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Liberi di scegliere, la forza di un abbraccio

Salvatore Casabona * il . Calabria, Istituzioni

Bambina-disegnaI ristretti in regime di 41-bis ord. pen. alla prova della giurisprudenza minorile di Reggio Calabria.

Il decreto del Tribunale per i minorenni Reggio Calabria che si commenta affronta il tema complesso dei rapporti genitore detenuto in regime di carcere duro per reati di mafia e figli minori nella prospettiva di una possibile mitigazione del regime carcerario ex art 41-bis op (autorizzazione a colloqui visivi con i minori ultra dodicenni senza il vetro divisorio) nell’ipotesi in cui il padre compia un percorso di consapevolizzazione degli errori fatti.

Approfondimento autocritico da parte della figura paterna funzionale a rendere edotti i minori – in funzione preventiva e di una corretta relazione educativa – dei crimini commessi dalla famiglia del genitore (appartenente ad una potente ‘ndrina di Reggio Calabria), dei motivi della sua carcerazione e della condizione carceraria degli altri familiari: tutto ciò al fine di costruire «una relazione franca padre-figli e costruttiva per il benessere dei medesimi minori, con l’obiettivo che gli stessi possano ricevere proprio dal genitore ristretto indicazioni adeguate al loro sviluppo educativo, nel rispetto delle regole della convivenza civile».

La decisione che si commenta è destinata ad arricchire il dibattito sui rapporti tra genitori in regime di restrizione e figli minori e costituisce per certi aspetti un novum nel filone giurisprudenziale del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, ormai noto per i provvedimenti de potestate adottati nei confronti di esponenti di mafia ritenuti inidonei a svolgere le prerogative genitoriali [1].

Il caso riguarda un padre, esponente di una delle più potenti ‘ndrine di Reggio Calabria, arrestato dopo un lungo periodo di latitanza, condannato a trent’anni per associazione di stampo mafioso e per gravi reati contro la persona, ristretto in regime di 41-bis op e dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale nei confronti dei suoi due figli minori.

Al fine di una migliore comprensione del provvedimento in oggetto, lo stesso va letto insieme a quello precedente dell’ottobre 2017 relativo al medesimo nucleo familiare [2].

Atteso il contesto ambientale ad alta densità criminale in cui risiedono i minori al momento dell’arresto del padre, la fascinazione esercitata dalla storia criminale del marito e dal suo mondo sulla madre dei minori, la idealizzazione e mitizzazione della figura paterna da parte di quest’ultimi, si profila – soprattutto nei confronti del minore maschio in età preadolescenziale – il rischio concreto di un processo di identificazione nella figura paterna, «anche rispetto alla parte deviante» [3].

Per tale ragione il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria disponendo, oltre alla decadenza del padre, il co-affidamento dei minori ai servizi sociali, prescrive agli operatori del Consultorio familiare di attivare percorsi di sostegno/recupero delle competenze genitoriali della madre e ciò al fine di «giudicare in maniera critica le azioni del marito e… tenere un corretto approccio con i figli minori che avevano mitizzato la figura paterna» [4], nonché attività di sostegno psicologico e socio-educativo a favore dei minori «con l’obiettivo di spiegare loro gradualmente la realtà delinquenziale in cui si era formato il padre e i reali motivi della sua carcerazione» [5].

Inoltre lo stesso Tribunale per i minorenni segnala l’opportunità di un trasferimento del nucleo familiare in altra località «in quanto la negativa reputazione della famiglia paterna, i connessi rischi di emarginazione sociale e la suggestione di determinati modelli culturali» esporrebbero i minori, una volta divenuti adolescenti, al rischio concreto della loro circuitazione in «situazioni di devianza o di pregiudizio per la loro integrità emotiva» [6].

Infine, in ossequio all’Accordo quadro finalizzato alla realizzazione del progetto Liberi di scegliere [7], il Tribunale segnala la necessità di attivare percorsi educativi per far sì che i minori entrino «in contatto con realtà positive e diverse da quelle del contesto di provenienza, come quelle rappresentate dalle associazioni di volontariato antimafia» [8].

