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Consiglio Superiore della Magistratura e sistema costituzionale

Gaetano Silvestri il . Giustizia

image001Sono passati 60 anni dalla pubblicazione della Legge 24 marzo 1958 n. 195: legge istitutiva del Consiglio Superiore della Magistratura. In occasione di questo 60° anniversario il Consiglio ha deciso di ricordare il lungo e tortuoso cammino intrapreso dalle Istituzioni per la creazione dell’organo di governo autonomo della magistratura, attraverso la pubblicazione di numerosi materiali (lavori parlamentari, resoconti e documenti  relativi alla prima elezione del Consiglio superiore)  che testimoniano anche il lungo e travagliato percorso compiuto verso la piena e completa autonomia interna ed esterna della magistratura. La legge entrò in vigore il 27 settembre 1958; il Consiglio ne celebrerà la ricorrenza con un particolare evento che cadrà, peraltro, in prossimità della conclusione della consiliatura, prevista per il 25 settembre 2018.
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Il Consiglio superiore della magistratura e il Ministro della giustizia non sono due organi contrapposti, neppure potenzialmente, poiché indipendenza della magistratura ed efficienza del servizio giustizia sono un tutt’uno. Il Csm è un organo costituzionale, poiché si pone come indefettibile rispetto al nucleo fondamentale della Costituzione che va sotto il nome di “princìpi supremi”. Il Csm ha, e deve avere, un suo indirizzo politico-giudiziario, allo scopo di non esercitare in modo casuale e disordinato le proprie funzioni, con conseguente aumento del corporativismo. Il potere normativo del Csm è insito nella sua natura di organo costituzionale; al rispetto dei suoi limiti sono preposte la giurisdizione comune e costituzionale. Sembra necessario un nuovo sistema elettorale per la componente “togata”, ispirato a quello in vigore per il Senato prima della riforma maggioritaria. Il Presidente della Repubblica, il Vicepresidente e il Comitato di presidenza sono organi equilibratori di un sistema complesso.

1. La summa divisio tra Consiglio superiore della magistratura e Ministro della giustizia

La Costituzione italiana del 1948 ha introdotto un organo di garanzia dell’indipendenza della magistratura del tutto svincolato dalla struttura verticale-gerarchica del sistema giudiziario di stampo europeo continentale, mantenendo tuttavia l’inserimento dei giudici nell’apparato dello Stato persona. Rispetto ad una eventuale introduzione del modello anglosassone, storicamente contrapposto a quello continentale del giudice-funzionario, l’Assemblea costituente ha scelto di costruire un modello del tutto nuovo – anche rispetto ad esperienze italiane prefasciste – fondato su un equilibrato contemperamento di autonomia, democrazia e integrazione nel sistema costituzionale.

Tralascio di ripercorrere ancora una volta il dibattito sviluppatosi in Assemblea costituente, oggetto di numerose ricostruzioni[1], per analizzare invece i tratti salienti che caratterizzano il Consiglio superiore della magistratura e che ne hanno fatto un esempio seguìto, con diverse varianti, in molti altri ordinamenti.

Il fine principale del nuovo organo è quello di “sterilizzare”, nei limiti del possibile, tutti i provvedimenti riguardanti lo status dei magistrati dalle potenzialità corruttive o intimidatorie che sempre hanno accompagnato simili atti nell’ambito della pubblica amministrazione. L’importanza e la delicatezza di tali atti è tale da indurre il Costituente ad enumerarli esplicitamente in un articolo della Carta (art. 105), ove sono menzionati «le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari», che vengono sottratti al Ministro della giustizia, cui spettavano secondo il precedente assetto costituzionale e legislativo. A quest’ultimo sono attribuiti «l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.» (art. 110 Cost.).

Sono possibili due letture del combinato disposto degli artt. 105 e 110 della Costituzione.

La prima è quella che, valorizzando la dizione letterale dell’art. 110, considera le competenze del Csm frutto di uno “scorporo” dalla complessiva e potenzialmente onnicomprensiva sfera di attribuzioni del Ministro della giustizia. L’espressione «Ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura», se isolata dal contesto del sistema costituzionale, potrebbe in verità far pensare ad un “ritaglio” di compiti, che, tali e quali, passano all’organo collegiale, più adatto, per la sua composizione, ad adottare i relativi provvedimenti, senza che gli stessi esercitino forza di condizionamento sui magistrati.

La seconda possibile lettura inquadra le due disposizioni nel sistema costituzionale e induce a tracciare una summa divisio tra quella che è stata felicemente denominata «amministrazione della giurisdizione»[2] e le funzioni ministeriali, non puramente strumentali ed esecutive, ma destinate ad assicurare, ai sensi dell’art. 97, secondo comma Cost., il «buon andamento», ossia l’efficienza degli uffici giudiziari. Questi ultimi sono destinatari del suddetto principio al pari di quelli amministrativi, come ha ripetutamente affermato la Corte costituzionale[3]. Si deve constatare che, negli ultimi anni, è aumentata la consapevolezza del valore dell’efficienza del servizio giustizia, quale parte integrante della tutela dei diritti dei cittadini. Ciò rende necessaria una sempre più intensa cooperazione tra Ministero e Csm, ciascuno nelle rispettive sfere di competenza.

L’aumentata rilevanza, nella percezione sociale e istituzionale, del principio di buon andamento dovrebbe diminuire le occasioni di contrapposizione ed aumentare quelle di collaborazione positiva tra Ministro e Consiglio. In passato si sono verificati contrasti, sfociati persino in conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, sulla natura e le modalità della cooperazione, specie in un settore “di cerniera” tra la tutela dell’indipendenza della magistratura e la cura dell’efficienza: la nomina dei capi degli uffici giudiziari. La Corte, con la sentenza n. 379 del 1992, al di là dello specifico caso deciso in quell’occasione, ha stabilito che i rapporti tra i due poteri debbano essere improntati al principio della “leale collaborazione”, che implica ripetute attività di concertazione, con decisione finale, in caso di persistenza del disaccordo, del Consiglio superiore[4].

