NEWS

La parola contro le mafie

Luca Cereda il . Mafie

cross unimiSiamo nella società dell’informazione. Oggi tutto è comunicazione e soprattutto tutti possono far sapere qualcosa. Questo significa che anche la percezione che abbiamo della criminalità organizzata  dipende da quel che di essa comunichiamo. “La mafia – dice il Professor Nando dalla Chiesa, Direttore dell’Osservatorio sulla Criminalità Organizzata e organizzatore della Summer School – è un potere occulto ma che per sua natura deve farsi sentire, lo si deve percepire. La mafia non ama che si dica che esiste, ma ama che si sappia che esiste: questo è il suo potere. Un potere che dev’essere sentito ma non saputo, rispettato ma non analizzato o combattuto. L’arduo compito dell’informazione è allora quello di raccontare questo potere occulto. L’informazione deve capire come rendere noti gli aspetti di questo fenomeno attraverso i media tradizionali, ma anche mediante i nuovi mezzi di comunicazione”.

Sulla carta stampata e in TV, sulle radio e sui social, nel cinema e sui libri. Se la mafia è ancora vigorosa e radicata vuol dire che la sua forza sta in gran parte nella sua capacità di addomesticare o di intimidire l’informazione in ogni sua espressione, come pure nella sua capacità di sfruttare le superficialità e le pigrizie che la stampa stessa le mette a disposizione. Non per calcolo ma per insufficienze, debolezze professionali o per lacune del sistema editoriale dell’informazione.

Qual è quindi, ad oggi, lo stato dei rapporti tra informazione e mafia? Quali sono gli stereotipi e quali i silenzi sulla criminalità organizzata? Quali invece sono i pericoli e i rischi che incombono oggi sulla verità e dunque sulle libertà civili, anche a livello internazionale? E come è possibile contrastare le mafie facendo uso delle parole e delle immagini?

L’ottava edizione della Summer School on Organized Crime promossa dal Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università di Milano, si è svolta dal 10 al 14 settembre e ha riunito studiosi, esponenti delle istituzioni, magistrati, giornalisti, giovani ricercatori, insegnanti, militanti delle associazioni antimafia e studenti. I 60 partecipanti per otto ore al giorno hanno ascoltato, pensato, riflettuto, discusso e soprattutto domandato. Si, perché porre domande e individuare le distinzioni, linguistiche ed ontologiche del fenomeno mafioso deve aiutare ad evitare di aiutare indirettamente la mafia mistificandone l’essenza. Un pericolo che l’informazione corre è che tutto diventi mafia: la corruzione, il potere deviato, le migrazioni. “La mafia c’è perché c’è disoccupazione”. Questo, ad esempio, è un falso mito da sfatare: in Sicilia, in periodi di alta disoccupazione crescono movimenti antimafia giovanili. O ancora, “il fenomeno mafioso al nord è dovuto ai soggiorni obbligatori”: ma a Buccinasco, dove la corruzione e la collusione della politica e dell’economia con le organizzazioni criminali erano altissime, non era presente alcun mafioso insediato a causa del soggiorno obbligatorio. Ancora: “la mafia dà lavoro”. Falso: molto lavoro viene invece da essa sottratto o non nasce mai. Falsità come quella che la mafia proteggesse la Sicilia dalle Brigate Rosse: è importante sottolineare che la mafia ama che la si presenti come movimento dell’ordine, anche se poi scatenò negli stessi anni ‘80 una delle guerre civili più sanguinose. Un altro falso mito è quello che nella ‘Ndrangheta non ci siano elementi che hanno collaborato con la giustizia: è falso perché solo in Lombardia ci sono più di 60 collaboratori a più livelli.

Queste sono voci e silenzi che passando dall’informazione alla magistratura fino alla società civile si corroborano diventando ‘verità’. Ma sono false. È importante quindi che sia l’informazione stessa, cercando la verità, a non dar adito alle voci e a dare parola ai silenzi, impegnandosi affinché i falsi miti costruiti o lasciati crescere, vengano smontati. L’altro compito di cui l’informazione si deve far carico è quello di fare memoria e non solo riprendendo le commemorazioni. L’obiettivo dell’informazione dev’essere quello di fare memoria attiva, memoria che tiene sveglie le coscienze e non lascia depositare la polvere dell’indifferenza all’interno della società civile.