A seguito di tale primo provvedimento, la madre trasferisce l’abitazione presso i nonni materni, in un ambiente familiare più sereno e rispondente alle esigenze dei minori; questi ultimi con la genitrice vengono così affiancati da volontari dell’associazione Libera, da assistenti sociali e da psicologi per percorsi di socializzazione e sostegno; incontrano con regolarità il genitore detenuto; ed infine, la madre rivela ai figli la reale condizione del padre, modificando l’originaria versione che lo stesso si trovasse fuori per motivi di lavoro [9].

In tale contesto, si inserisce la richiesta del padre, provato dal carcere duro, di potere rivedere i figli (in particolare quello tra i due affetto da una grave forma di diabete) senza il vetro divisorio – così come imposto dallo speciale regime carcerario per gli ultradodicenni [10] − di modo da poterli riabbracciare.

Il Tribunale per i minorenni, pur valutando come sincera la volontà del padre di non arrecare sofferenza emotiva ai bambini ma tuttavia considerando la gravità delle condanne definitive da questi subite, richiede al detenuto «un progressivo passo avanti nelle relazioni con i figli, auspicando che gli stessi fossero edotti – in funzione preventiva e di una corretta relazione educativa – dei crimini commessi dalla famiglia (ndr del genitore), dei motivi della carcerazione del padre e delle cause della morte del nonno paterno (…), oltre che della condizione carceraria degli altri familiari» [11].

Il giudice valuta tali informazioni «essenziali per costruire una relazione franca padre-figli e costruttiva per il benessere dei medesimi minori, con l’obiettivo – non utopistico – che gli stessi potessero ricevere proprio dal genitore ristretto indicazioni adeguate al loro sviluppo educativo, nel rispetto delle regole della convivenza civile» [12], disponendo altresì che il padre segua un preciso programma psico-pedagogico nel veicolare le informazioni sulla sua storia personale e familiare ai figli [13].

Il percorso compiuto dal padre, con l’ausilio dello psicologo e dell’educatore della struttura carceraria, risulta avere successo nella misura in cui l’uomo «ha avviato una riflessione autocritica della propria situazione e delle vicende della sua famiglia, auspicando che la terza generazione (…) (ovvero quella dei suoi figli) possa avere una vita più serena rimanendo estranea a vicende giudiziarie».

Il Tribunale per i minorenni prescrive così ulteriori misure nei confronti del detenuto il quale «dovrà rendere percepibile ai figli il cambio di prospettiva della sua vita e, quindi, far capire ai minori che adesso è un uomo diverso, che ammette gli sbagli fatti e non vuole che i suoi figli percorrano lo stesso itinerario di una esistenza che, come la sua e quella del padre (nonno paterno dei minori), potrebbe declinarsi lontana dagli affetti familiari» [14], a causa della carcerazione.

L’intento del giudice nel provare a instaurare tale processo di comunicazione padre/figli è chiaramente espresso laddove si evidenzia la necessità di «affrancare i figli da quelle insidie psicologiche, già ampiamente descritte in letteratura, che vedono i minori deprivati dalla figura paterna in contesti densi di mafiosità, esposti al rischio di disturbi ansioso-depressivi e di alterazione in senso ego-distonico della personalità».

Il provvedimento che si commenta si inquadra, come accennato, in un ricco e innovativo filone giurisprudenziale del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria che con riferimento ai figli minori di famiglie di ‘ndrangheta si è nel tempo concretizzato in provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale ex artt. 330-333 cc per una serie articolata di ipotesi: inidoneità genitoriale nell’espletamento della funzione educativa (nel duplice aspetto e della trasmissione di principi e valori in profondo contrasto con una società civile, democratica e pacifica; e nella mancanza di contenimento dei comportamenti devianti dei figli in età preadolescenziale e adolescenziale); esigenze di tutela del minore, figlio di testimone/collaboratore di giustizia o comunque di persona sottoposta a misure di protezione; prolungato periodo di latitanza/carcerazione del condannato per reati di mafia [15].

