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Seminare mafia

Silvana Carcano il . Mafie

il-silenzio-e-mafiaQuante volte abbiamo pensato che la questione delle mafie non ci riguardi affatto? E quante volte ci siamo ritrovati a pensare: «È affare dei delinquenti», «Io che c’entro», «Non voglio sapere nulla delle mafie», «Che si ammazzino tra di loro». Oppure, ad andar bene: «Che cosa ci posso fare, io?».

L’atteggiamento sopra accennato è purtroppo alquanto diffuso e si manifesta con sfumature, più o meno sature, lungo la scala della non conoscenza: chi ignora la mafia, chi la sottovaluta o la mistifica, o, peggio ancora, chi la nega, rimuovendola con scusanti di vario genere.

Ciò che non cogliamo, con l’atteggiamento di chi ignora il problema mafioso, è che non solo ci comportiamo da struzzi che mettono la testa sotto la sabbia, ma nascondiamo sotto quella stessa sabbia anche le possibili tutele che potremmo innalzare se, invece, quel fenomeno, lo conoscessimo. O almeno iniziassimo a studiarlo.

Un italiano partecipe della vita pubblica del suo Paese può permettersi di disinteressarsi della mafia, pur conscio che la maggior parte dei problemi della nostra repubblica, anche di quelli che più preoccupano quel cittadino, derivi dalle mafie? Un italiano maturo, con la possibilità di disporre di informazioni come mai prima di oggi, non può non sapere che più mafia vuol dire incremento dei reati ambientali, danni alla salute umana, aumento della corruzione, meno fiducia nelle istituzioni democratiche, più burocrazia, più vischiosità, meno trasparenza delle procedure pubbliche, meno sicurezza. I Paesi a più alta presenza mafiosa attirano meno capitali e meno investimenti, favoriscono meno ricerca e innovazione, indeboliscono la struttura culturale del paese, determinano meno meritocrazia, più clientelismo e favoritismi. E quindi fuga all’estero dei cervelli italiani. I Paesi con la più alta presenza mafiosa sono quelli con i livelli più bassi di istruzione della popolazione.

Ma allora perché la mafia non viene combattuta come fosse il nostro peggior nemico? Perché si combatte altro, preferendo morire per mano di mafia, mentre i nostri sforzi e la nostra rabbia sfocia su obiettivi inesistenti, illusori e innocui?

Perché da decenni abbiamo scelto di non interessarci del fenomeno più complesso e influente del nostro Paese?

Eppure, ogni Governo converrebbe con chiunque nel dire che la lotta alla mafia e alla corruzione permetterebbe di recuperare una quantità enorme di soldi.

Ci sarà una ragione se nelle scuole di ogni ordine e grado non si è mai studiato in maniera specifica questo problema sociale, quello più ricco di implicazioni, rispetto a qualsiasi altro fenomeno sociale, per la politica, l’economia e la cultura del nostro Paese, e che ha influenzato la repubblica italiana lungo tutta la storia del nostro Stato, sin dalla nascita.

Ci sarà una ragione che spieghi perché il fenomeno più vasto, più imponente, più devastante e più influente d’Italia venga regolarmente trattato come secondario da tutti, politici e cittadini? Badate bene: politici e cittadini, nessuno ne è esente.

E ci sarà una ragione se lo si è considerato un tema di interesse marginale, buono al massimo per un giorno o due di lezioni sulla legalità da parte di qualche esperto, ad eventi pubblici impossibilitati, per definizione, di approfondire alcunché.

Perché questa trascuratezza?

La questione è che le mafie, in realtà, lo sappiamo bene tutti, hanno la loro forza al di fuori della mafia, come insegna il prof. Nando dalla Chiesa: la loro forza sta nelle complicità con i politici, gli imprenditori, i professionisti, i dipendenti e i funzionari pubblici e delle banche, con i giornalisti, i magistrati, i medici.

Insomma, la vera forza della mafia sta in ognuno di noi.

Siamo mafiosi?

È bene essere chiari: il corollario della tesi che la forza della mafia sta fuori dalla mafia è che quella forza mafiosa sta in ognuno di noi.