Dalla giurisprudenza costituzionale possiamo trarre due conseguenze di ordine sistematico:

a) Tra i due organi esponenziali di altrettanti poteri dello Stato non esiste un rapporto né di gerarchia e neppure di generica sovrapposizione, totale o parziale, dell’uno sull’altro. Difatti la competenza sulla decisione finale riguardo agli incarichi direttivi, spettante in ogni caso al Csm, non è indice di un diverso livello dei medesimi nel sistema costituzionale, ma della prevalenza, nei casi estremi, con riguardo a quella funzione, del principio di indipendenza su quello di efficienza. Se fosse consentita, con argomentazioni basate sull’efficienza, l’interferenza paralizzante del potere governativo (politico) nelle scelte dell’organo di garanzia della magistratura, non si realizzerebbe un ragionevole bilanciamento tra gli artt. 105 e 110 Cost., ma un prevalere di fatto del potere ministeriale di organizzazione. Quest’ultimo paradossalmente si ritorcerebbe contro lo stesso principio di efficienza, rendendo, se non impossibile, quanto mai difficile superare le situazioni di stallo. Quasi – ma non del tutto, visti i tempi – inutile dire che un’eventuale attribuzione del potere finale di decisione al Ministro ribalterebbe tutta la costruzione costituzionale dell’indipendenza dell’ordine giudiziario.

È appena il caso di precisare che la distinzione concettuale tra indipendenza ed efficienza ha solo valore sistematico, giacché da essa non scaturiscono le due equazioni: csm=indipendenza, ministro=efficienza. Ben può accadere, nella prassi, che l’indipendenza sia messa in pericolo da manovre correntizie all’interno dell’organo di garanzia, e l’efficienza sia compromessa da interventi errati o inerzie ministeriali. Da singoli casi del genere – purtroppo reali e frequenti – non sarebbe corretto trarre conclusioni generali, in contrasto con la summa divisio voluta dalla Costituzione, quasi che l’inosservanza di princìpi e regole non imponesse la correzione delle prassi distorte, ma rendesse paradossalmente accettabile lo stravolgimento del sistema.

b) L’equilibrio non è “dato”, con formule astratte e fisse, dal testo della Carta, ma emerge dalla dinamica dei rapporti tra poteri, informata sì ai princìpi costituzionali, ma definita nei suoi contorni tutte le volte in cui eventuali punti di frizione impongano al legislatore ordinario e alla Corte costituzionale di riempire i vuoti di volta in volta constatati. Questi ultimi sono inevitabili e si palesano sovente, specie se si considera la dinamicità della società e della politica contemporanee, che si riflette nelle istituzioni.

Lo stesso Montesquieu, più di due secoli addietro, distingueva la separazione dei poteri in stato di quiete dall’assetto degli stessi poteri in condizioni di moto e ne traeva la conclusione che il loro “concerto” si potesse ottenere, per necessità, solo nel momento dinamico[5]. Sarebbe assurdo sostenere il contrario in un periodo storico caratterizzato da una complessità e dinamicità enormemente superiori a quelli della metà del XVIII secolo. Il senso della divisione dei poteri si può cogliere quindi nell’operare concreto delle istituzioni e deve trarsi da una visione sistemica dell’ordinamento costituzionale.

Per ritornare ai rapporti tra Csm e Ministro della giustizia, gli artt. 105 e 110 Cost. ci danno soltanto il punto di partenza per successive, e continue, operazioni di bilanciamento, giacché gli equilibri sono sempre provvisori, una volta posta l’invarianza del nucleo fondamentale di funzioni attribuite a ciascun organo dalla Costituzione.

2. La controversa natura giuridica del Consiglio superiore della magistratura

Un recente conflitto di attribuzione – non ancora definito dalla Corte costituzionale, al momento in cui scrivo queste riflessioni – ha riproposto l’annosa disputa sulla natura giuridica del Consiglio superiore della magistratura.

Non ripercorrerò un dibattito dottrinale lungo, complicato e, in buona parte, nominalistico[6]. È stato sostenuto, in modo persuasivo, che tutti i tentativi teorici di enunciare criteri certi per individuare gli organi costituzionali, e conseguentemente distinguerli da quelli che non lo sono, hanno fatto riferimento ad elementi vaghi, se non addirittura contraddittori, con esiti classificatori insoddisfacenti per eccesso o per difetto[7]. La ricerca di un elemento essenziale di identificazione per ciascun organo, allo scopo di includerlo in una categoria in sé non chiara, si è risolta in ripetuti sforzi di dimostrare obscurum per obscurius.

Il problema reale è quello di valutare il peso e l’incidenza di ciascun organo, previsto e disciplinato direttamente dalla Costituzione, sul complesso degli equilibri necessari a mantenere operante la separazione e l’incontro tra i poteri dello Stato costituzionale. La sua posizione, il suo ruolo e le sue guarentigie si traggono dalla ratio rinvenibile nelle sue funzioni, considerate sia in situazione statica che dinamica, e nelle interrelazioni con altri organi volute dalla Costituzione.

Tutto il complesso meccanismo di checks and balances,che contrassegna la vita delle istituzioni dello Stato costituzionale, per non girare a vuoto, deve essere orientato alle finalità fondamentali per cui è stato predisposto. Ciò significa che la stessa esistenza necessaria, o non, di un dato organo dipende dalla sua destinazione ad attuare o mantenere operante un principio costituzionale. Se tutti gli organi dello Stato devono essere riconducibili, direttamente o indirettamente, ad un principio costituzionale, non tutti lo sono in rapporto al nucleo fondamentale dei “princìpi supremi”, intangibile anche da parte del potere di revisione costituzionale, come ha affermato il giudice delle leggi nella ormai classica sentenza n. 1146 del 1988. L’appellativo di “costituzionali” dovrebbe spettare quindi solo a quegli organi che devono necessariamente esserci, pena la lesione di quel nucleo essenziale, la cui integrità è la vera ragion d’essere della Repubblica democratica e pluralista nata dopo il crollo del regime autoritario preesistente.