Ciò detto, il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha già nel 2017 disposto la decadenza della responsabilità genitoriale del detenuto in regime di 41-bis op e ciò in ragione di uno schema logico argomentativo ampiamente rodato: i minori in questione infatti oltre a subire un pregiudizio attuale derivante dalla privazione della figura paterna «− per le scellerate condotte del padre – di un fondamentale punto di riferimento per la loro crescita emotiva e per la costruzione di una personalità equilibrata» [16], e dalla trasmissione di un modello educativo disvaloriale mafioso [17], corrono il rischio concreto di soffrire un pregiudizio futuro.

L’esame prognostico, infatti, rivela un rischio elevato di esposizione dei minori, una volta divenuti adolescenti, a situazioni di devianza o di pregiudizio per la loro integrità emotiva, e ciò in forza della negativa reputazione della famiglia paterna nel quartiere, dei connessi rischi di emarginazione sociale e della suggestione di determinati modelli culturali [18], di cui il padre, noto esponente di ‘ndrangheta, è portatore idealizzato dai figli.

Un pregiudizio attuale dunque e uno futuro di una circuitazione nella criminalità organizzata, nelle sue logiche e azioni, nonché di un patimento di una sofferenza derivante «da disturbi ansioso-depressivi e di alterazione in senso ego-distonico della personalità», comuni in quei minori «deprivati dalla figura paterna in contesti densi di mafiosità» [19].

Da qui i provvedimenti decadenziali ex art. 330 cc nei confronti del padre, che si inquadrano in una solida cornice normativa, già oggetto di numerosi commenti ai quali si rinvia per maggiore approfondimento [20], e che ne garantisce la piena legittimità e coerenza con le norme costituzionali (artt. 2; 30; 31, comma 2; 32 Cost.), e internazionali (Cedu, art. 8; Convenzione sui diritti del fanciullo, artt. 3, comma 1; 9 e 29 [21][22] in un delicato bilanciamento − da trovare caso per caso – tra diritto del minore alla preservazione delle relazioni familiari e il diritto dello stesso alla salute [23] nonché a ricevere una educazione nel «rispetto dei principi costituzionali e dei valori fondamentali della civile convivenza» [24].

Quanto sopra brevemente riassunto è importante per comprendere appieno la direzione evolutiva e innovativa intrapresa dal provvedimento che ci occupa.

Innanzitutto, un cambio di prospettiva, o meglio un ampliamento di quella precedentemente adottata: il giudice minorile qui, non solo interviene con provvedimenti decadenziali della responsabilità genitoriale per proteggere il minore da un pregiudizio attuale e futuro derivante dalla condotta genitoriale, attivando in suo favore altresì una serie di supporti di tipo psicologico e pedagogico (anche grazie alla rete dell’associazione antimafia Libera e al protocollo Liberi di scegliere), ma coinvolge personalmente il detenuto, padre ormai dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale, nel tentativo di contenere gli effetti di tale pregiudizio.

Ecco allora che l’approfondimento autocritico e di consapevolizzazione degli errori fatti, richiesto al padre con l’assistenza di psicologi ed educatori del carcere, pare porsi nell’intento del giudice minorile come uno strumento ulteriore e rafforzativo rispetto a quelli ordinari e già adottati a tutela dei minori in questione.

Uno strumento endogeno potremmo dire, in quanto scaturente dalla stessa relazione generativa e sensibilissima tra genitore e figli, che dovrebbe portare il primo a condividere e a raccontare ai minori:

«1. la complessità della sua storia individuale e familiare (…);

2. il peso personale che alcune scelte di vita comportano in termini di privazione della libertà personale e limitazione degli affetti;

3. i motivi che hanno condotto allo stato di carcerazione, con riflessione volta alla “smitizzazione” dei modelli di vita fondati sui concetti travisati di potere, onore e rispettabilità» [25].

Tale processo di comunicazione, «lungi dall’essere intes(o) come un’ulteriore punizione nei confronti di chi si trova in una evidente condizione di prostrazione emotiva per la carcerazione e per la conseguenziale privazione degli affetti» [26], vuole essere funzionale − come detto − a salvaguardare i minori dai rischi concreti di una assai probabile emulazione della figura paterna e degli stilemi comportamentali di un certo ambiente criminale.