Questo percorso e impegno per l’informazione è stato illustrato e sostenuto da Antonio Calabrò, già giornalista de L’Ora  e da Maria Grazia Mazzola, giornalista di Rai 1, i quali, trovando una eco nelle presentazione del Progetto Memoria promosso dell’Università degli Studi di Milano, hanno sottolineato l’essenzialità della memoria nella costruzione della narrazione dei fatti di mafia: memoria che va intesa come bussola per l’azione futura. La memoria è qualcosa che si deve sedimentare e che deve maturare nel dialogo in famiglia, tra generazione e in seno alla società.

Attilio Bolzoni, di Repubblica, Marco Travaglio, de Il Fatto Quotidiano e Claudio Fava, membro della commissione parlamentare antimafia siciliana e giornalista, descrivono come triangolare il rapporto esistente tra i centri di potere, la società civile e l’informazione. Ognuno di loro declina però il triangolo in modo diverso.

Innanzitutto Fava ci ha spiegato perché si parla di centri di potere e non di politica e in che modo questo non sia solo uno slittamento semantico ma un fenomeno fondamentale per il proliferare dell’economia mafiosa: “Stando alle regole del mandato politico che gli elettori affidano ai candidati, il potere dovrebbe essere stabilmente, ed in virtù nelle norme costitutive, in mano alla politica. In Sicilia, però non è stato così in questi ultimi anni: esisteva un centro di potere, di governance politico-economica che si è mosso borderline tra la trasparenza e la mitologia della legalità, e la corruzione tra imprenditoria, politica e informazione. Un sistema del genere ha avuto come primo obiettivo quello di spostare i luoghi reali delle decisione e del potere effettivo: l’assessorato per attività produttive, il quale per agire e funzionare deve avere rapporti con l’economia e con le imprese, e che ha portafogli ampio e ampia gamma decisionale, in Sicilia veniva eliminato ed ‘appaltato’ a Confindustria Sicilia. Le decisioni in materia economica venivano quindi prese da un membro stipendiato direttamente da Confindustria, un ente privato, e non dalla regione. Le politiche economiche delle regione erano qui appaltate ad interessi precisi. A decidere non era il potere costituito: era un centro di potere con scopi propri e propri obiettivi”. Un centro di potere che nel caso siciliano era deviato, colluso, corrotto con esponenti di Cosa Nostra, ma che agli occhi dell’opinione pubblica svolgeva un ruolo di primo piano nella lotta al racket ed era apripista tra chi si impegnava nell’antimafia.

Questo sistema, questo centro del potere, Attilio Bolzoni lo ha definito: una ‘mafia incensurata’. “Si  sono presentati profumati, eleganti, incensurati, appunto. Quello era solo uno scudo per un sistema para-mafioso, corrotto e che muoveva il potere vestendo l’abito dell’antimafia. Questa mafia incensurata spettacolarizzava e banalizzava l’antimafia, la rivestiva come si riveste un cartellone pubblicitario incollando la cultura della legalità alla logica della retorica mafiosa”.

Parlare allora di questa mafia incensurata, di questa mafia – ha spiegato Bolzoni – che non paga tangenti o mazzette, ma corrompe con favori, è stato estremamente difficile: era un sistema trasversale che coinvolgeva il governatore della regione Sicilia Crocetta, il presidente della Camera Schifani, il presidente di Confindustria Sicilia Montante, mente di questo sistema mafioso, ma anche molti giornalisti e imprenditori, soprattutto siciliani.

“Antonello Montante, è un nuovo califfo di mafia e di corruzione, ed è riuscito a diventare agli occhi di tutti, un paladino dell’antimafia e della lotta al pizzo sfruttando la retorica. Una retorica che vede in prima linea, conniventi e forse anche complici, molti giornalisti, locali ma anche nazionali.  Questi giornalisti si ‘prestavano’ per restare ancorati a quel sistema di potere e di influenza politico-culturale che Montante aveva creato, non per soldi, ma per riceve le chiamate, gli inviti a cena e nei club di questi potenti. Ci sono le intercettazioni dove si sente che all’inviato del Sole24Ore, giornale deputato a raccontare l’impresa italiana, in Sicilia veniva dettata la linea concettuale e teorica per l’articolo volto ad ammantare di legalità un sistema che di quest’ultima si faceva gioco: concettualmente e nei fatti. Non c’era corruzione in queste operazioni, non c’era svendita o compravendita di interessi. Al centro di questa connivenza c’era l’interesse ad esempio agli inviti alle cene o alla partecipazione ai riti del potere, al consociativismo illuminato di questi imprenditori ed esponenti del potere: incontri che creano miti e mostri. E il mostro è stato la facilità con cui Montante manipolava questi giornalisti. Montante, indagato dalla procura per concorso esterno in associazione mafiosa”.

