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Legittima difesa: un punto di vista morale

Simone Morandini* il . Giustizia

legittima difesaIl rispetto della persona e della sua dignità è irriducibile al valore commerciale di altri beni: in questo contesto si colloca la dottrina cattolica della legittima difesa, che esprime una cultura del limite. La sicurezza è un bene comune la cui tutela è affidata in primo luogo alle istituzioni pubbliche e si costruisce soprattutto decostruendo una percezione dell’alterità dominata dalla paura.

Relazione tenuta al convegno organizzato a Venezia il 5 ottobre 2018 da Magistratura democratica, Associazione nazionale giuristi democratici e Ordine dei giornalisti del Veneto: Dalla legittima difesa all’offesa legittimata? Ragioni a confronto sulle proposte di modifica all’art. 52 cp

Desidero in primo luogo ringraziare gli organizzatori per l’invito a riflettere su una questione giuridica e civile, ma anche di grande spessore morale.

1. Qualificare un punto di vista

La prima cosa che mi sento chiamato a fare è dunque qualificare il punto di vista di questo intervento, che è, per l’appunto, quello morale (o etico) [1]. Non mi misurerò quindi direttamente con le diverse proposte di legge presentate (dell’ultimo testo sintetico ho visto solo qualche nota stampa): non ne avrei la competenza ed altri lo faranno assai meglio di me. Privilegerò invece l’indicazione di alcuni principi di riferimento etici per orientarsi in quest’ambito. Certo, nel far questo lascerò anche sullo sfondo – limitandomi appena ad accennarli in questa introduzione – diversi altri nodi problematici, di spessore tutt’altro che trascurabile, ma impossibili da tematizzare adeguatamente nella brevità di questo intervento.

Mi riferisco, da un lato alla fondamentale questione del rapporto diritto-morale: dopo il sileant theologi in munere alieno della modernità, esso si è sempre più caratterizzato nel segno della reciproca autonomia; mai però – salvo in alcuni interpreti – della reciproca ignoranza. Lo testimoniano ad esempio i riferimenti morali presenti sempre più frequentemente nelle diverse Costituzioni nazionali, veri e propri cardini dei diversi ordinamenti giuridici.

Penso, dall’altro, alla questione della pluralità di sistemi di riferimento morali: l’etica non è solo quella cattolica; vi sono etiche che si dichiarano laiche, elaborate e significative, ma soprattutto emerge sempre più – con tutta la sua forza (e problematicità) – in questo tempo di globalizzazione la questione della pluralità delle etiche religiose. Diversi qui i profili concettuali e gli approcci, così come i punti di vista su questioni specifiche (e la convivenza presenta talvolta problemi non facili); non mancano, però, d’altra parte, neppure, istanze convergenti, ben esemplificate dalla presenza della regola d’Oro in una varietà di codici morali. Il Master in dialogo interreligioso promosso dall’Istituto di studi ecumenici “San Bernardino” in Venezia [2], di cui ho l’onore di essere vicepreside, offre elementi importanti per pensare tale realtà.

Due elementi di complessità, dunque, quelli appena richiamati, che cercherò di tenere presenti nel proporre questo intervento, che viene comunque pur sempre da una posizione particolare: quella del teologo morale cattolico.

2. Rispetto per la persona umana

Il quadro di riferimento per la considerazione morale del tema della legittima difesa da parte della riflessione cattolica è offerto dalla nozione di rispetto della persona umana, che ha trovato un’espressione significativa, ad esempio, nella Costituzione conciliare Gaudium et Spes – uno dei testi più importanti del Concilio Vaticano II [3]. Al n. 27a, essa invita a «considerare il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro sé stesso, tenendo conto della sua vita e dei mezzi necessari per viverla degnamente».

