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E’ la dimensione internazionale la nuova frontiera dell’antimafia

Piero Innocenti il . Mafie

antimafiaPer fronteggiare la sfida di una criminalità sempre più indifferente alle frontiere occorrono, tra i vari Stati, il dialogo e l’intesa non essendo più sostenibile l’autarchia nelle scelte di politica criminale. Nei rapporti di assistenza tra gli Stati è il principio di affidamento e non quello di indifferenza e tanto meno di ostilità a dover prevalere.

Di qui la necessità di armonizzare la legge penale per ridurre i gap normativi tra i vari Paesi, con la previsione di standard sanzionatori conseguenti e di procedere ad un deciso miglioramento della cooperazione tra polizie, procuratori e giudici dei vari Stati che vuol dire anche superamento delle “gelosie” che ciascun Paese riserva sulla gestione del proprio sistema di giustizia penale. Temi complessi in un momento storico caratterizzato da spinte sovraniste e nazionaliste che si rilevano in diversi Stati europei ed extraeuropei.

“La vera nuova frontiera dell’antimafia” è la dimensione internazionale come sottolineava la Commissione parlamentare Antimafia nella sua relazione conclusiva del febbraio 2018. Deve, tuttavia, crescere, a tutti i “livelli”, la consapevolezza che la sola risposta repressiva – per quanto necessaria – non basta. Il che equivale a dire che non basta aggredire le manifestazioni del fenomeno criminale. E’ necessario aggredire anche le radici del fenomeno. Perché si può sperare di sconfiggerlo quando non ci si limita alle dichiarazioni di guerra ( e negli anni ne abbiamo sentite molte) ma si cerca anche di sradicare l’ingiustizia che può essere l’elemento scatenante.

Invece, oggi, la tendenza prevalente è nel senso di privilegiare i temi della sicurezza nella sua accezione di “ordine pubblico” (sia sul piano internazionale che interno dei singoli Stati) rispetto alla tutela e alla pratica dei diritti. Senza preoccupasi più di tanto del fatto che se il tema della sicurezza ( sicuramente importante) si fa esclusivo, i diritti diventano ostaggio della sicurezza. Con il rischio concreto di introdurre poteri così assoluti e stringenti da costituire un problema per le libertà, nel momento stesso in cui si avviano azioni che vengono prospettate come tutela delle libertà.

Risulta, allora, di straordinaria utilità costruire quell’impegno sociale e stimolare le varie forme di cittadinanza partecipata che sono indispensabili per recuperare una dimensione etica della convivenza. Per passare dalla rassegnata passività all’impegno, spinti da interessi collettivi. Occorre, insomma, ampliare la dimensione partecipativa e culturale della lotta alle mafie perché lottare contro le mafie non vuol dire solo reprimere ma “..anche bonificare, trasformare,costruire..” agendo sul livello politico “attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano ovunque disuguaglianze e povertà”( dall’intervento di Papa Francesco nell’udienza del 21 settembre 2017 ai componenti della Commissione parlamentare Antimafia).

E questo lo debbono comprendere bene tutti i Paesi dell’UE i quali scoprono l’esistenza delle mafie solo in occasione di azioni eclatanti. L’Italia, che pure nella lotta ala criminalità organizzata “è il Paese che più di ogni altro al mondo ha sviluppato metodologie di contrasto al fenomeno e che presenta nel settore una delle normative più efficaci..” (cfr. la relazione della Commissione parlamentare Antimafia del 17 giugno 2014), continua ad essere, paradossalmente, il “Paese più appetibile per i criminali”.

L’inquinamento criminale della nostra economia mentre il Fisco chiede di pagare le imposte agli spacciatori

Quando, magari tra qualche decennio, qualcuno studierà la storia della criminalità organizzata del nostro Paese, non potrà non restare sbalordito leggendo quello che è accaduto in questi primi anni del XXImo secolo. Non più soltanto un Paese “controllato” in diverse zone dalle mafie storiche, dalle nuove mafie e da gruppi criminali stranieri, ma quello in cui la criminalità è diventata silenziosa, si è mimetizzata in vari ambienti politici, amministrativi, istituzionali, diventando “impresa”, soprattutto, a partire dai capitali realizzati nel più importante e redditizio degli affari, quello del narcotraffico.

Un’attività incredibilmente soggetta ad imposizione ai fini del Irpef, dell’Iva e dell’Irap secondo quanto sostiene l’Agenzia delle Entrate di Brescia che, nei giorni scorsi, ha notificato cartelle esattoriali  per oltre 5 milioni di euro alle 24 persone indagate dalla Procura della Repubblica di Trento, nell’ambito della operazione di polizia giudiziaria “Ali Babà” , per associazione a delinquere finalizzata al traffico di hashish e cocaina. Un’impresa criminale che può essere inquadrata in quella di “società illecita occulta” e tenuta a pagare, pertanto, i contributi sui guadagni, stimati, derivanti dal commercio di circa 150kg di hashish e 3kg di cocaina accertato nel periodo dell’indagine. Dunque, il fisco chiede le tasse agli spacciatori che,  in molti casi, considerato il mercato sempre florido e in espansione, si sono ben organizzati, con tanto di “libri contabili” e liste dei clienti abituali (come accertato in una recente operazione di polizia a Pirri, in Sardegna), e anche in grado di assicurare “merce e consegna” nell’arco delle ventiquattrore (a Taranto), con la possibilità di pagamenti anche in bitcoin ( operazione a Padova, ottobre 2018).

Ancora forte, dunque, l’inquinamento criminale della nostra economia, con il commercio di stupefacenti che rappresenta almeno il 75% di tutte le attività illegali e che, da solo, vale circa lo 0,9% ( cioè oltre 15 miliardi euro) del Pil, stando anche all’ultima relazione (ottobre 2018) del Dipartimento per le Politiche Antidroga (Presidenza del Consiglio dei Ministri). Di questo impatto criminale sulla nostra economia già alcuni anni  fa (2012) la Banca d’Italia aveva dato un autorevole contributo informativo.

La stima dell’economia sommersa era stata fatta basandosi sulla domanda di contante, integrata dalle informazioni sulle denunce per droga e prostituzione, rapportate al Pil delle singole province italiane. Ebbene, nel periodo esaminato, 2005/2008, all’economia criminale fu attribuito un valore oscillante tra il 10,9% e il 12,6% del Pil, considerando soltanto le attività illegali volontarie (traffico di stupefacenti e prostituzione) e accantonando quelle legate alla violenza (estorsioni) o senza l’accordo tra le parti( come nei furti). Uno scenario reso ancor più avvilente da quando, nel 2014, con una direttiva specifica, le autorità europee di statistica hanno dato la possibilità agli Stati membri di revisionare il Pil, inserendo nei conti nazionali i proventi, stimati, derivanti dal narcotraffico, dalla prostituzione, dal contrabbando di sigarette ossia da tutte quelle attività in gran parte nelle mani della criminalità organizzata. A ricordare questi punti ad un Parlamento ormai sciolto (febbraio 2018) era stata la Commissione parlamentare Antimafia che,  nella sua pregevole relazione conclusiva respingeva nettamente “..la legalizzazione statistica di quei proventi mafiosi..” auspicando una “profonda riflessione da parte della politica” sulla suggestione di un Pil così ricalcolato e apparentemente “tranquillizzante”. Una riflessione che non c’è ancora stata ed è un fatto grave anche perché è anche per questa forte penetrazione criminale sul territorio che l’Italia continua ad essere un Paese poco competitivo a livello internazionale.

Ancora sulla mafia nigeriana in Italia

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