Organo costituzionale – se si vuol proprio mantenere questa categoria – è, in definitiva, quello, la cui eventuale mancanza incide, con effetti disgreganti, sul nucleo essenziale dei princìpi costituzionali; esso è, in altre parole, indefettibile rispetto ad essi. Questo criterio di individuazione non è soltanto diverso dai tradizionali e insoddisfacenti criteri della collocazione al vertice del sistema o dell’indefettibilità rispetto alla forma di governo, ma è frutto di un vero e proprio rovesciamento di prospettiva derivante dall’avvento di una Costituzione , come quella italiana del 1948, – e, dopo di essa, di tante altre costituzioni del secondo dopoguerra del XX secolo – che ha sostituito il fondamento di valore al fondamento di autorità. Tutta la costruzione si sposta dal piano soggettivo dei poteri e degli organi dotati di forza coattiva a quello dei valori fondamentali accolti dalla Costituzione vigente e trasformati in altrettanti princìpi aventi natura giuridica e potenzialità normative sempre vive. Nessun soggetto istituzionale è detentore esclusivo della sovranità, e neppure partecipe pro quota di essa, ma è solo strumento per la conservazione e lo sviluppo dei valori-princìpi contenuti nella Costituzione. Ciascun potere o organo esercita l’autorità nella misura strettamente necessaria a conseguire le finalità che ad esso sono state assegnate dalla Carta, e che segnano, nel contempo i suoi limiti invalicabili.

Se si applica il metodo prima brevemente delineato, si possono sciogliere nodi teorici – con rilevanti effetti pratici – difficilmente risolvibili per mezzo dei criteri di stampo soggettivistico propri della tradizione legata all’idea di sovranità-autorità.

Ad esempio – per ciò che riguarda il Consiglio superiore della magistratura – la risalente controversia sulla sua natura giuridica si risolve con una certa facilità, se si pensa che il Costituente lo ha voluto – come tanti altri Costituenti successivi di altri Paesi – a presidio del principio fondamentale dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, da ritenersi, senza alcun dubbio, tra i princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano e facente parte dei valori fondamentali dell’Unione europea, di cui all’art. 2 Tue[8].

La conseguenza di quanto detto è che l’introduzione del Csm può essere considerata «un “punto di non ritorno” nel disegno costituzionale, non oltrepassabile neanche da una legge approvata secondo la procedura prevista dall’art. 138 Cost.»[9].

È appena il caso di aggiungere che non è preclusa la possibilità di modificare, con legge costituzionale, la struttura e le funzioni del Csm, mentre è radicalmente da escludere la sua soppressione o la sua trasformazione in modo tale da porre di fatto l’ordine giudiziario sotto il controllo del potere politico. Quest’ultima eventualità è la più insidiosa, in quanto potrebbero sorgere infinite discussioni sul limite estremo di modificabilità, ad esempio, delle proporzioni interne tra “togati” e “laici”[10]. La forte opinabilità sui diversi rapporti numerici possibili consiglierebbe di non avventurarsi sulla strada del mutamento della proporzione fissata, con saggezza e lungimiranza, dal Costituente.

3. Si può parlare di “indirizzo politico” del Consiglio superiore della magistratura?

Nelle polemiche quotidiane della politica e in alcuni contributi dottrinali si discute di una presunta tendenza del Csm ad oltrepassare i limiti del suo status costituzionale, per approdare nell’area della direzione politica dello Stato, usurpando (o tentando di usurpare) il ruolo del Parlamento, del Governo o di entrambi.

Anche questa è una discussione risalente, come risalente è l’accusa al Consiglio di essere il “parlamentino” dei giudici. Tuttavia potrebbe essere utile qualche riflessione preliminare

La nozione di indirizzo politico è in gran parte uscita dall’attenzione della dottrina costituzionalistica non tanto per un sopravvenuto scarso interesse dell’argomento, quanto piuttosto per il venir meno del suo oggetto. Vediamo perché.

Secondo la costruzione più accreditata, l’indirizzo politico, dal punto di vista costituzionalistico, consta di tre fasi fondamentali: a) l’individuazione dei fini; b) la predisposizione dei mezzi per il loro conseguimento; c) l’attuazione. È stato pure precisato che non di “funzione” si può parlare, a proposito dell’indirizzo politico, ma di “attività”, giacché, in tutte le tre fasi, concorrono a determinarlo, concretizzarlo ed attuarlo organi appartenenti a poteri diversi, nell’esercizio di differenti funzioni dello Stato[11].

Nelle democrazie pluraliste contemporanee la funzione di direzione politica non è più concentrata nei poteri e negli organi tradizionalmente politici, per un doppio ordine di motivi:

  1. L’individuazione dei “fini ultimi” delle istituzioni non è più attribuita in via esclusiva al Parlamento e al Governo, poiché, in regime di Costituzione rigida, gli organi che tradizionalmente avevano (ed hanno tuttora) tale compito trovano, allo stesso tempo, limiti ed impulsi nei princìpi costituzionali.
  2. Le moderne teorie (e tecniche) dell’interpretazione giuridica hanno fatto tramontare l’illusione illuministica di una mera applicazione letterale delle leggi – che si volevano poche e chiarissime – ad opera di un potere giudiziario “nullo”.

Le conseguenze costituzionali di queste trasformazioni epocali sono state: a) la “detronizzazione” della legge formale nazionale dovuta all’emergere di una congerie di altre fonti – nazionali, sovranazionali e sub-nazionali – che tendono spesso ad allinearsi alla tradizionale fonte primaria, erodendo spazio al classico principio di gerarchia; b) l’attivazione di un moto “circolare” nelle istituzioni, per l’inevitabile coinvolgimento, nelle varie fasi dell’indirizzo politico, degli organi costituzionali di garanzia (Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Consiglio superiore della magistratura).