In questa percezione del valore dell’alterità come altro te stesso” si radicano le indicazioni specifiche, a partire da quel “non uccidere” che incontriamo già nella Bibbia, come quinta voce del decalogo. In realtà il verbo ebraico presente nel versetto di Esodo 20, 13 – dicono gli esperti – andrebbe tradotto più correttamente come “non assassinare”, ma lo spostamento delinea in modo anche più nitido un’istanza morale di primaria importanza. Aldilà della differenza di fondazione che può esservi tra la/e prospettiva/e teologica/e e quella/e filosofica/e, è chiara qui la percezione di una dignità umana, irriducibile al valore commerciale che possono avere altri beni e come tale meritevole di rispetto assolutamente prevalente. Abbiamo qui un assioma fondamentale dell’etica cattolica, che trova peraltro riscontro anche in una grande varietà di codici morali (si pensi alla presenza pervasiva della Regola d’Oro anche in sistemi culturalmente distanti) e giuridici. Sulla dignità umana la riflessione cattolica fonda anche l’attenzione per i diritti umani [4] – diritti cioè che competono ad ogni essere umano, a prescindere dal suo sesso, dalla sua etnia (e intenzionalmente non uso il termine razza, che ritengo semplicemente privo di significato), dalla sua appartenenza religiosa o culturale, dalla sua provenienza geografica, dalla sua cittadinanza politica. Competono ad ogni umano, anche aldilà del suo status morale; è ben nota la valenza simbolica assunta in tal senso dalla figura di Caino nel racconto genesiaco: condannato certo per il suo proto-omicidio, egli è comunque protetto da Dio stesso nei confronti della violenza che contro di lui potrebbe scatenarsi (Genesi 4, 13-15).

Da tale chiara posizione fondamentale discende poi – con un approccio tendenzialmente deduttivo − la posizione cattolica su questioni specifiche. Essa non si esprime, però, – come accade, ad esempio, in alcune chiese protestanti, come quella mennonita – in una non-violenza assoluta. In questo, come in altri ambiti, il cattolicesimo preferisce sottolineare che ogni indicazione morale, per essere applicata alla complessità delle situazioni concrete, esige processi di discernimento. Tali dinamiche dell’applicazione – va sottolineato − si sviluppano talvolta su tempi lunghi (anche troppo) prima di raggiungere risultati definitivi. Basti pensare alla condanna della pena di morte, già auspicata da numerosi autori da decenni [5], ma espressa in forma chiara e definitiva − dopo un lungo processo di elaborazione − nel Catechismo della Chiesa cattolica (CCC) solo in quest’estate 2018, con la revisione del n. 2267 operata su impulso di papa Francesco con un testo della Congregazione della dottrina della fede dello scorso 2 agosto [6]. Esso si presenta tra l’altro come «una spinta a un deciso impegno, anche attraverso un rispettoso dialogo con le autorità politiche, affinché sia favorita una mentalità che riconosca la dignità di ogni vita umana».

È stata, dunque, un’occasione per esplicitare e rafforzare quell’orientamento al favor vitae ed alla non-violenza, che orienta ad un “sospetto morale” nei confronti di ogni forma di uso delle armi. Si tratta, infatti, pur sempre di strumenti orientati a danneggiare la vita e di fronte al loro uso − potenzialmente letale − c’è come una sorta di “orrore metafisico” dell’etica. Certo la teologia morale riconosce casi in cui esso è necessario e persino inevitabile (si pensi al poliziotto che spara al mafioso in procinto di assassinare un innocente), ma anche per essi si pone l’esigenza di un discernimento e di una legittimazione. I risultati sono assai stringenti: l’uso della forza è di norma riservato all’autorità, nel quadro del suo compito di mantenere l’ordine pubblico per tutelare la vita dei cittadini.

3. Legittima difesa

In questo contesto si colloca la dottrina cattolica della legittima difesa, che trova il suo fondamento proprio nella vita come valore primario: lo stesso soggetto morale chiamato a rispettare sempre e comunque la vita d’altri è lui pure un vivente. La sua stessa vita merita, quindi, di essere difesa contro le minacce, quando non vi siano autorità attualmente in grado di farlo. Per questo si dà una difesa legittima nei confronti di chi, aggredendo, compie un atto ingiusto, che mette a repentaglio la vita o altri beni ad essa immediatamente necessari. Il danno eventualmente arrecato ad altri in tali comportamenti si configura come effetto non direttamente inteso di un comportamento mirante in primo luogo a tutelare l’esistenza di chi lo pone in essere o di coloro che sono affidati alla sua cura (CCC 2263-2267, che richiama Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q.64 a.7, c); di un comportamento posto in essere in stato di necessità. La tradizione morale sottolinea, però la presenza di tre criteri cui essa deve sottostare, non dissimili da quelli presenti nella maggioranza degli ordinamenti giuridici occidentali. Si dirà, dunque, di legittima difesa un atto posto in essere quando vi sia:

– Ingiusta aggressione in atto

  • Non basta, dunque, il solo pericolo di aggressione: la legittima difesa non è preventiva, anche se spesso non sarà facile fissare il momento esatto in cui inizia un’aggressione;
  • Neppure possono rientrare dal punto di vista morale nella legittima difesa gesti come lo sparare ex post a chi, scoperto, fugge; la vendetta o la rappresaglia non sono legittima difesa.

