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Via D’Amelio, il depistaggio del Sisde e lo sfogo di Fiammetta Borsellino

Lorenzo Frigerio il . Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica, Società

fiammetta-borsellino-claudio-fava«La stessa mano non mafiosa che accompagnò Cosa Nostra nell’organizzazione della strage potrebbe essersi mossa, subito dopo, per determinare il depistaggio ed allontanare le indagini dall’accertamento della verità»: è questa in sintesi la conclusione più rilevante che si evince dalla relazione della Commissione antimafia della Regione Sicilia sulla strage di via D’Amelio, resa pubblica lo scorso 19 dicembre.

Forse per la concomitanza del dibattito sulla manovra economica, sicuramente complice anche l’avvicinarsi delle feste natalizie, quest’importante documento non ha sortito l’indignata reazione di una pubblica opinione distratta nei confronti delle verità in essa acclarata. Eppure il meticoloso lavoro dei parlamentari siciliani, guidati egregiamente dal presidente Claudio Fava, avrebbe meritato un riscontro migliore.

Il punto di partenza della Commissione è stata l’affermazione contenuta nelle motivazioni della sentenza conclusiva del cosiddetto Borsellino quater emessa dalla Corte di Assise di Caltanissetta: «Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana, che ha condotto alla condanna e alla pena detentiva perpetua di Profeta Salvatore, Scotto Gaetano, Vernengo Cosimo, Gambino Natale, La Mattina Giuseppe, Murana Gaetano ed Urso Giuseppe, per il loro ritenuto concorso nella strage di via D’Amelio».

Il più grave depistaggio della storia d’Italia

La ricostruzione del grave depistaggio ha avuto il punto d’avvio nelle tredici domande di Fiammetta Borsellino poste in occasione dell’anniversario della strage di Via D’Amelio, solo pochi mesi fa.

A finire sotto i riflettori della Commissione sono state le modalità di conduzione delle indagini, a partire dalle ceneri e dai rottami di via D’Amelio, ma anche i rapporti tra inquirenti e forze dell’ordine, compreso il gruppo di investigazione “Falcone-Borsellino”, comandato dal “superpoliziotto” Arnaldo La Barbera.

E ancora la gestione dei collaboratori di giustizia, in primis quel Vincenzo Scarantino, che è stato acclarato essere stato offerto in pasto alla magistratura prima, al Paese poi, come l’uomo in grado di dissipare dubbi e misteri dell’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta. Da ultimo, i commissari si sono soffermati anche su alcune anomalie, tanto di procedure, quanto di documenti, che i primi due dibattimenti dedicati all’uccisione del magistrato palermitano hanno registrato.

Anomalie legate al venir meno della credibilità di alcuni collaboratori e che poi sfoceranno, il 13 luglio del 2017, nella decisione della Corte d’Assise d’Appello di Catania di accogliere la richiesta di revisione avanzata dalle difese, scagionando quanti erano stati condannati sulla base delle dichiarazioni dei “pentiti”, dimostratisi assolutamente inattendibili. Un effetto domino scatenato dalle dichiarazioni rilasciate da Gaspare Spatuzza, addivenuto alla scelta di collaborare non nell’immediatezza dei fatti di sangue, ma solo successivamente e però capace di far crollare il castello accusatorio fin lì elaborato.

L’avvenuta sconfessione di Scarantino ha innescato a sua volta il rinvio a giudizio lo scorso 28 settembre 2018 di tre uomini del gruppo “Falcone-Borsellino”, accusati di calunnia aggravata dal favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra: si tratta del dirigente della Polizia di Stato Mario Bo, dell’agente Michele Ribaudo e dell’ex ispettore Fabrizio Mattei.

Le espressioni utilizzate nella relazione sono state davvero pesanti e sono servite ad acclarare un’attività di depistaggio, partita addirittura prima dell’attentato stesso: reticenza dei testimoni, presenze ingiustificate sul luogo della strage, incomprensibili omissioni, ingiustificati ritardi nelle indagini.

La commissione, presieduta da Fava, non intendendo in alcun modo sostituirsi alla magistratura di Caltanissetta che dovrà valutare eventuali responsabilità sul piano penale, ha piuttosto voluto approfondire gli elementi di cui si è stati finora messi a conoscenza, per giungere a denunciare responsabilità esterne alla mafia, tanto nell’organizzazione e nella realizzazione della strage, quanto nel successivo depistaggio.