Ma vi è di più. Come evidenziato dal giudice per i minorenni, tale processo può rappresentare un tentativo «di scardinare l’intero nucleo familiare dalla logica criminale elaborando strategie di trattamento finalizzate ad offrire, anche agli adulti, l’opportunità di scegliere. In questo campo deve essere coltivata la possibilità di dare un senso al tempo scandito dalla pena valorizzando percorsi trattamentali che possano consentire, anche al detenuto apparentemente irriducibile, l’opportunità di riflettere sulla propria vita e su quella degli stretti congiunti» [27].

Ecco allora che, nell’auspicio dell’estensore del provvedimento, un’azione richiesta al genitore in regime carcerario, tesa innanzitutto a salvaguardare la salute psico-fisica del minore e affrancarlo dai rischi di devianza, può assumere una valenza rilevante anche sotto il profilo della rieducazione del detenuto, e quindi – ne deduco – anche ai fini del giudizio prognostico discrezionale del giudice di sorveglianza ai fini della mitigazione del trattamento carcerario duro.

Seppur al di fuori delle competenze del giudice per i minorenni, tale punto di vista appare estremamente interessante, inquadrandosi nel pieno rispetto dell’art. 27 Cost., nonché delle indicazioni di riforma che emergono dai lavori degli Stati generali della esecuzione penale che a più riprese evidenziano l’importanza del mantenimento dei legami affettivi in quanto «leva potentissima per i percorsi di rieducazione e di cambiamento» [28].

Ovviamente la definizione delle modalità concrete del regime carcerario a cui è sottoposto il detenuto si pone in uno snodo delicatissimo – che non è qui possibile affrontare – tra tutela del superiore interesse del minore a mantenere una relazione col genitore, il diritto all’affettività della persona reclusa («che trascende l’interesse privato, assurgendo a connotazione imprescindibile di una società democratica ed assurge, pertanto, al rango di interesse pubblico») e la «difesa della salus reipublicae che rappresenta il bene supremo all’autoconservazione cui rivolto l’ordinamento» [29], messo in pericolo dal fenomeno mafioso [30].

Il mutamento di prospettiva adottato dalla giurisprudenza minorile non è tuttavia privo di insidie.

a) Se si osserva, infatti, l’obiettivo generale perseguito dai predetti colloqui genitore/figli, ovvero il benessere psicofisico di questi ultimi, la letteratura più recente nel campo della psicologia dello sviluppo [31] supera l’idea che lo sviluppo sia un processo lineare ed automatico, regolato da leggi universali e quindi assolutamente prevedibile: al contrario, essa propone una prospettiva olistica che prende in considerazione tutti i contesti (famiglia, scuola, lavoro, amicizie, svago…) e le diverse dimensioni che in modo correlato incidono sulle traiettorie evolutive.

Ciò vale a dire che le auspicate ricadute positive sui minori discendenti dal processo di comunicazione padre/figli nei termini sopra descritti non è detto che si verifichino, non discendendo in automatico e in modo additivo un benessere per i bambini dal solo fatto del colloquio rivelatore con il padre. Esso di certo rappresenta un evento importante, ma non può che essere solo il primo passo di un lungo e laborioso processo che deve essere accuratamente monitorato e governato − in una prospettiva diacronica di medio-lungo periodo − tenendo conto della rete di relazioni e contesti nella quale i ragazzi sono inseriti e che possono grandemente condizionare il corso del loro sviluppo.

Di ciò, a dire il vero, appare per alcuni aspetti consapevole lo stesso giudice del provvedimento in esame nel momento in cui indica la necessità di uno spazio in cui i minori possano decantare quanto appreso dal padre e esprimere le emozioni e i loro vissuti rispetto al confronto con la figura paterna: «I due bambini dovranno essere aiutati nel processo di smitizzazione della figura paterna e dovranno essere sostenuti nel difficile compito di conservare il padre, nella valenza affettiva, dopo avere conosciuto l’uomo.Dopo questo primo passo, i due minori (…) dovranno cominciare a rileggere la propria storia familiare e il peso sociale e personale che il loro cognome comporta. Tale processo, non scevro da passaggi di sofferenza ed ambiguità, necessita di un setting di ascolto e sostegno psicologico, in cui possa essere data voce ai dubbi e alle domande in una revisione di tale portata. I minori si trovano in una fase di sviluppo molto delicata dal punto di vista etico, per cui intervenire in questo momento si rivela cruciale nel permettere una conoscenza realistica della loro storia, premessa necessaria per poter promuovere l’adesione reale e non solo formale ad altro modello di vita e di legalità» [32].

