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Mafia e informazione, il racconto che manca

Francesco Donnici il . Mafie

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Una riflessione sull’VIII Edizione della Summer School on Organized Crime dell’UNiversità di Milano.

 C’è un filo sottile, quasi impercettibile, che collega migliaia di storie, testimonianze, racconti.

È il filo che scorre lungo la consapevolezza del taciuto, che a volte pesa sulle coscienze più di qualsiasi parola di accondiscendenza o di facile compromesso. È il filo che si aggroviglia nella complessa narrazione del presente, della bellezza e del suo costante deterioramento che necessita di essere raccontato, quindi contrastato. Negli anni, il racconto delle mafie e l’inchiesta giornalistica sui fenomeni caratterizzanti il mutamento e l’espansione della criminalità organizzata, hanno fatto notevoli passi in avanti, ma manca ancora qualcosa.

Mancano all’appello alcuni territori che hanno bisogno di essere raccontati, poiché senza racconto la loro identità rischia di andare perduta; manca la prospettiva di un immaginario “buono” che si contrapponga al sempre crescente fascino del male che oggi si nutre anche della semplificazione offerta dalle nuove forme di comunicazione massiva; manca un comune sentire, la necessità di essere coesi in una lotta ostentante troppe bandiere che possono tramutarsi in un invincibile cappio per chi, nei valori della legalità e della giustizia sociale, crede concretamente; manca, infine, una legislazione che tuteli effettivamente la verità e la libertà di stampa, contro la paura dell’emarginazione o di pagare un prezzo troppo alto per le storie che si decide di raccontare.

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Pensare di poter trasporre in poche righe l’intensità e la varietà dei contenuti che hanno caratterizzato la cinque giorni dell’VIII edizione della Summer School in Organized Crime tenutasi all’Università di Milano dal 10 al 14 settembre, sarebbe impossibile.

Nell’epoca dell’informazione figlia di un’inversione di tendenza dove, per citare Marco Damilano, “ciò che prima veniva celato col silenzio, oggi viene sommerso dal frastuono”, appare opportuno riflettere più sulle cose taciute, a volte per paura, ma più spesso — e forse anche peggio — per compromesso.

A leggerla così, si appare come perdenti davanti allo strapotere di un fatto umano che come tutti i fatti umani ha un inizio ed avrà una fine, ma che proprio in quanto tale, dopo la fine può mutare, evolversi, rigenerarsi.

Se si presta attenzione al quadro storico, si nota come le mafie abbiano spesso perso; si siano dovute riorganizzare, cercare — per necessità o per convenienza — nuovi territori da contaminare e nuovi circuiti dentro ai quali proliferare.

Il rapporto tra mafia e informazione deve dunque, necessariamente, correre su un binario parallelo, ma mai divergente. Per non perdere le tracce di questi fenomeni, il giornalismo ha bisogno di essere supportato dalle Istituzioni, dal (vero) giornalismo stesso e da persone e comunità che al diritto di conoscere devono associare il dovere di informarsi.

Nell’epoca della moltiplicazione dei canali e dei mezzi di informazione, abbiamo a disposizione fin troppe fonti alle quali attingere e questo, paradossalmente, può mutare in una crescente disinformazione data dall’insormontabile difficoltà di discernere tra ciò che è informazione e ciò che non lo è;  tra il vero ed il falso; tra il giusto e lo sbagliato.

Ricorrente, in questi giorni, è stato l’emblematico esempio del caso Montante che grazie proprio al giornalismo fatto di domande ed indagine della realtà, rappresenta una cicatrice sul volto di una legalità stuprata. “All’inizio ci siamo cascati tutti”, sento dire. Ed è vero. Ma per fortuna non proprio tutti ed è grazie a costoro che oggi conosciamo la verità. Così è anche per due delle più grandi inchieste di mafia degli ultimi anni — da qualche giorno possiamo dirlo ufficialmente — ovvero Aemilia e Mafia Capitale che traggono origine proprio dal racconto di “giornalisti giornalisti” che hanno compreso come le mafie non debbano essere cercate solo nei territori dove appare facile trovarle per antonomasia, ma possono annidarsi ovunque; possono proliferare soprattutto laddove ciò che nei fatti era mafia, tale non poteva essere chiamata.

ptrozE così, abbiamo vinto, laddove con coraggio chiesto in dimensioni eccessive a chi assolve il semplice compito di raccontare la realtà, abbiamo trovato verità scomode, ma che hanno accresciuto le nostre coscienze e le nostre conoscenze.

E così, abbiamo perso, laddove sfogliamo migliaia di pagine di una sentenza che ci racconta di uno Stato talvolta inginocchiato all’altare della mafia, talaltra prodigato con essa in un caloroso abbraccio. Ma in pochi hanno interesse a raccontarlo.

A me stesso continuo a chiedere se sia più estesa l’eco dell’esplosione che ha ucciso Daphne Caruana Galizia o il silenzio che molti vogliono imporre intorno al suo nome. Perché fare il giornalista ha un costo, ma se questo costo diventa più rilevante del mio lavoro e dei miei valori, giornalista non lo sarò mai.

La cinque giorni di lezione e dibattito su mafia ed informazione ci lascia spazi ancora vuoti e luoghi, come la Calabria, che chiamano a gran voce la nostra penna come quella di chiunque, quegli spazi e quei luoghi, voglia riempire con occhi bene aperti sulla realtà e sete di verità.

 

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