Depistaggio che prese le mosse ben prima che il magistrato saltasse per aria, con la sua scorta, in quella maledetta domenica di luglio. Un’azione coordinata che consentì di modificare non solo lo scenario dell’attentato, con il trafugamento dell’agenda rossa in primis, ma anche di sottrarre prove dalla casa di campagna e dall’ufficio di Borsellino a Palazzo di Giustizia.

In una delle audizioni effettuate davanti alla Commissione, il giudice Nico Gozzo, che si è occupato del procedimento denominato Borsellino quater, ha rimarcato una verità a lungo negata, almeno fino al 2005, quando fu aperta dai giudici nisseni un’inchiesta, conclusa poi in udienza preliminare con il proscioglimento dell’ufficiale dell’Arma Giovanni Arcangioli, visto allontanarsi dalla scena del crimine del 19 luglio 1992, tenendo proprio la borsa del giudice appena trucidato, che soltanto  in seguito ricomparirà all’interno dell’auto di Borsellino.

«La cosiddetta sparizione dell’agenda rossa, sul teatro della strage di via d’Amelio, non può averla compiuta la mafia. Questa è un’ovvietà che dicono tutti, ma è un’ovvietà vera. E, quindi è chiaro ed evidente che se questa cosa è successa, ed è successa, deve essere stata compiuta da qualcun altro»: questa la dichiarazione di Gozzo ai parlamentari siciliani.

Un’agenda importante in ragione dei contenuti, in termini di certezze e supposizioni, in essa riversate che, finendo nelle mani sbagliate, avrebbe tradito le conoscenze che Paolo Borsellino ebbe modo di accumulare nei cinquantasette giorni che separarono Capaci da via D’Amelio.

Cinquantasette lunghi giorni nei quali il procuratore aggiunto di Palermo non fu mai chiamato dai colleghi di Caltanissetta a deporre su quanto di sua conoscenza o di sua intelligenza rispetto alla morte di Giovanni Falcone, fraterno amico prima ancora che collega fidato.

La relazione ha cercato di approfondire i motivi della mancata convocazione, trovando bizzarra alquanto la motivazione addotta: sentire Borsellino sarebbe stato superfluo, data l’applicazione di un magistrato nisseno, Pietro Vaccara, presso la Procura di Palermo, che avrebbe svolto le funzioni di ufficiale di collegamento.

“Bisognava vestire il pupo”

Diversi testi ascoltati dalla Commissione non hanno poi mancato di sottolineare l’anomala presenza nel luogo della strage di diversi uomini appartenenti al Sisde, il cui ruolo in quel drammatico momento non è stato finora accertato in nessuna sede.

In assenza di una delega, inimmaginabile nell’immediatezza dei fatti e comunque praticabile solo interfacciandosi magistratura e servizi per il tramite della polizia giudiziaria, organo deputato allo svolgimento delle indagini, perché gli uomini del Sisde si trovarono in via D’Amelio?

Quella che è stata accertata dalla Commissione diretta da Fava è una “anomala collaborazione” tra procura di Caltanissetta e Sisde, con il coinvolgimento nelle indagini di Bruno Contrada, poi finito sotto processo e condannato per concorso esterno ad associazione mafiosa, infine riabilitato con la revoca della condanna da parte della Corte di Cassazione. Un coinvolgimento che fu voluto dal procuratore nisseno di allora, Giovanni Tinebra ma che era a conoscenza dei vertici della Polizia di Stato, a partire dal suo capo dell’epoca, il prefetto Vincenzo Parisi, e dei carabinieri.

Di fronte a quella che viene bollata nella relazione come “una forzatura investigativa, normativa e procedurale”, quali furono gli esiti di questo “ruolo improprio” giocato dal Sisde?

La commissione non ha dubbio sulle concrete finalità dei servizi segreti: il controllo dell’inchiesta fin dall’inizio e un condizionamento della stessa verso l’avvenuto depistaggio.

Il primo atto concreto fu la proposizione agli occhi della pubblica opinione di una carta apparentemente risolutiva: «Bisognava “vestire il pupo”. E il “pupo”, il futuro collaboratore di giustizia, era proprio Scarantino. Sul quale si concentra la prima informativa del SISDE, il primo fattivo contributo della struttura coordinata in Sicilia da Bruno Contrada al procuratore Tinebra e ai suoi sostituti».