“La difficoltà di raccontare e di far trapelare la verità – conclude Bolzoni – che la governance politico-economica della Sicilia fosse nelle mani di Confindustria e di Montante fu che lui, era considerato dalla vox populi, come un campione dell’antimafia e dell’anticorruzione: se ti dichiaravi contro di lui e contro il suo sistema eri automaticamente dalla parte della mafia”.

Emerge in modo netto che l’informazione ha, oggi più che mai, un ruolo cruciale: quello di essere il terzo lato del triangolo tra la società civile e i centri di potere. Un lato che ha  il compito di cercare la verità. Quella verità che Giuseppe Fava, scrittore e giornalista catanese tra gli 11 giornalisti uccisi dal dopoguerra dalla mafia, ha ritratto in un articolo del 1981 sul Giornale del Sud, dal titolo Lo Spirito di un giornale: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente in allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.

Se per Bolzoni e Fava l’informazione deve costituire il terzo lato di quel triangolo, secondo Marco Travaglio, il lato dell’informazione è un lato che fa parte di un altro triangolo: quello tra Stato e mafia. Un lato che, nella storia del paese dal dopoguerra ad oggi, si è contingentemente appiattito di volta in volta sul lato, tanto del potere, quanto della mafia, fino a sparire. Ed emblematico di ciò è che della sentenza sulla Trattativa Stato-mafia, resa pubblica il 19 aprile, l’informazione non ne abbia mai parlato prima, nel corso degli oltre 25 anni in cui la trattativa è stata portata avanti.

L’informazione è gregaria a mafia e Stato, a volte anche complice.

Chi fa informazione cercando sempre la verità ha davanti a sé, spesso, un grande rischio, e questo rischio ha un nome e dei numeri. Il nome – racconta Alberto Spampinato di Ossigeno per l’Informazione – di questo rischio è quello delle intimidazioni. Ossigeno per Informazione nasce nel 2007 da un gruppo di giornalisti che hanno notato il fenomeno delle intimidazioni nei confronti di giornalisti e di scrittori (Saviano, Lirio Abbate, ecc.) e da quel momento, hanno iniziato a tenere il conto di queste intimidazioni e a raccontarle.

Dicevamo dei numeri: i numeri non sono solo quelli delle intimidazioni verso i giornalisti, sono i risarcimenti spropositati che vengono chiesti ai giornalisti nei procedimenti di querela.

“Un elemento su cui riflettere e da mettere in cima alla lista delle cose da fare è la costante impunità di chi minaccia la libertà della stampa: in Italia l’impunità è del 99%”. Queste che vengono definite ‘querele temerarie’, ovvero querele che sanno già in origine di perdere una volta giunte in tribunale, hanno un duplice scopo – spiega l’avvocato Katia Malavenda. Esse, oltre che costituire una spada di Damocle per centinaia di migliaia di euro sulla testa del giornalista chiamato in causa, lo sono nei fatti, perché le spese giudiziari di un processo nato-vincente per il giornalista, lo porta a pagare ugualmente le spese giudiziarie dandola vinta ai querelanti i quali vincono comunque: il giornalista, in futuro, penserà due volte prima di scrivere tutta la verità scoperta, sapendo che dovrà affrontare un procedimento legale.

Per evitare tutto ciò, esistono alcuni strumenti giudiziari, altri però vanno introdotti. Un esempio sarebbe quello di far pagare parte della cifra astronomica richiesta al giornalista ai querelanti che vogliono ostacolare chi racconta i fatti per come sono e si presentano, rifondendo le spese giudiziarie di chi hanno trascinato al banco degli imputati e parte allo Stato. Sempre più frequentemente infatti lo strumento della querela è usato anche solo per spaventare coloro in quali inciampano in storie che dovevano restare non dette e che scrivono per 4 o 5 euro per giornali locali.

Chi ha scavato cercando la verità e ha pagato questo impegno con il ‘prezzo’ della scorta, è Giovanni Tizian de L’Espresso.