Alcuni decenni addietro, Paolo Barile introdusse nel dibattito scientifico la nozione di “indirizzo politico costituzionale”, «tendente ad attuare i fini costituzionali permanenti»[12]. Nonostante il diluvio di critiche che si è abbattuto su questa proposta teorico-sistematica, mi sembra che la stessa conservi un valore ancora attuale. Di fronte ad un serie di princìpi costituzionali espressi necessariamente in formule indeterminate – ma non per questo prive di efficacia giuridica – si deve ritenere fortemente attenuata la barriera tra individuazione dei fini, da incorporare nelle norme, e applicazione delle stesse nei casi concreti. Da una parte l’attività legislativa non è più “libera nel fine”, nel senso che il legislatore dello Stato costituzionale è vincolato, sia in senso negativo che positivo, dai princìpi costituzionali; dall’altra, la giuridicità immediata degli stessi princìpi – non riducibili a mere proposizioni politiche ottative, come dimostra la giurisprudenza costituzionale sin dal 1956 – impone al giudice di incorporarli in tutte le norme da applicare nei singoli processi, avvalendosi, ove non siano sufficienti gli ordinari strumenti interpretativi, delle possibilità offerte dal giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

Come incide questo profondo mutamento di prospettiva sul ruolo degli organi costituzionali nel sistema?

La legis latio e la legis executio continuano ad essere concettualmente distinte – per la vitalità dello Stato di diritto, “cuore antico” dello Stato costituzionale – ma nella prassi, normativa e attuativa, delle istituzioni si susseguono, quasi si inseguono, nei diversi cicli funzionali in cui si articola la dinamica dell’ordinamento[13]. I rapporti tra normazione, amministrazione e giurisdizione perdono la rigidità a priori della teoria liberale classica (peraltro mai inveratasi del tutto nella realtà) e, per così dire, si fluidificano, mantenendo tuttavia ben netti i confini in ciascun ciclo funzionale. La fertilizzazione costante operata dai princìpi costituzionali (oggi, a loro volta, integrati da quelli della Ue e della Cedu) su tutte le norme, primarie e secondarie, da applicare fa ruotare velocemente il circolo della produzione-attuazione del diritto, ben al di là di quanto si potesse supporre sino alla metà del XX secolo.

Le democrazie contemporanee basate soltanto sul dato elettorale, inteso come pura prevalenza del numero, sono “fragili” e rischiano gravi crisi di sopravvivenza, se non sorrette – rispetto a minacce autoritarie e lesive dei diritti fondamentali, che traggono forza da un consenso di massa – da istituzioni in grado di tutelare il nucleo invariante di princìpi posti a base dello stesso sistema democratico. È indispensabile un forte impianto di garanzie, che trovi il suo apice nelle corti costituzionali. La democrazia deve essere messa in condizione di non aver paura di se stessa[14].

Come risolvere allora – sulla scorta di quanto detto sinora – il problema dell’indirizzo politico di un organo come il Consiglio superiore della magistratura?

Scartata la meccanica successione di “fasi” radicalmente disomogenee e separate, ogni istituzione che contribuisce agli equilibri di potere della Repubblica – finalizzati all’attuazione pratica dei princìpi fondamentali, italiani ed europei – ha il potere-dovere di adottare un indirizzo, che può qualificarsi “politico” nella misura in cui contribuisce alla concordia discors della democrazia pluralista nei suoi momenti dinamici.

Il Consiglio superiore della magistratura, nell’ambito delle attribuzioni previste dall’art. 105 Cost., esprime orientamenti destinati ad incidere sulla qualità della giurisdizione ordinaria intesa come servizio ai cittadini, condizione indispensabile perché l’indipendenza dell’ordine giudiziario e dei singoli magistrati non rimanga un insieme di prerogative personali e corporative, ma sia garanzia di una retta amministrazione della giustizia in tutte le pieghe di una società complessa, ovunque emerga la necessità della tutela dei diritti e l’adempimento dei doveri stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi.

In questa prospettiva svanisce la distinzione tra organo costituzionale e di rilevanza costituzionale. La definizione di «organo tecnico titolare dei soli poteri di alta amministrazione che la Costituzione o la legge gli attribuiscono»[15] non vale ad escludere un indirizzo politico del Csm, giacché tutti i suoi poteri, considerati nel loro insieme, non sono la sommatoria di competenze frazionate, generatrici di atti isolati, privi di criteri ordinatori, ma si inseriscono in una policy di settore, i cui confini sono tracciabili a partire dal dettato costituzionale e dalle leggi attuative. La stessa controversia sui poteri normativi del Consiglio – di cui si parlerà al paragrafo seguente – deve essere risolta in questo quadro e non in un’astratta ripartizione di poteri, sganciata dalla collocazione contestuale di norme ed atti da esse derivanti.

Immaginare il Csm come centro produttore di singoli provvedimenti librati nel vuoto significherebbe darne una immagine del tutto corporativa, di organo attento soltanto alle guarentigie dei magistrati, coltivate e protette in un universo separato dai problemi e dalle contraddizioni della società. Del resto, i canali di comunicazione con la politica sono prefigurati dalla stessa Costituzione, in cui è previsto che un terzo dei componenti venga eletto dal Parlamento.

Se poi si vuol semplicemente dire che il Csm deve tenersi lontano dalla politica partitica, ciò si evince dall’avversione manifestata dalla Costituzione per i magistrati militanti di partito e dalle stesse attribuzioni di tale organo. L’art. 98, terzo comma, Cost., stabilisce che si possono, con legge, stabilire limiti al diritto di iscriversi a partiti politici per i magistrati. L’art. 3, comma 1, lettera b) del d.lgs n. 109 del 2006 stabilisce che costituiscono illecito disciplinare, al di fuori dell’esercizio delle funzioni, «l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici». La Corte costituzionale, nel dichiarare non fondata una questione di legittimità costituzionale della suddetta disposizione, sollevata dalla Sezione disciplinare del Csm, ha osservato che la stessa «mira a salvaguardare l’indipendente e imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie, dovendo il cittadino essere rassicurato sul fatto che l’attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica» (sentenza n. 224 del 2009).

Siamo, a questo punto, in condizione di sciogliere un equivoco: l’indipendenza dell’ordine giudiziario e la soggezione dei magistrati soltanto alla legge implica non soltanto il divieto di abbracciare posizioni politiche partitiche, per definizione “di parte”, ma comporta la restrizione alla materia giudiziaria dell’inevitabile – ed auspicabile! – coordinato e armonico esercizio delle funzioni di amministrazione della giurisdizione affidategli dalla Costituzione. La soggezione alla legge così come opera nei confronti del singolo magistrato, allo stesso modo caratterizza il Consiglio superiore della magistratura, organo di garanzia dell’intero ordine giudiziario.