Da notare invece che l’ingiusta aggressione può anche essere indirizzata contro terzi; opera qui nel giustificare la difesa un principio di solidarietà e responsabilità e qui rientra pienamente il caso il caso del poliziotto di cui dicevo sopra:

– Impossibilità di arrestarla con mezzi meno gravi

  • Non si spara ad un aggressore se basta interporre un ostacolo (ad esempio, bloccare una porta blindata) o se e sufficiente esibire un’arma per intimorirlo;
  • Non si spara per uccidere se può bastare una ferita per mettere un aggressore in condizioni di non nuocere;

– Proporzionalità tra il bene difeso e il danno arrecato

  • La difesa può essere legittima se ha ragionevoli probabilità di difendere il bene che intende proteggere.
  • Non si spara a chi ruba un pollo per mangiare, a meno che egli non stia anche tentando di uccidere o danneggiare gravemente o nell’eventualità che il pollo in questione sia l’ultima speranza rimasta di salvare sé e/o i propri figli dalla morte per fame.
  • Non è neppure sempre moralmente lecito sparare ad un ladro di gioielli o di denaro, a meno che la sottrazione di tali beni danneggi gravemente la vita propria o di altri o i suoi atti mettano a rischio l’incolumità di qualcuno.

Si tratta di una dottrina consolidata ed insegnata nei manuali di morale cattolica (es. Chiavacci, Gatti) [7] e mi pare si commenti da sola. Essa esprime una cultura del limite, fissando condizioni rigorose perché un atto possa essere detto legittima difesa; in tale prospettiva, infatti, anche l’aggressore − il “manigoldo”, se volessimo usare il linguaggio di Manzini citato da Siciliano − resta un essere umano, il cui diritto alla vita può essere violato solo in situazioni ben determinate, nelle quali siano in gioco altri diritti almeno altrettanto fondamentali.

Può anche essere interessante notare che nella teologia morale cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II, tale nozione di legittima difesa diviene il punto di riferimento anche per valutare l'(eventuale) moralità di azioni belliche, superando così la vetusta dottrina della guerra giusta. Per la già citata Costituzione conciliare Gaudium et Spes al n. 79 un’azione militare può essere legittima solo se sottostà ai tre stringenti criteri che consentono di qualificarla come legittima difesa. Seguire le implicazioni concettuali di tale spostamento eccede, però, lo scopo di questo testo. La nozione di legittima difesa appena accennata consente invece di segnalare in questa sede almeno due importanti distinzioni concettuali:

  • non è vero che ogni difesa, in quanto tale, sia moralmente legittima;
  • non è neppure vero che ogni uso delle armi da parte di chi vede attaccati i propri beni si configuri come difesa – tantomeno quindi come una moralmente legittima difesa.

A tale considerazione di fondo va aggiunto peraltro che i criteri indicati valutano la moralità di un’azione dal punto di vista oggettivo e in generale e questo è evidentemente un limite: la morale sa bene che la propria capacità di cogliere una situazione si riduce via via che si entra in particularibus. È vero, ad esempio, che un completo discernimento morale quanto ad eventuali azioni compiute da soggetti specifici in situazioni concrete dovrà sempre tenere conto anche della loro soggettività, delle emozioni, della difficoltà di celeri valutazioni analitiche in situazione. Tali importanti elementi di complessità non possono, però, da parte loro alterare il rigore dell’oggettività dei criteri da tenere come riferimento.

Aggiungerei poi che − aldilà della puntuale valutazione secondo i criteri di un’etica del rispetto della vita sostanzialmente fondata sul diritto naturale − un punto di vista morale non dovrà smettere di ricordare che il diritto di legittima difesa non è un dovere; che vi possono essere casi e situazioni in cui si produce un bene maggiore astenendosi dall’avvalersene. In questo, anzi, dovrebbe qualificarsi moralmente un discorso che intenda proporsi come propriamente cristiano − espresso cioè a partire dalla fede in colui che per amore si è lasciato persino crocifiggere.