Sette anni fa, la polizia gli ha assegnato la scorta di due agenti di polizia perché aveva disseppellito alcuni fatti che dovevano restare nascosti: Tizian aveva soltanto servito la verità, e la verità alla fine non solo gli si era mostrata in tutta la usa nascosta evidenza, ma lui aveva deciso di raccontarla. Mentre Tizian stava studiando la sentenza della Cassazione per quanto riguardava il Processo Spartacus, uno dei primi contro i Casalesi, dalle carte emergeva che Modena era da anni la succursale del clan degli Zagaria e in generale dei Casalesi. Ma non solo: attraverso alcune inchieste è emerso il profondo radicamento che anche la ‘Ndrangheta aveva con le imprese di quel territorio. Questo insieme di fatti è sfociato in seguito nel processo Aemilia. Giovanni Tizian ci lascia con una riflessione che ha avuto un’eco trasversale per tutto il proseguo della Summer School: “Fare giornalismo significa riportare ai lettori un fatto che può e deve assumere i connotati di una notizia di interesse pubblico. Oggi è in corso un arretramento della consapevolezza di quello che accade in Italia, oggi ‘rompi le scatole’, infanghi il ‘buon nome’ di qualcuno o di un territorio se racconti di ciò che non va in esso: a maggior ragione se gli ingranaggi non funzionanti sono inquinati dalla mafia. ‘No, non in Emilia, non a Modena!’. Eppure è lì, solo da raccontare: il giornalista non deve creare nulla, deve solo trovare l’ordine preciso dei fatti, deve collegare i puntini.

Il senso del giornalismo va trovato quindi sui territori e non è un caso che le minacce vengono fatte nei territori. Non è un caso che la ‘Ndrangheta sia diventata una potenza mondiale: ha avuto la forza di prendersi territori, territori periferici. Nel silenzio connivente e a volte colluso di quei territori.

Bisogna tornare sui territori cercando di dare risposta alla seguente domanda: perché in Calabria non c’è, tranne la Rai, un servizio pubblico e di informazione nazionale, e non c’è nemmeno un quotidiano a tiratura nazionale?”.

“Mafia e Informazione”: con questo tema non ci si poteva esimere dall’analizzare i linguaggi attraverso i quali si racconta la mafia e con i quali la mafia si descrive. Marco Santoro e Marco Solaroli, sociologi dell’Università degli studi di Bologna, sono ‘entrati dentro’ questa operazione di analisi del linguaggio esaminando tutti gli attori della realtà emiliana coinvolta nell’inchiesta Aemilia. Sulla base di questo lavoro è stato realizzato un docu-film: ER (Emilia Romagna) Connection. Questa filmato consente di dar voce a tutti gli ambiti interessati dal fenomeno mafioso, sia perché collusi, sia perché hanno tentato di raccontarlo prima che si accendessero i riflettori. Interviste agli imprenditori indagati per concorso esterno in associazione mafiosa, membri stessi del clan della ‘Ndrangheta, giornalisti nazionali e locali, membri delle associazioni antimafia e della politica locale: voci dal campo, interpretate dai sociologi.

“Per riconoscere e non solo definire il fenomeno mafioso – spiegano Santoro e Solaroli – bisogna capire anche come esso si presenta. Abbiamo riscontrato una risonanza culturale tra la ‘Ndrangheta e la sua cultura familistica di origine calabrese, con quella che è la cultura delle Emiliana che è costituita su una rete di aziende famigliari che hanno fatto e farebbero di tutto per salvaguardare il lavoro delle famiglie dei dipendenti”.

Dall’altro lato, Marcello Ravveduto, docente di Public History presso l’Università degli studi di Salerno, ci ha raccontato la brutale e schietta plasticità del simbolismo social della Camorra, soprattutto dei ragazzi giovanissimi delle paranze. Emoj, hastag, foto, geolocalizzazioni, stati e tag per comunicare fratellanza, autogenerare identità di gruppo, espletare i ruoli all’interno della gerarchia mafiosa, dichiarare di guerra e affermare il potere e il controllo del territorio. Il professor Ravveduto ci ha mostrato come il linguaggio che la Camorra usa, soprattutto sulle piattaforme di Facebook e Instagram, intrecci la sua forma virtuale con azioni e conseguenze reali. Proiettili per emoj.