La conseguenza del ragionamento sinora sviluppato è duplice: a) il Csm non può pretendere di esprimere un indirizzo politico fuori dal campo proprio dell’amministrazione della giustizia civile e penale; b) lo stesso Consiglio può e deve invece esprimere un proprio indirizzo politico in materia giudiziaria – che vale a formare l’indirizzo politico costituzionale – nel rispetto, beninteso, delle riserve di legge contenute nella Costituzione e nell’ovvio riconoscimento della superiorità della fonte legislativa, sottoposta soltanto alle norme costituzionali.

Le funzioni propositive e consultive previste dall’art. 10, comma 2, della legge n. 195 del 1958 e dell’art. 23 del Regolamento interno, nonché la Relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia, prevista dall’art. 43 del citato Regolamento interno, tutte rivolte al Ministro della giustizia, non possono che essere espressioni di orientamenti coerenti e organici, che, superando i confini dell’attività interna del Consiglio, investono problematiche generali riguardanti la giurisdizione. Sarebbe ben strano che queste funzioni potessero esplicarsi solo in modo casuale e disordinato, e non invece in coerenza di orientamenti (indirizzi appunto) derivanti da uno sforzo di progettualità. Queste proiezioni esterne dell’attività del Csm si saldano con la predisposizione e l’attuazione di linee di indirizzo sull’esercizio di funzioni specifiche del Consiglio, formando un tutt’uno. In altre parole, il Csm auspica modifiche e riforme dell’ordinamento giudiziario ed esprime pareri su questioni riguardanti il diritto sostanziale e processuale, sul presupposto che queste siano condizioni per migliorare la qualità del servizio giustizia, che rappresenta il risvolto positivo dell’indipendenza della magistratura.

Tradizionalmente è prevalsa una concezione “difensiva” dell’indipendenza; la Costituzione del 1948, le normative europee e l’evoluzione dei tempi impongono invece che si adotti una visione “attiva” dello stesso principio. Il che implica che il Consiglio superiore della magistratura abbia un “indirizzo politico”, nei limiti sinora precisati e per le finalità proprie della sua sfera di competenze complessivamente e unitariamente considerate.

4. I poteri normativi del Consiglio

Anche sull’estensione dei poteri normativi del Csm è fiorita un’abbondante letteratura e sono sorte controversie interpretative, della Costituzione e delle leggi ordinarie pertinenti, dalle quali emerge non tanto l’obiettivo di trovare una soluzione “esatta” al problema (che non esiste), ma di espandere o restringere il ruolo nel sistema dell’organo di garanzia della magistratura ordinaria,

Sin dalla Relazione della Commissione Paladin – molto rigorosa sul ruolo penetrante delle riserve di legge previste dalla Costituzione in materia di ordinamento giudiziario – si riconosceva che «l’esistenza di un organo quale il Csm rischierebbe di non avere senso, se i provvedimenti ad esso spettanti fossero del tutto vincolati alla necessaria e meccanica applicazione di previe norme di legge»[16]. La Corte costituzionale, dal canto suo, ha precisato – a proposito della nomina dei titolari degli uffici direttivi – che «dalla riserva di legge discende la necessità che sia la fonte primaria a stabilire i criteri generali di valutazione e di selezione degli aspiranti e le conseguenti modalità della nomina. La riserva non implica, invece, che tali criteri debbano essere predeterminati dal legislatore in termini così analitici e dettagliati da rendere strettamente esecutive e vincolate le scelte relative alle persone cui affidare la direzione degli […] uffici, annullando di conseguenza ogni margine di apprezzamento e di valutazione discrezionale, assoluta o comparativa, dei requisiti dei diversi candidati» (sentenza n. 72 del 1991).

Sugli spazi lasciati liberi dalla legge e potenzialmente idonei ad essere riempiti dalla normazione autonoma del Consiglio sono stata espresse negli anni diverse e contrastanti opinioni, che non mi sembra necessario oggi riprendere in dettaglio.  Nonostante i ripetuti tentativi, dottrinali, politici e legislativi (si veda, in proposito, la cd. riforma Castelli) tesi a restringere al massimo l’attività “paranormativa”[17] del Csm, quest’ultima – ad onta del nome che qualcuno le ha affibbiato – deborda da tutte le parti, con la curiosa conseguenza che in dottrina si sostiene addirittura che «le norme costituzionali “sulla” produzione giuridica in materia di ordinamento giudiziario sono state implicitamente modificate in via di prassi […]»[18].

Mi sembra eccessivo ipotizzare una consuetudine contra constitutionem, che avrebbe legittimato una prassi affermatasi nei decenni. Preferirei, più semplicemente, parlare di utilizzazione intensa di una facoltà già insita nel sistema costituzionale e scaturente proprio dalle funzioni e dal ruolo del Consiglio. Anche chi parla di «progressivo svuotamento della riserva di legge posta dall’art. 108 Cost.», riconosce che non è sempre facile distinguere il caso in cui il Csm fissa criteri di delimitazione della propria discrezionalità nell’esercizio di una competenza che la legge gli attribuisce, dalla diversa ipotesi in cui esso inserisce regole nuove (praeter legem, si potrebbe dire) nelle pieghe della disciplina legislativa primaria»[19].

Proprio in tema di conferimento degli uffici direttivi, il Csm ha prodotto uno sforzo notevole di razionalizzazione, oltre che di riduzione, della propria discrezionalità, applicando due princìpi fondamentali nel nuovo «Testo unico sulla dirigenza giudiziaria» del 2015: meritocrazia ed efficienza[20]. Il Consiglio ha voluto così dare seguito alle sollecitazioni provenienti dai Presidenti Napolitano e Mattarella, che avevano sottolineato sia l’esigenza di anteporre i requisiti attitudinali e di merito alle “appartenenze” dei magistrati aspiranti ad incarichi direttivi, sia la necessità di snellire e accelerare i procedimenti volti a coprire i posti vacanti. Si tratta di princìpi ben presenti nella Costituzione: basti pensare all’art. 34, secondo comma, e all’art. 97, secondo e quarto comma, dai quali emerge l’applicabilità in tutti campi del principio di eguaglianza, del criterio del merito come unico indice di distinzione in una Repubblica democratica e della necessaria efficienza della pubblica amministrazione, ivi compresa quella posta a ridosso delle funzioni giurisdizionali. L’affermarsi di un indirizzo politico di attuazione di princìpi costituzionali dovrebbe evitare che le nomine avvengano disordinatamente e in obbedienza a criteri corporativi o, peggio, “di cordata”, che trovano maggior spazio in una prassi sregolata sul piano sostanziale e procedurale.