4. Allargare l’analisi

Il mio intervento potrebbe fermarsi qui, ma desidero aggiungere solo qualche nota per allargare l’analisi. Farlo non significa spostare l’attenzione da un tema altamente specifico e ben focalizzato a considerazioni generiche, ma includere nell’analisi morale − accanto allo specifico atto considerato nella sua singolarità − anche l’impatto sociale della normazione giuridica ad esso relativa. È impossibile non notare, infatti, che la volontà (espressa in questi ultimi mesi anche da parecchi soggetti del dibattito politico italiano) di ampliare la legittimità dell’uso delle armi in nome della difesa (aldilà dei sospetti, questi sì legittimi in alcuni casi, di voler favorire e promuovere gli interessi dell’industria delle armi) è anche l’espressione di un orizzonte culturale che:

  • privilegia decisamente i diritti individuali (o quelli di gruppi specifici) ed una visione conflittuale della convivenza − secondo la prospettiva definita atomistica dall’intervento di Siciliano − rispetto alla costruzione di una civis più abitabile ed ai beni comuni;
  • vede la vita come semplicemente una proprietà, in qualche modo paragonabile ad altre, e non come quel bene primario che costituisce l’essere di un soggetto dotato di dignità incomparabile.

È tale orizzonte concettuale − che assume un’interpretazione fuorviante della modernità, svilendone le intuizioni migliori − che va sfidato, costruendo un diverso punto di vista, morale e giuridico.

Tra l’altro ad un orizzonte siffatto non può che sfuggire il fatto che la sicurezza è un bene comune e non un fatto puramente individuale, ma è una realtà la cui tutela è affidata in primo luogo da parte delle istituzioni pubbliche. Come diceva quest’estate Enrico Rossi, presidente della Regione Toscana, dopo la rapina subita dal padre novantenne: «Meno armi ci sono in circolazione (e meno se ne favorisce l’uso), meglio è per la vita e la sicurezza di tutti». Lo evidenzia per converso il caso dell’uomo che − sentendo muoversi qualcuno nella casa buia − ha colpito la moglie credendo di difendersi da un ladro.

Sono episodi che evidenziano l’esigenza di potenziare le istituzioni orientate ad una reale sicurezza e i mezzi ad esse disponibili; è anche un modo di depotenziare le pulsioni che orientano ad un modello Far West di giustizia fai da te e di individualismo antiistituzionale. Chi coltiva invece soltanto una cripto-legittimazione della legge del taglione (e talvolta anzi di una violenza che va persino aldilà di essa) non potrà che raccogliere un’escalation di violenza, sempre più diffusa e pervasiva.

Ma forse occorre pure aggiungere – e con questo concludo − che in una prospettiva più ampia la sicurezza si costruisce soprattutto decostruendo una percezione dell’alterità dominata dalla paura, che la vede come realtà sempre e comunque minacciosa, per favorire piuttosto la crescita di società conviviali, che coltivino l’ospitalità come virtù civile. La Fondazione Lanza (Centro Studi in Etica) [8], con cui collaboro da quasi vent’anni costituisce un riferimento importante in tal senso: l’idea di un’etica civile, da far crescere soprattutto quando essa appare più minacciata, costituisce il leit motiv della riflessione che si è cercato di elaborare negli ultimi anni [9].

 


[1] Considero i due aggettivi sostanzialmente intercambiabili, anche se sono state proposte numerosissime differenziazioni tra i due, ma esse sono a loro volta estremamente differenziate tra loro.

[4] Mi permetto di rimandare a S. Morandini (a cura), Tra etica e politica: pensare i diritti, Gregoriana, Padova 2005.

[5] In tal senso, ad esempio, già S. Spinsanti, Problemi di etica della vita fisica, in T. Goffi, G. Piana (a cura di), Diakonia. Etica della persona, Queriniana, Brescia 1983, pp. 198-266, specificamente pp. 254-256.

[6] Per la lettera ai vescovi della Congregazione: http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20180801_lettera-vescovi-penadimorte_it.html

Il nuovo testo del n. 2267: «Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini, ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi. Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”, [1] e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo», http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20180801_catechismo-penadimorte_it.html

[7] E. Chiavacci, Morale della vita fisica, EDB, Bologna 1971; G. Gatti, Morale della vita sociale e della vita fisica, EDB 1990.

*prof. vicepreside Istituto di Studi Ecumenici San Bernardino di Venezia
Fondazione Lanza (Centro studi in etica)

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