b) Prescindendo invece dal caso di specie e rivolgendo lo sguardo alle potenziali insidie future di tale ampliamento di prospettive del giudice minorile, quello che a me appare un rischio concreto consiste in una surrettizia sostituzione di una ratio giuridica esclusivamente fondata sulla tutela del benessere del minore (e che trova nel perseguimento del superiore interesse di questi la chiave di volta della piena legittimità di qualsiasi provvedimento che lo riguarda), con una logica per così dire permeabile a considerazioni di sicurezza e ordine pubblico.

Una logica che possa in altri termini innescare – in modo più o meno consapevole − una sorta di meccanismo di “scambio”, intollerabile dal punto di vista giuridico e umano, in cui la flessibilità relativa ad una certa modalità di attuazione di un certo regime carcerario nella relazione genitori detenuti/figli minori venga subordinata a concreti segni di resipiscenza aventi contenuti di rilevanza giudiziaria [33].

In altre parole, l’attenzione mi sembra vada tenuta alta sul rischio (concreto) che il preteso e declamato obiettivo del perseguimento del benessere del minore venga utilizzato come grimaldello per ottenere collaborazioni giudiziarie dal detenuto che altrimenti non si riuscirebbe ad avere.

 


[1] Mi sia consentito il rinvio a S. Casabona, Pedagogia dell’odio e funzione educativa dei genitori – Uno studio di diritto comparato su mafia e radicalizzazione jihadista, Milano, 2016.

[2] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017.

[3] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 5.

[4] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 6.

[5] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 6.

[6] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 6.

[7] Siglato il 1° luglio 2017 tra Ministero della giustizia, Ministero dell’interno, Regione Calabria e Uffici giudiziari minorili calabresi.

[8] Accordo quadro, cit., art. 1.

[9] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 8.

[10] Art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), Ord. Pen.; Circolare n. 3592/6042, 9 ottobre 2003. Sui colloqui visivi dei tenuti sottoposti al regime speciale dell’art. 41-bis Ord Pen., cfr. per tutti F. Picozzi, I colloqui dei detenuti “41-bis” con i figli e i nipoti di anni dodici, in Rassegna Penitenziaria e criminologica, 2015, n. 2, pp. 159-177.

[11] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 10.

[12] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 10, sottolineato nel testo del provvedimento.

[13] Utilizzando come direttrice su cui progettare la relazione tra il padre e i figli la riflessione dello stesso detenuto relativa alla sua condizione di sofferenza in cui egli versava da bambino: «Quando io ero bambino ho vissuto una situazione analoga e ricordo perfettamente l’angoscia provata nell’attendere il rientro di mio padre…» (cfr. nella relazione col genitore Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 10).

[14] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 11 settembre 2018, p. 10.

[15] S. Casabona, Decadenza dalla responsabilità genitoriale del latitante di mafia, in questa Rivista on-linehttp://questionegiustizia.it/articolo/decadenza-dalla-responsabilita-genitoriale-nei-confronti-del-latitante-di-mafia_11-10-2016.php, 11 ottobre 2016.

[16] Pregiudizio attuale: Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 11.

[17] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, pp. 16-17: «Il modello educativo mafioso (esplicito o implicito, ovvero quando sia carente delle prescrizioni necessarie a contrastare la negatività del contesto familiare/criminale di riferimento) è pertanto censurabile». Ibidem, p. 15: «Allorquando questo impegno educativo dei genitori manchi, ancor più per scelte valoriali opposte, lo Stato (…) ha l’obbligo di intervenire prendendosi carico delle sorti sociali ed esistenziali di questi minori, al fine di preservarli dalle conseguenze riconnesse al mancato rispetto dei valori condivisi».

[18] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 11.

[19] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 11 settembre 2018, p. 10.

