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Prescrizione & processo: solo l’etica ci salverà

Donatella Stasio il . Senza categoria

togheAvvocati e Anm, divisi sulle proposte di riforma del processo penale e della prescrizione, concordano invece (ed è una novità) sulla pregiudizialità della prima rispetto alla seconda. Ma la diversa “visione” del processo rende la riforma impossibile. Oltre che inutile senza un cambio di passo dell’etica di tutti gli attori del processo.

«Quale rieducazione è di fatto realizzabile se i tempi di accertamento dei reati e quelli dell’esecuzione della pena sono così lunghi e distanti dalla condotta illecita?», chiede Bruno, detenuto nel carcere di Marassi a Genova. E poi chiosa: «La rapidità del processo non garantisce soltanto l’innocente ma anche il colpevole, per il quale è una necessità espiare velocemente la pena per saldare il conto con la giustizia. Che ne pensa?».

La domanda ricorre puntualmente durante il Viaggio nelle carceri della Corte costituzionale, partito il 4 ottobre da Rebibbia. Quasi un refrain, quello dell’eccessiva durata dei processi. Tema che proprio in queste settimane è tornato anche alla ribalta politico-parlamentare, sia pure per controbilanciare (se non per vanificare) la proposta di una riforma strutturale (e radicale) della prescrizione (stop dopo la sentenza di primo grado). Nelle domande dei detenuti e delle detenute, però, questo «collegamento» tra tempi del processo e prescrizione non c’è proprio. Anzi, la parola prescrizione non viene mai pronunciata. E forse se ne capisce la ragione, visto che a parlare sono persone che della prescrizione, evidentemente, non hanno beneficiato, altrimenti non sarebbero in carcere. Dunque, la loro testimonianza sui tempi lunghi vale “a prescindere”: sta lì a significare che, anche quando la condanna arriva nei tempi “regolamentari”, spesso arriva così lontano dalla commissione del fatto che il condannato è già “altro” rispetto al reato commesso, per cui la pena (soprattutto se trattasi di carcere) ha per lui un’afflittività ancora maggiore e la rieducazione suona come una beffa.

Peraltro, sui tempi dei processi ricordo sempre una famosa metafora del pm Paolo Ielo, quando ancora lavorava alla Procura di Milano (2009). «Il Palazzo di giustizia di Milano rappresenta alla perfezione le diverse velocità del processo penale, che viaggia su un doppio binario a seconda dei reati: al piano terra si trattano gli arresti in flagranza, i “reati di strada”, droga, rapine, violazione della Bossi-Fini. Il processo è rapido e ogni giorno vengono comminati svariati anni di galera. La prescrizione, in questo piano, non esiste. Una delle principali ragioni della rapidità è la condizione di povertà degli imputati, che non possono permettersi un avvocato di fiducia e spesso ricorrono al gratuito patrocinio e alla difesa d’ufficio. Al terzo piano, la giustizia ha tempi diversi. È il piano dei reati di aggiotaggio, corruzione, falso in bilancio, per i quali non è previsto l’arresto in flagranza. Gli imputati non sono “i meno abbienti” del piano terra. Gli anni di galera che vengono comminati ogni giorno sono di gran lunga inferiori. Il processo è più garantito, molti reati vanno in prescrizione anche perché la legge ex Cirielli ne ha ulteriormente diminuito i tempi». Ielo concludeva: «La differenza tra i piani del Tribunale rispecchia una diversa giustizia e si riflette nel carcere. È ovvio che con questo sistema, in galera ci va la carne da cannone». (Diritti e castighi: storie di umanità cancellata in carcere, di Lucia Castellano e Donatella Stasio, Milano, Il Saggiatore, 2009).

Certo, dal 2009 qualcosa è cambiato, ma il problema della lunghezza del processo e quello della prescrizione sono sempre lì, di fatto irrisolti. A volte le loro strade procedono parallelamente, altre volte si intrecciano, com’è avvenuto con l’ultima, recente, riforma del processo penale, targata Renzi-Orlando, entrata in vigore poco più di un anno fa e nata da una proposta del Governo (ispirata ai lavori di una Commissione ministeriale di autorevoli giuristi), senza le modifiche alla prescrizione; modifiche imbarcate strada facendo, da un provvedimento di iniziativa parlamentare che marciava in Parlamento per conto proprio. Il risultato finale è stato una riforma definita un «pannicello caldo» dall’Anm e contestata a suon di scioperi dagli avvocati penalisti. Opposte le ragioni del malcontento. Magistrati e avvocati, per chi ha un po’ di memoria storica, hanno sempre avuto idee contrastanti sul processo e sulla prescrizione, anche quando si sono seduti allo stesso tavolo per discutere. Come accadde nel 2012, con la Commissione Fiorella voluta dall’allora ministro della Giustizia Paola Severino per definire una proposta di riforma (solo) sulla prescrizione: il risultato fu un testo di compromesso (sospensione di due anni dopo la condanna di primo grado e di un anno in Cassazione) al quale si è poi ispirata la riforma Orlando (18 mesi di sospensione in Appello e 18 in Cassazione). Non con grande successo visti i giudizi critici di magistrati e avvocati.