L’esperienza ci dirà quanto questa opportuna razionalizzazione normativa servirà a superare la perniciosa prassi dei “pacchetti” nelle nomine, contrari sia al criterio del merito che a quello dell’efficienza, giacché da una parte subordina la valutazione di professionalità e di attitudini all’equilibrio tra le correnti e dall’altra rallenta la copertura delle vacanze anche in importanti uffici giudiziari. L’esperienza futura dirà pure se sono fondate le speranze che il nuovo Regolamento interno del Consiglio, ridefinendo i rapporti tra Commissione e plenum, possa eliminare la prassi dei “pacchetti” anche nel settore dei trasferimenti e delle assegnazioni di sedi[21].

Più delicato è il settore dell’organizzazione interna delle procure e dei criteri per l’esercizio dell’azione penale, qualificata, come è noto, obbligatoria dall’art. 112 della Costituzione.

Il Csm ha deliberato, in data 16 novembre 2017, una «Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura», caratterizzata da un notevole sforzo di organicità, in cui si mira, come chiarito dalla Relazione introduttiva, alla «procedimentalizzazione dei percorsi decisionali». Quando ancora la suddetta circolare era in corso di approvazione era stato notato che la stessa conferma la tendenza del Csm ad allentare i vincoli gerarchici all’interno delle procure rispetto alle norme primarie contenute nel d.lgs n. 106 del 2006. La conferma di tale orientamento porrebbe – pur nella condivisibilità degli obiettivi perseguiti dal Consiglio – in forme diverse rispetto al passato, il problema dell’individuazione dei confini tra legislatore e Csm nella disciplina dell’ordinamento giudiziario[22].

Questo problema è destinato a riproporsi sempre, se non si tiene conto dell’insegnamento della citata sentenza n. 72 del 1991 della Corte costituzionale. Il d.lgs n. 106 del 2006 pone una serie di princìpi e regole generali molto sinteticamente enunciati, che, per essere concretamente applicabili, richiedono specificazioni procedimentali e organizzative più dettagliate.

Non sembra che vi sia un contrasto tra norme primarie e normativa di dettaglio del Csm, anche per quanto riguarda il campo, molto delicato, dei rapporti tra procuratori della Repubblica e Consiglio, giacché nello stesso atto legislativo è previsto che i provvedimenti dei primi, adottati sull’organizzazione dell’ufficio, sull’assegnazione dei procedimenti e sulle tipologie di reati per i quali si preveda l’assegnazione automatica, siano «trasmessi» al Csm. Poiché l’organo di garanzia della magistratura ordinaria non è un ufficio statistico, la trasmissione implica, come naturale conseguenza, un’interlocuzione, anche per porre le condizioni di realizzare, almeno nelle grandi linee, una certa uniformità in tutta Italia, in ossequio al principio di eguaglianza. Le osservazioni e i rilievi del Csm non hanno un effetto vincolante per i procuratori, ma servono al Consiglio per una più documentata valutazione dei capi delle procure in occasione di altri incarichi o di rinnovo di quelli in scadenza.

Assetto gerarchico degli uffici del pubblico ministero non significa signoria assoluta dei procuratori, che sono invece tenuti ad attivare canali continui di comunicazione, interlocuzione e coordinamento all’interno degli uffici e a tener conto delle osservazioni del supremo organo di garanzia. Tali osservazioni potranno essere consapevolmente disattese se, a giudizio dei procuratori, siano tali da introdurre elementi di disturbo nell’indipendente e imparziale esercizio dell’azione penale o prescrivano misure irrazionali dal punto di vista organizzativo. Non sembra che l’interlocuzione prevista dalla citata circolare sia di natura gerarchica, ma che risponda invece alla necessità di raccordo, sostegno e coordinamento senza dubbio spettante al Consiglio, nel rispetto delle norme di legge vigenti.

Quanto ai rapporti con le fonti primarie, è fin troppo chiaro che il legislatore può sempre attrarre a sé le discipline di dettaglio oggi oggetto del potere normativo del Csm. Tale potere non può ovviamente incidere in modo riduttivo sulla competenza normativa generale del Parlamento, anche perché non esiste in Costituzione una riserva in favore del Csm, salvo forse riguardo al Regolamento interno, data la natura costituzionale dell’organo (o di “sicuro rilievo costituzionale”; il che, come abbiamo visto prima, è la stessa cosa).

In definitiva, il Consiglio, come ogni altra pubblica istituzione chiamata all’applicazione della legge, deve dare di quest’ultima un’interpretazione costituzionalmente orientata e ciò deve fare, sino a quando lo stesso legislatore non impone una diversa disciplina con norme di rango superiore. I confini tra i due tipi di normazione sono mobili e sono stabiliti, esplicitamente o implicitamente, dal legislatore stesso, ovviamente, a sua volta, nel rispetto della Costituzione. È appena il caso di aggiungere che il rispetto di entrambi i confini è affidato, come per tutti gli atti dei pubblici poteri, alla giurisdizione comune e costituzionale. Al di là delle “deplorazioni” – che talvolta appaiono venate di pregiudizi politici – esistono nell’ordinamento i rimedi per le eventuali esorbitanze.

5. Il sistema elettorale e il ruolo delle correnti

Il problema del sistema elettorale più “adatto” alla selezione dei componenti “togati” del Consiglio superiore della magistratura non è questione tecnica da lasciare agli specialisti del settore (che peraltro, negli ultimi decenni, non hanno dato prove brillanti), ma si pone al centro della discussione, giacché ogni proposta è legata ad una certa concezione dell’organo.