Ciò che dovremmo ammettere allora è che il comportarci da struzzi è un rimedio per evitare di fare ricerche archeologiche interiori monumentali. Una vera guerra al fenomeno sociale mafioso ci porterebbe nelle zone più buie di noi stessi, individuali e sociali. Ci ricorderebbe quel nostro prestare il fianco alla mafia, quel trovarci qualche convenienza, seppur vile e sciatta, quel nostro «lavarcene le mani», quel girar la faccia dall’altra parte per non vedere, non sentire e non parlare, quell’ignorare chi vi si oppone, isolando i coraggiosi anti-mafiosi, quell’insegnare ai nostri figli che è più conveniente e appagante la furbizia, il fregare il prossimo e il vincere ad ogni costo, quel dimenticarci il significato delle parole «vivere insieme», «comunità»,  «amor proprio», «rispetto», «fragilità», «bellezza». La vera forza della mafia sta anche nel sistema-idiota che abbiamo costruito e che non sappiamo più controllare, che sopravvive solo se diventiamo e rimaniamo macchine efficienti, al servizio del profitto, utili solo se funzionali, affascinanti solo se di successo, e cioè, conformisti, consumisti, egocentrici, individualisti e tecnologici. La vera forza della mafia sta nell’esserci separati dalla parte più nobile di noi esseri umani, quella che, di fronte a questa minaccia, farebbe sobbalzare tutti noi dalla nostra comoda sedia per farci indignare e agire, senza nessun pensiero-calcolo, incondizionatamente, solo in nome di valori morali ormai dimenticati, solo perché è giusto immedesimarci negli altri e vivere per gli altri, non per se stessi.

Siamo mafiosi?

Se possiamo sintetizzare la questione con un corollario breve e dirompente, purtroppo doloroso, e cioè che la mafia significa ignoranza e degrado culturale, dobbiamo ricordare che oggi, ancor più di decenni fa, il sistema in cui viviamo e lavoriamo favorisce ulteriormente questo degrado, perché obbliga all’individualismo sfrenato e al menefreghismo verso l’altro. Questo sistema premia la materialità, quella dei profitti e denari alla mano, perché si sa, il pensier comune è che «con la cultura non si mangia».

Eppure, la cultura di un Paese è la linfa vitale che ne permette la sopravvivenza, è il vaccino alle dittature, l’antibiotico per la monotonia e l’assenza di creatività, è la bellezza di una vita piena.

Ecco, allora, che il punto sta proprio qui: la lotta alle mafie si riduce ad una lotta tra la vita o la morte del nostro Paese.

Da un lato il malaffare, la corruzione, il machismo, il narcisismo, le figure normotiche alienate alla tecnologia, il denaro e il potere; dall’altra la bellezza, la cultura, la collettività, l’altro, l’essere umano consapevole della propria fragilità e mortalità.

È così: la vera lotta alla mafia riporta all’interrogarci su chi siamo e su che società abbiamo costruito. Insegniamo ai nostri figli ad essere sempre i primi, a divenire uomini e donne forti che si sanno imporre sull’altro, a manipolare il potere, grande o piccolo che sia, come segno di successo sociale, a disinteressarsi della qualità e profondità delle relazioni umane. Domina da decenni l’educazione al potere e alla lotta continua, sfiancante, snervante, deprimente. Ignoriamo l’educazione all’amore e alla fragilità come caratteristica strutturale di noi stessi. Facilitiamo in tantissimi modi la competitività e quasi mai la cooperazione. Non esiste un’educazione al «noi», ma solo una all’«io».

Di fronte a questa impostazione culturale, la risposta alle mafie è una risposta repressiva, violenta, fatta del gioco «guardia e ladri», che usa lo stesso linguaggio, un analogo criterio interpretativo, quasi un’identica sintassi di vita, seppur sul fronte dei «buoni». Ed è una risposta che non condurrà alla vittoria.

La vera risposta che potrà porre fine alla mafia, così come a tutte le deviazioni sociali, sarà quella che stravolgerà il sistema che favorisce il più forte, il più furbo, il più corruttibile, e che lo trasformerà in uno in cui vivano esseri umani cooperativi, relazionali, dialogici, pensanti, rivoluzionari e creativi. Su un terreno culturale di questo tipo non germoglierebbe più il malaffare e la mafia. Sul terreno attuale, invece, la semina è continua, e impensabile l’eradicazione.

Smettendo di seminare mafia smetteremo di raccogliere la mafia.

Non sempre è facile questo radicale passaggio, innanzitutto interiore, non lo è stato nemmeno per i grandi che hanno fatto la storia della civiltà umana: conduce a domandarci cosa stiamo seminando, ogni giorno.

Ma è sempre il momento di decidere cosa seminare, in ogni momento della nostra vita, senza soluzione di continuità, e possiamo sempre decidere liberamente di seminare altro, a partire dal decidere chi siamo, come viviamo, come ci rapportiamo agli altri, amici, conoscenti o emeriti sconosciuti.

Chiunque può fare tantissimo per combattere la mafia, partendo da se stessi.

Nell’iniziare l’eterna battaglia della scelta tra la vita e la morte. Che riguarda tutti.

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