La dottoressa Martina Mazzeo, dell’Università degli studi di Milano, ci ha parlato invece del linguaggio dell’antimafia, in particolare delle fasi che lo hanno contraddistinto. Il primo stadio è stato quello dei ‘pionieri’ di Radio Aut di Peppino Impastato a Cinisi, fino ai giornalisti palermitani de L’Ora. Ci sono anche le esperienze dell’isolato Giancarla Siani, giornalista ‘abusivo’ de Il Mattino di Napoli, e di Società Civile a Milano, che con il suo lavoro d’inchiesta anticipò di 4 anni i processi di Mani Pulite. Negli anni ‘90, la fondazione di Narcomafie, da parte del torinese Gruppo Abele, ha rappresentato la prima esperienza di stampa settoriale e durevole per la capacità e la qualità delle sue inchieste sul fenomeno mafioso. Nel 2007 è nata invece LiberaInformazione, piattaforma che si è posta l’obiettivo di raccontare i territori attraverso coloro i quali li vivevano da dentro. Roberto Morrione, primo direttore, organizzò già nell’anno della fondazione della piattaforma, un tour nei luoghi di mafia per capire da questi territori come si potesse raccontare la realtà.

I territori, è lì che che si deve combattere la guerra dei valori contro le mafia, una lotta fatta anche dall’informazione che proprio su quei territori se deve impegnare a raccontare: “…Se un giornale non è capace di questo [dire la verità, n.d.r.], si fa carico anche di vite umane. Persone uccise in sparatorie che si sarebbero potute evitare se la pubblica verità avesse ricacciato indietro i criminali: ragazzi stroncati da overdose di droga che non sarebbe mai arrivata nelle loro mani se la pubblica verità avesse denunciato l’infame mercato, ammalati che non sarebbero periti se la pubblica verità avesse reso più tempestivo il loro ricovero. Un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze. le sopraffazioni”. Così scriveva Beppe Fava nel suo Lo Spirito del giornale.

Il dibattito che abbiamo avuto con Giovanni Bianconi, del Corriere della Sera, Marco Damilano, direttore de L’Espresso, Gianluigi Nuzzi, di Videonews, Mediaset e Antonio Padellaro, de Il Fatto Quotidiano, è ripartito proprio da questo punto: il raccontare i territori, il riportare le loro verità. Fare questo, incidentalmente porta i giornalisti a parlare di mafia. Il giornalismo infatti non dev’essere anti-mafia o pro-mafia: l’informazione si deve porre al servizio soltanto della Verità. Raccontare fenomeni di mafia, quando questa non uccide, ci hanno raccontato questi giornalisti, sembra annoiare il lettore o lo spettatore facendo si che le storie che parlano di mafia o della sua lotta venissero relegate ad orari improbabili o a trafiletti irrintracciabili o quasi. Questo deve portare a due tipi di riflessione: una da parte dell’editoria, la quale ha il dovere e il compito di dare spazio alla narrazione dei fenomeni legati alla criminalità organizzata. In secondo luogo, l’impegno dei cronisti e dei giornalisti dev’essere quello di evitare i cliché sulla mafia che sterilizzano l’interesse dei cittadini e che non promuovono i dibattito costruttivo ed informato sul tema che rischia di restare ancorato a quella retorica che proprio all’inizio della Summer School il Professor Dalla Chiesa ci ha proposto di avversare.

Dei territori ci hanno parlato alcuni giovani giornalisti che hanno combattuto e stanno combattendo con la realtà arida a volte e dura del raccontare certe realtà come quella delle Calabria. Hanno portato la loro testimonianza Claudio Campesi, de Il Quotidiano del Sud, e Adelia Pantano, del Corriere della Calabria: “…Lì, anche un morto ucciso in una spiaggia affollata in agosto non ha testimoni e rischia di non avere neppure voce”. Anche Luca Bonzanni, de L’Eco di Bergamo, e Caterina Maconi, di Avvenire, ci hanno descritto le difficoltà di narrare di alcune realtà presenti al nord, poiché si va spesso incontro a coloro ai quali non piace ‘l’incauto infangare il buon nome di quella regione’.

Malta, Messico e Russia, territori vicini e lontani da noi, regioni del mondo che secondo Manuel Delia, Freelance reporter a Malta, Andrea Riscassi, della Rai e Lucia Capuzzi, di Avvenire, è importante che siano raccontati dall’interno. Solo mediante quel punto di vista può essere posta l’attenzione a tutte le dinamiche in atto, sociali, civili e politiche che non hanno bisogno di essere semplificate ma descritte in tutta la loro complessità. È necessario e fondamentale parlare e rendere pubblica l’esistenza di alcuni fenomeni e fatti che, anche se non sono perpetrati dalle organizzazioni mafiose classiche, sono di chiaro stampo mafioso.