Comincio subito con il dichiarare che mi sembrerebbero da scartare i sistemi maggioritari, puri o attenuati che siano. È strano che il sostegno ai sistemi maggioritari – come quello attualmente in vigore –  provengono, in alcuni casi, da osservatori critici delle prassi del Csm, accusato di essersi trasformato nel “parlamentino” dei giudici. Il sistema maggioritario, invero, serve (o, meglio, dovrebbe servire) a garantire una maggioranza stabile e precostituita dagli elettori. Tutto il contrario rispetto alla natura del Consiglio, che dovrebbe sviluppare il proprio indirizzo politico-giudiziario secondo maggioranze non precostituite in blocchi contrapposti, ma legate ai convincimenti personali dei componenti. Che poi vi possano essere convergenze o divergenze non puramente occasionali, ma derivanti da comuni orientamenti ideali e culturali, non solo non contraddice lo “spirito” dell’organo di garanzia della giurisdizione ordinaria, ma lo esalta, poiché il pluralismo delle idee è certamente più conforme allo “spirito” della Costituzione di quanto lo possano essere momentanee aggregazioni opportunistiche. Ciò che conta è spezzare impropri “vincoli di mandato”, che darebbero al Csm un’impronta rappresentativa – senza peraltro un art. 67 Cost. per attenuarla – che esso non deve assumere, a pena di pericolosi slittamenti verso una politicizzazione in senso deteriore.

Non mi soffermo più di tanto sul sistema del sorteggio – per la cui introduzione sarebbe necessaria una legge di revisione costituzionale – che mi sembra il più irrazionale di tutti, giacché sottrarrebbe gli eletti ad ogni valutazione di capacità da parte degli elettori e non contribuirebbe peraltro ad evitare le trattative correntizie, ma solo di affidarle al caso, aggiungendo una forte componente personale di chi, sentendosi svincolato da ogni responsabilità, potrebbe regolarsi – com’è avvenuto in ambito universitario – sul motto “ora o mai più”.

I sistemi proporzionali presentano in effetti l’inconveniente di privilegiare, in caso di scrutinio di lista, le correnti organizzate, che, da anni ormai, sono andate incontro ad una pericolosa degenerazione. È stato giustamente osservato che il processo involutivo delle correnti deriva «dal fatto che si sono progressivamente attenuati i riferimenti ideali e politico-programmatici delle associazioni, soppiantati da una logica corporativo-sindacale, che tende a premiare il singolo magistrato non sempre, come dovrebbe essere, per i suoi meriti, ma spesso per la sua appartenenza e per la fedeltà al rispettivo gruppo di appartenenza»[23].

Il sistema proposto dalla Commissione Scotti, che ha ultimato i suoi lavori nel 2016, tenta di mettere insieme maggioritario e proporzionale, prevedendo sia collegi territoriali che un collegio nazionale. Le votazioni dovrebbero essere articolate in due turni, il primo maggioritario, su base territoriale, il secondo, proporzionale a liste concorrenti, su base nazionale. È stato giustamente osservato che il sistema proposto, pur partendo da lodevoli intenti, risulta farraginoso e non garantisce una diminuzione di influenza delle correnti organizzate nelle elezioni[24].

Detto questo, bisogna riconoscere che non esiste, per l’elezione dei membri del Csm, un sistema ottimale esente da inconvenienti, così come non esiste per qualunque tipo di elezioni. Si tratta di vedere quale potrebbe essere una soluzione più equilibrata (o meno squilibrata) rispetto alle diverse esigenze in gioco.

Il bilanciamento fondamentale è quello tra conservazione del pluralismo ideale e culturale – esistente nel corpo della magistratura e non esorcizzabile, per fortuna, con marchingegni elettorali – e valorizzazione delle capacità e dell’indipendenza dei singoli magistrati.

In varie sedi, sin da anni ormai lontani[25], ho proposto di utilizzare come traccia ispiratrice il vecchio sistema elettorale del Senato, che coniugava visibilità dei singoli candidati e sistema proporzionale temperato nell’assegnazione dei seggi. Tralasciata ovviamente la dimensione regionale, da escludere per ovvi motivi nel caso del Csm, si potrebbe dividere il territorio nazionale in tanti collegi quanti sono i magistrati da eleggere, esclusi quelli di legittimità, da concentrare in collegio apposito. I candidati singoli, non raggruppati in liste, dovrebbero collegarsi con almeno due candidati di altri collegi, al fine di costituire un gruppo, punto di riferimento in sede di distribuzione dei seggi, da effettuarsi, su scala nazionale, con il sistema proporzionale, metodo d’Hondt. Come è noto, questo metodo non produce resti e quindi, pur rimanendo proporzionale, evita la frantumazione estrema del proporzionale puro.

Sorvolo su ulteriori aspetti tecnici, che potrebbero trovare approfondimento in una trattazione specifica.

I vantaggi di un sistema come quello ora proposto mi sembrano fondamentalmente tre.

Esso:

  1. manterrebbe il ruolo delle correnti, da non demonizzare, anche di fronte alle rilevate degenerazioni;
  2. escluderebbe la formazione di liste concorrenti nello stesso collegio, evitando la “caccia alle preferenze” dei candidati della stessa lista;
  3. metterebbe in primo piano la personalità dei candidati nei collegi uninominali – tutti territoriali, tranne quello riservato ai giudici di legittimità – senza sfociare nel sistema maggioritario, non adatto al Csm e peraltro inefficace rispetto agli aspetti peggiori del correntismo giudiziario.

Nella prospettiva di un sistema come quello proposto, mi sembrerebbe da abolire la distinzione tra requirenti e giudicanti, non prevista dalla Costituzione e introdotta dalla legge vigente come pallido surrogato della auspicata – da talune parti politiche – separazione delle carriere. Il riferimento dell’art. 104, quarto comma, Cost. ai magistrati appartenenti alle varie categorie non andrebbe inteso, a mio parere, come prescrizione di una rappresentanza ipercorporativa dei magistrati secondo categorie predeterminate dalla legge elettorale, ma, al contrario, la eleggibilità di tutti magistrati, a qualunque “categoria” appartengano e quali che siano le funzioni che svolgono. Ciò rappresenta la vera cesura con il passato “gerarchico” dell’ordine giudiziario.