Una falsa collaborazione che porterà l’inchiesta sulla strage lungo binari processuali destinati a farla deragliare, alla comparsa sulla scena di Spatuzza: un esito che, viste queste premesse, era assolutamente imponderabile.

Parlando di Contrada, la relazione registra l’irrituale attenzione alle sue sorti di detenuto che ebbero alcune alte cariche dello Stato, con un’attività di pressione formale e informale sulla magistratura di sorveglianza, svolta da Loris D’Ambrosio, consigliere del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e da Carlo Visconti, segretario del Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto da Nicola Mancino.

Analogamente a Contrada, finito poi nei guai, Arnaldo La Barbera ha rivestito un ruolo fondamentale nell’accompagnamento di Scarantino lungo l’iter dei diversi processi nel tempo.

Proprio una delle sue prime mosse ha fatto sorgere più di un dubbio sul depistaggio: la Commissione, infatti, si è chiesta come, già all’indomani della strage, La Barbera potesse disporre un sopralluogo nella carrozzeria di Giuseppe Orofino, alla ricerca delle tracce del passaggio della 126 che, soltanto il giorno dopo, si verrà a sapere essere stata il veicolo utilizzato per l’esplosivo letale.

Secondo la ricostruzione contenuta nella relazione, La Barbera, poi scoperto essere anche a libro paga dei servizi segreti, nei fatti, assicurò al Sisde la direzione delle indagini, nonostante la battuta d’arresto rappresentata dall’incriminazione di Contrada.

La costituzione del gruppo “Falcone-Borsellino” riposizionò La Barbera al centro della scena, con una serie di deleghe investigative ad personam e con l’affidamento ai suoi uomini del “pupo da vestire”, appunto lo Scarantino.

E qui l’elenco dei quesiti, contenuti nella relazione e mutuati per intero da quelli di Fiammetta Borsellino, è più che incalzante, mettendo in evidenza l’anomalia di ben dieci colloqui investigativi con Scarantino, successivi all’inizio della sua collaborazione e per ciò stesso non autorizzabili.

Anziché essere dato in consegna al servizio centrale di protezione, il picciotto della Guadagna finì sotto la tutela del gruppo diretto da La Barbera. Ebbe così inizio una storia accidentata, fatta di due ritrattazioni, tre confronti fallimentari con altri collaboratori (Cancemi, La Barbera e Di Matteo) e verbali annotati che venivano consegnati allo stesso Scarantino prima degli interrogatori, per prepararsi bene.

Nella relazione è stata anche evidenziata la grave e irrituale decisione rappresentata dal mancato deposito dei verbali dei tre confronti che Scarantino sostenne, perdendo su tutta la linea, con tre capi di Cosa nostra, passati successivamente alle stragi alla piena collaborazione con la giustizia. Le audizioni di alcuni magistrati, allora in servizio alla procura di Caltanissetta, non hanno dissipato i dubbi a tale riguardo, finendo per produrre un poco edificante rimpallo di responsabilità interne agli uffici.

Gli esiti del lavoro della Commissione di Fava non lasciano spazio ad equivoci ma si risolvono in una pesante censura dell’operato della magistratura nissena dell’epoca: «Se fin dal 1995 le parti avessero potuto disporre di verbali che mostravano palesemente la inattendibilità di Scarantino, la storia processuale su via D’Amelio sarebbe cambiata. E il depistaggio sarebbe stato sventato, indipendentemente dalla successiva collaborazione di Spatuzza».

Alla luce di tutto questo, ancora più grave appare quindi la mancata considerazione delle due note critiche sulla collaborazione di Scarantino che i magistrati Ilda Boccassini e Roberto Sajeva indirizzarono al capo della Procura cui erano applicati nell’ottobre del 1994 e che mettevano in discussione anche l’apporto del gruppo diretto da La Barbera.

In una di queste note tra l’altro si poteva leggere: “L’inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino Vincenzo in ordine alla partecipazione alla strage di via D’Amelio – prima affermata come certa e poi come possibile – di Cancemi, La Barbera e Di Matteo suggerisce di riconsiderare il tema della attendibilità generale di tale collaboratore…”.

Queste note allora non produssero alcun risultato, tutto andò avanti e siamo arrivati ad oggi, con la storia che è stata riscritta, nonostante i processi avessero inizialmente consegnato verità che non erano verità.