L’VIII edizione della Summer School nel corso dei cinque ed intensi giorni di studio, oltre a dare la parola a tantissimi giornalisti e a molti accademici esperti delle dinamiche mafiose, si è offerta come tribuna privilegiata che ha raccolto le testimonianze e le riflessioni sul rapporto tra la criminalità organizzata e l’informazione, di alcune figure che hanno ricoperto e occupano ruoli chiave nella lotta alle mafie.

Pietro Grasso fu giudice a latere del maxi-processo a Cosa Nostra che tra il 1986 e il ‘92 ebbe luogo a Palermo. Parlando del rapporto tra l’informazione e i media, e quel processo, Grasso ricorda di aver accreditato circa 500 giornalisti da tutto il mondo e che l’intero dibattimento venne ripreso in esclusiva dalla Rai. Ogni giorno la TV nazionale offriva nelle proprie reti un’ampia sintesi dei contenuti. “Per mafiosi, così come per noi magistrati, fu una prima volta: ci trovammo ogni giorno davanti all’occhi della telecamera senza conoscere l’effetto che ciò avrebbe sortito sul pubblico, ma anche su di noi e sugli imputati. Un esempio fu che nelle celle si potè vedere come gli imputati si sedessero in base a raggruppamenti per famiglia. Questa posizione permetteva di riconoscere in modo chiaro anche il ruolo che ogni membro aveva all’interno dell’organizzazione sulla base della vicinanza rispetto ai boss”.

Silenzi e voci. Risposte: come quelle che vanno cercate nella storia dell’Italia. Rosy Bindi, Presidente della commissione parlamentare antimafia dell’ultima legislatura, e Federico Cafiero de Raho, Procuratore nazionale antimafia, chiudono la settimana di riflessione della Summer School: “I risultati del rapporto della commissione parlamentare antimafia sono frutto del lavoro di tutte le forze politiche della scorsa legislazione. La lotta alla mafia deve continuare ad essere un impegno politico, poiché la mafia non prescinde dal rapporto con i centri di potere.

Certamente la mafia – continua Rosy Bindi, parafrasando Falcone – è un fenomeno umano e come tale può morire; ma può anche nascere sotto nuove forme e con nuovi volti, con nomi nuovi, com’è accaduto ed è stato dimostrato dal processo Mafia Capitale. Esso insegna che i metodi mafiosi so applicabili in ogni contesto e non con la commistione o la connivenza della mafia “storica”.

“Non si può prescindere, nella lotta alla criminalità organizzata, dalle Leggi, dalla Costituzione – afferma il Procuratore de Raho. Nel 416 bis viene detto che le mafie proliferano nell’omertà: il silenzio della stampa è uno strumento a favore della mafia. La mafia infatti la combatte la società civile intera non la si fronteggia solo nelle aule di tribunale. Anche l’informazione e i media sono un mezzo fondamentale per rendere consapevoli ed informati i cittadini e per costruire quindi un tessuto sociale maggiormente impermeabile alle infiltrazioni mafiose.

È importante, in materia di informazione, la delibera che il consiglio superiore della magistratura, da me appoggiata, che prevede che i Procuratori della Repubblica facciano delle conferenze stampa per esporre i fatti considerati, dato che soltanto loro possiedono il quadro d’insieme sulle indagini e sui fatti che il processo di prefigge di appurare e chiarire”.

Tra i silenzi e le voci della storia d’Italia, è emerso, da questa VIII edizione della Summer School, che le parole possono mettere in crisi le potenti organizzazioni criminali.

Come?

Non sono gli scrittori, i giornalisti, i sociologi, i magistrati o i politici con i loro discorsi, articoli, libri o saggi ad incutere timore alle mafie, e non sono certo le parole da sole a riuscire ad accendere i riflettori e per questo a mettere paura alle organizzazioni criminali.

È il principio che sostiene le parole e le azioni questi uomini e donne, a spaventare le mafie, un principio che chiede loro di cercare di essere non solo persone che contrastano chi vuole in tutti i modi il potere, ma anche uomini e donne che non desiderano obbedire. Uomini e donne liberi.

Trackback dal tuo sito.

Premio Morrione

Premio Morrione Finanzia la realizzazione di progetti di video inchieste su temi di cronaca nazionale e internazionale. Si rivolge a giovani giornalisti, free lance, studenti e volontari dell’informazione.

leggi

LaViaLibera

logo Un nuovo progetto editoriale e un bimestrale di Libera e Gruppo Abele, LaViaLibera eredita l'esperienza del mensile Narcomafie, fondato nel 1993 dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio.

Vai

Articolo 21

Articolo 21: giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).

Vai

I link