano dei tempi di Gigiolone, del lanificio Tempesti, del Franchi, della Campolmi. E di quelli che si spingevano fino in via Bologna, fino al Fabbricone.

Di quando anche le donne inforcavano la bicicletta per andare a La Romita, di quando le crisi lasciavano senza stipendio e senza lavoro, ma faticosamente uniti, resistenti, consapevoli di essere sfruttati come ha immortalato Gillo Pontecorvo in “Giovanna”.

Arrivavano dal Poggio a Caiano, da Bacchereto, da Colle, da Capezzana, da Carmignano, dal Poggio alla Malva. Ma anche da Castelnuovo, da Tavola, da Iolo ed i più fortunati dalle Fontanelle, da Cafaggio, da Grignano. E cosi succedeva dalla Vallata, da Pistoia, da Campi.

Tutti figli di Prato, come di Prato, sono figli questi giovani che oggi trovano lavoro negli stanzoni del Macrolotto. Tutti stretti dai bisogni, dalle miserie lasciate a casa che adesso non sono più dove si contavano le “macchie” con le paure ma all’altro capo del mondo. Dove la mamma vive ancora in una capanna.

Ma i mezzani, i caporali sono sempre lì e come sempre ci sono quelli che il lavoro lo sfruttano e che di quelle braccia ne hanno bisogno. E quelle lunghe file di biciclette senza luce, quel rumore di cigolio e catene che sbattono nel carter, ce lo raccontano ogni giorno. Ci spiegano che ci sono diritti negati, che in quegli stanzoni si sfrutta la persona, che non siamo più negli anni Cinquanta ma anche che di quelle elemosina si vive, si alimenta la vita, ci si innalza di un gradino, si aiuta casa propria.

Che oggi come allora c’è ben poco da celebrare se non l’eroismo di chi cerca di sopravvivere a questo mondo. Ma questo non giustifica, non basta a contentarci perchè quelle persone avrebbero diritto ad esser accolte e custodite, riconosciute piuttosto che odiate poco dopo esser state sfruttate. Piuttosto che esser ignorate o lasciate in balia solo della loro voglia di ribellarsi e rialzare la testa.

Ed ogni tanto ci si accorge che il Diritto è presente. Che la legge contro il caporalato può lasciare aprire nuovi varchi che valgono per Prato ma anche per i filari della Puglia, per i pomodori della Campania e gli agrumi di Calabria. Che non è fatta solo per gli altri.

Ed oggi per la prima volta in Italia due imprenditori, giovani anche loro, di meno di trent’anni, sono stati condannati da un giudice di Prato, Francesco Pallini, per “sfruttamento lavorativo” in ordine al reato 603-bis del codice penale, norma contro il caporalato riformata nel novembre 2016 e mai applicata finora a degli imprenditori in una sentenza di merito in Italia.

Così per la prima volta nel nostro Paese ci troviamo di fronte ad una condanna per sfruttamento dei lavoratori che colpisce i titolari dell’impresa e non i “caporali”. Per la prima volta vengono colpiti i beneficiari di una intermediazione illecita. Per la prima volta ci troviamo di fronte ad una applicazione che dovrà avere rilevanza giuridica e che dunque coinvolgerà i titolari dell’impresa nella piena responsabilità con quanti procurano, come fanno i caporali, la manodopera sottocosto. I due imprenditori costringevano numerosi operai a lavorare più di dodici ore al giorno, senza contratto, in condizioni igieniche degradanti e con salario ingiusto.

“Ci risulta che questa sia la prima sentenza di merito per questo reato. Per noi è importante – ha detto il procuratore di Prato Giuseppe Nicolosi – perché fotografa il ‘sistema Prato’. E’ indubitabilmente rilevante anche perché traccia un percorso: di situazioni come quella rilevata nella sentenza ce ne sono molte in città. E la procura spera che si inneschi quel processo di presa di coscienza necessaria a migliorare le cose”.

Ha di che ben gioire la Cgil che può parlare di “vittoria storica” che potrebbe portare a cambiare le cose, mentre in tanti percorrono, ancora nel buio, via del Purgatorio.

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