L’attacco di Fiammetta Borsellino

La Commissione nella sua relazione ha voluto evidenziare le omissioni e i falsi indizi, le anomalie, le forzature e le irritualità, tanto nella forma che nella sostanza che le indagini sull’uccisione di Borsellino hanno accumulato negli anni.

E lo ha fatto utilizzando un’espressione cara a Giovanni Falcone e che indica i soggetti concorrenti alla volontà della mafia e cioè le “menti raffinatissime”, espressione che fu impiegata dal giudice in occasione del fallito attentato all’Addaura del giugno 1989.

Secondo Fava e i suoi commissari, queste “menti raffinatissime” entrarono in gioco anche in via D’Amelio, orientando l’organizzazione della strage prima e il depistaggio poi.

Viene così certificato il ruolo del Sisde nella manomissione della scena del crimine, nell’immediatezza della tragedia e poi nelle indagini avviate dalla Procura di Caltanissetta in quella che si rivelerà una direzione errata. Sono censurati anche i magistrati di Caltanissetta dell’epoca – che nulla fecero per sanare questa irritualità, peraltro non consentita dalla legge – e il gruppo investigativo diretto da La Barbera che fabbricò e accompagnò la presunta collaborazione con la giustizia di Scarantino e di altri falsi pentiti.

Quindi l’indice è puntato non solo contro i tre poliziotti, oggi imputati a Caltanissetta, e il procuratore di allora Tinebra e il questore La Barbera, ma anche contro i “non pochi soggetti tra i ranghi della magistratura, delle forze di polizia e delle istituzioni nelle loro funzioni apicali” che offrirono “a garanzia del depistaggio” un “contributo di reticenza”, consapevolmente o meno poco importa.

Scarantino e altri furono gettati sul proscenio processuale per trovare facili capri espiatori ed escludere le vere responsabilità, oggi ancora da definire fino in fondo.

La conclusione è lapidaria ma foriera di ulteriori approfondimenti: «Resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato – nel comportamento di molti – il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità».

Prendendo il destro dalle ultime pagine del lavoro di Claudio Fava, la figlia del giudice, Fiammetta Borsellino, che partecipava alla presentazione del dossier, ha sottolineato come suo padre sia stato lasciato “solo, sia da vivo che da morto” e ha definito vergognosa la mancata partecipazione dei magistrati Di Matteo, Boccassini e Palma alle audizioni disposte dalla Commissione regionale.

Il giudice Nino Di Matteo, all’epoca giovane sostituto procuratore alla procura di Caltanissetta e oggi alla Procura nazionale antimafia, dopo gli anni passati a Palermo, ha subito replicato: “La mia vita è stata dedicata alla ricerca della verità. A vergognarsi devono essere altri”. E a supporto ha poi ricordato le sue diverse deposizioni sui medesimi temi presso la Commissione nazionale antimafia, il Consiglio Superiore della Magistratura e la Corte d’Assise di Caltanissetta, organismi deputati alla ricognizione investigativa e dotati di quei poteri e competenze che non sarebbero invece in capo all’organismo diretto da Fava.

Resta quindi da registrare l’amarezza per uno scontro di cui non si avvertiva il bisogno tra protagonisti del fronte antimafia, fino a poco tempo fa uniti tra loro, oltre che dal medesimo anelito di giustizia, da stima e affetto, come peraltro traspare anche da questa dichiarazione di Fiammetta Borsellino, riportata da Il Fatto Quotidiano e altri media.

“Ritengo – ha dichiarato la figlia del giudice – che la responsabilità sia di tutte le persone che nel quindicennio e nel ventennio successivo alla strage sfilavano nella nostra casa. Parlo anche dei magistrati della procura di Palermo che erano al corrente di ciò che avveniva, e a nessuno è venuto in mente di allertare la nostra famiglia rispetto ai pericoli, rispetto alla cosa più importante che ci riguardava, ovvero la verità sulla morte di mio padre”.

Parole dure, certamente per nulla in linea con lo spirito natalizio di questi giorni, ma parole che sono assolutamente comprensibili, se si pensa che provengono da una figlia che aspetta di sapere per quale motivo suo padre è stato ucciso e che ha già scoperto che, mentre lui correva contro il tempo per assicurare alla giustizia gli assassini di Falcone, altri rappresentanti dello Stato trattavano con i boss della mafia i futuri assetti del nostro Paese.

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