[20] S. Casabona, Pedagogia dell’odio e funzione educativa dei genitori, cit.; S. Casabona, Limiti alla funzione educativa dei genitori tra strumenti di controllo giudiziari e automatismi legislativi, in Minorigiustizia, 3/2016, pp. 56-62; G. Casaburi, nota a decr. Trib. Min. Reggio Calabria 17 maggio 2016, in Foro It., 2016, n. 11, parte IV, pp. 3653 ss.; G. Vannoni, L’interesse del minore ad un’educazione conforme ai valori fondativi della Costituzione, in Consulta online, 2017, fasc. 2, pp. 34 ss.

[21] A dire il vero, il riferimento normativo all’art. 29 della Convenzione di New York dei diritti del fanciullo non pare appropriato nella misura in cui tale disposizione pare riferirsi esclusivamente alla istruzione scolastica e non anche all’educazione familiare, per maggiori dettagli cfr. S. Casabona, Pedagogia dell’odio e funzione educativa dei genitori, cit. pp. 42-43.

[22] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, pp. 13-14.

[23] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 16.

[24] S. Casabona, Pedagogia dell’odio e funzione educativa dei genitori, cit. pp. 53 ss.

[25] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 11 settembre 2018, p. 11. Ibidem: «Lo psicologo e l’educatore della struttura carceraria (…) dovranno aiutare (il detenuto): 1) ad incentivare la rivisitazione critica già in opera circa la sua storia familiare e il senso di responsabilità individuale; 2) a promuovere una visione critica e realistica di quanto avvenuto sia rispetto a sé che rispetto ad altre figure familiari, spogliandole di una visione mitica e idealizzata; 3) nella elaborazione della sofferenza; 4) a comprendere (…) i rischi che un mandato trigenerazionale di tipo malavitoso possa avere nell’educazione e nel percorso di crescita dei propri figli, trovandosi essi in una delicatissima fase di sviluppo in cui alcuni passaggi di vita possono essere compresi e abbracciati o compresi e rinnegati; 5) a comprendere che la rilettura della propria storia e, nel contempo, una nuova narrazione degli eventi di vita possono essere determinanti nell’impedire processi di fascinazione e aderenza a modelli malavitosi».

[26] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 10.

[27] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 31 ottobre 2017, p. 11.

[28] Cfr. in particolare Stati Generali della Esecuzione Penale, 2015-2016, tav. 6 – Mondo degli affetti e territorializzazione della pena.

[29] Ordinanza magistrato sorveglianza di Udine, 10 dicembre 2015 riportata in F. Picozzi, I colloqui dei detenuti “41-bis” con i figli e i nipoti di anni dodici, in Rassegna Penitenziaria e criminologica, 2015, n. 2, pp. 159-177, p- 167.

[30] Cfr. D. M. Schirò, L’interesse del minorenne ad un rapporto quanto più possibile “normale” con il genitore: Alcune considerazioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale n. 174/2018, in Diritto Penale Contemporaneo, 2018, n. 11, pp. 105-124; C. Brunetti, Il diritto all’affettività per le persone recluse, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 2008, n. 3, p. 107-128; L. Galletti, A. Pedrinazzi, Il mantenimento della relazione tra genitori detenuti e figli: esperienze negli USA, in Europa e in Italia, in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, 2004, n. 2, p. 77-101.

[31] Cfr. ex multis Toni C. Antonucci, Noah J. Webster, Rethinking Cells to Society, in Research in human development, 2014, vol. 11, fasc. 4, pp. 309-322; Richard M. Lerner, Developmental Science: Past, Present and Future, in International Journal of Developmental Science, 2012, fasc. 6, pp. 29-36.

[32] Decreto Trib. Min. Reggio Calabria, 11 settembre 2018, p. 12.

[33] A tal riguardo, significativamente, seppur sotto profilo in parte differente, si legge nella Carta dei diritti dei figli detenuti, Protocollo d’intesa tra Ministero della giustizia, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e Bambinisenzasbarre Onlus, 21 marzo 2014, art. 3.1: «Le Parti si impegnano altresì: 1. a non considerare i contatti aggiuntivi con i figli di minore età come “premi” assegnati in base al comportamento del detenuto».

*  Professore associato di diritto privato comparato, Università di Palermo

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