Del resto, anche sul processo penale ci sono sempre state “visioni” differenti. E una conferma – se proprio ce ne fosse bisogno – emerge dalle audizioni, dalle proposte e dalle polemiche di questi giorni. Anm e avvocati sono d’accordo, oggi, soltanto su una cosa, e cioè che prima di mettere mano alla prescrizione si debba riformare, accelerandolo, il processo penale. Non è poco. Anzi, per certi versi, questa pregiudiziale comune è una novità. Peccato, però, che le “visioni” del processo siano così distanti da rendere “diabolica” quella pregiudiziale, ovvero impossibile l’approvazione di una riforma condivisa.

Quanto alla politica, ha idee confuse, e non da oggi. Per stare all’attualità, subito dopo l’accordo giallo-verde la ministra leghista Giulia Bongiorno ha fatto sapere che bisogna tagliare i tempi delle indagini perché è lì che si consuma il 70% delle prescrizioni; ancora non si sa come la pensi al riguardo il ministro pentastellato Alfonso Bonafede, anche se i grillini in passato hanno sempre contestato quest’impostazione, ovviamente condivisa dai penalisti e criticata dai magistrati, che denunciano, anzi, tempi di indagine strozzati rispetto alle risorse e ai fascicoli esistenti e imputano il dato sulla prescrizione durante le indagini all’ingolfamento dei Tribunali, che perciò non riescono a fissare le udienze per indagini già concluse… .

La ricostruzione è sicuramente sommaria ma è sufficiente a spiegare un dato importantissimo, purtroppo sottovalutato: il disorientamento dei cittadini di fronte al trascinarsi di una situazione che, per come viene di volta in volta rappresentata, affrontata, discussa, spiegata, finisce per delegittimare tutti gli attori, istituzionali, politici, professionali… . E questo è un prezzo altissimo per una democrazia, che sulla fiducia nelle istituzioni, e in particolare nella giustizia, poggia le sue basi.

Intanto il processo è lì, con la sua inefficienza e inefficacia che mettono a rischio quotidianamente diritti e garanzie di tutti: imputati, vittime, collettività. La rassegnazione è inaccettabile, anche se forse è funzionale all’immobilismo politico, corporativo e professionale. Né si può – soprattutto nella perdurante transizione politica italiana – “delegare” a nuove norme la ripresa democratica del processo.

Mai come nei momenti di disorientamento e confusione giova la lettura di Piero Calamandrei. «Per il buon funzionamento del processo (ma qualcosa di simile si potrebbe ripetere per tutte le istituzioni pubbliche, specialmente negli ordinamenti democratici), conta, assai più della perfezione tecnica delle astratte norme che lo regolano, il costume di coloro che sono chiamati a metterle in pratica». La chiave è questa. Ed apre più porte di quante, realisticamente, ne possano aprire nuove norme, peraltro del tutto eventuali e dal contenuto incerto.

Il “costume” rimanda non solo alla professionalità, ma anche all’etica della responsabilità, non esercitata abbastanza dagli attori del processo, più inclini a puntare il dito contro le norme vigenti, a reclamarne di nuove, a ostacolare quelle possibili… .

«Ciò che plasma il processo, ciò che gli dà una sua fisionomia tipica non è la legge processuale ma è il costume di chi la mette in pratica», scrive Calamandrei. «Il processo non è che un aspetto della vita di un Paese e le leggi processuali non sono altro che una fragile rete dalle cui maglie preme e talvolta trabocca la realtà sociale», aggiunge, insistendo sul concetto che il processo non è quello previsto in astratto dal legislatore ma che gli uomini – «giudici e giudicabili» – fanno vivere e che «rappresentano», ciascuno con il proprio costume «che può essere, purtroppo, anche un malcostume». E questo, secondo Calamandrei, è un altro elemento di somiglianza con il procedimento parlamentare.

Dunque, un richiamo fortissimo all’etica, che va rilanciato e ascoltato. È l’unica strada per “salvarci” dall’immobilismo. «La verità, che poi è il segreto per la salvezza dei regimi democratici, è un’altra – spiega Calamandrei –: per far vivere una democrazia non basta la ragione codificata nelle norme di una Costituzione democratica ma occorre, dietro di esse, la vigile e operosa presenza del costume democratico che voglia e sappia tradurla, giorno per giorno, in concreta, ragionata e ragionevole realtà. La démocratie est un comportement, un engagement. Faute de cet engagement, la technique constitutionnelle est morte. E questo – conclude – è anche il segreto della tecnica processuale».

Questione Giustizia

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