L’unica eccezione è – s’è già detto – rappresentata dai giudici di legittimità, cui deve essere riservata una quota di seggi in ossequio alla peculiare posizione della Suprema Corte, emergente dallo stesso testo costituzionale (artt. 106, terzo comma; 111, settimo comma; 135, primo e secondo comma) e come stabilito in una pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 87 del 1982).

Mi rendo conto che si possono avanzare critiche e riserve di varia natura sulle quali, per brevità, non mi dilungo in questa sede. L’idea di fondo – conciliazione del sistema proporzionale e della valorizzazione della personalità dei candidati, anche al di fuori delle correnti – mi sembrerebbe però da coltivare.

Recentemente è stata presentata alla Camera dei deputati una proposta di legge mirante ad introdurre la doppia preferenza di genere (n. 4512, Ferranti e altri). La chiusura della legislatura ha impedito che tale proposta proseguisse nel suo iter. Si tratta di un problema serio, di attuazione dell’art. 51, primo comma, Cost., a proposito di un organo elettivo, come il Csm, che ha visto nei decenni una bassissima percentuale di donne tra i suoi componenti. La proposta è calibrata sul sistema elettorale vigente. Ove quest’ultimo cambiasse nel senso prima auspicato, i collegi da uninominali dovrebbero diventare binominali – riducendoli da 15 a 8 ed aumentando di due unità l’attuale composizione numerica del Consiglio – con possibilità per gli elettori di esprimere due voti per candidati di sesso diverso non necessariamente facenti parte dello stesso gruppo di candidati collegati sul piano nazionale. Ciò non solo avrebbe una funzione promozionale verso la realizzazione delle pari opportunità donna-uomo, ma potrebbe ulteriormente contribuire ad allentare i vincoli correntizi.

Nessuna riforma del sistema elettorale potrà prendere il posto di uno sforzo culturale della magistratura italiana in direzione di una riconduzione delle correnti nell’ambito del pluralismo ideale e politico-istituzionale. La loro definitiva trasformazione in centri di potere, che trovano nel Csm uno snodo fondamentale per pratiche clientelari e spartitorie, sarebbe una sciagura per l’indipendenza dell’ordine giudiziario. Non siamo ancora a questo punto, ma sarebbe frutto di miopia negare il problema anziché tentare di risolverlo.

6. Gli organi equilibratori

Un organo a struttura complessa, come il Csm, ha necessità di trovare molteplici equilibri al suo interno, allo scopo di non tradire la funzione di garanzia assegnatagli dalla Costituzione.

Sulla dialettica tra componente “togata” e componente “laica”, voluta dal Costituente, non mi soffermo, giacché molto si è scritto e poco vi è da aggiungere alla fondamentale considerazione che l’inserimento di membri eletti dal Parlamento serve ad evitare la chiusura autoreferenziale dell’ordine giudiziario.

Mi sembra più utile una sintetica visione d’insieme dell’incrocio “virtuoso” che dovrebbe verificarsi all’interno dell’organo tra il suo Presidente, che è il Capo dello Stato, il Vicepresidente, eletto dal Consiglio tra i membri “laici”, e il Comitato di presidenza, costituito dal Vicepresidente e dai due membri di diritto, Primo presidente della Corte di cassazione e Procuratore generale presso la stessa Corte.

Senza entrare nei particolari delle singole funzioni e degli specifici rapporti, mi sembrano da mettere in rilievo alcuni punti fondamentali:

  1. Il Presidente della Repubblica svolge, all’interno del Csm, la stessa funzione di stimolo e moderazione che la Costituzione gli attribuisce in generale nel sistema. Non può identificarsi con nessuno schieramento, di maggioranza o di minoranza, anche momentaneo e parziale, né far valere il suo peso istituzionale per far prevalere una proposta o un’altra nella dialettica consiliare. Al Presidente è inoltre attribuita la fondamentale funzione di raccordo tra la magistratura ordinaria e tutti gli altri poteri dello Stato, sia allo scopo di difendere l’indipendenza della prima contro attacchi o interferenze, da qualunque parte provengano, sia allo scopo di contenerne le esorbitanze, ovviamente al di fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie.
  2. Il Vicepresidente è un organo “bifronte”; egli rappresenta il Consiglio presso il Presidente e il Presidente presso il Consiglio e svolge un ruolo di primo piano nella programmazione e nella direzione dei lavori del Consiglio.
  3. Il Comitato di presidenza, come precisa l’art. 8, comma 1, del Regolamento interno, «promuove le attività del Consiglio e dà attuazione alle relative decisioni.» Esso si pone – in quanto organo collegiale e indipendentemente dalle facoltà di cui dispongono individualmente i suoi membri – a monte e a valle dei lavori del Consiglio, ma non ne può assumere la rappresentanza, che non è prevista da alcuna norma costituzionale e sarebbe, in sé e per sé, un controsenso, visto che è composto in maggioranza da membri non elettivi rispetto ad un organo in gran parte elettivo.

 

L’armonico funzionamento dei suddetti organi equilibratori dovrebbe assicurare l’assorbimento non traumatico nel sistema degli inevitabili, e fisiologici, conflitti, che sorgono in un collegio essenzialmente democratico, basato, come tutte le istituzioni della Repubblica, sull’integrazione continua dei due princìpi fondamentali di libertà e uguaglianza. Nulla tuttavia può sostituire quella “saggezza” (wisdom) che, sin dai primordi della Costituzione degli Stati Uniti d’America, consente il funzionamento di un meccanismo complesso di pesi e contrappesi creato per impedire che qualunque potere, organo, autorità possa assumere il predominio sugli altri e diventare così “tiranno”, seppur in nome del popolo sovrano. Ciò vale per tutti i poteri dello Stato, ivi compreso quello giudiziario.

[1] Cfr. D. Piana – A. Vauchez, Il Consiglio superiore della magistratura, Bologna, il Mulino, 2012, pp. 14 ss., e ivi bibliografia anteriore sul punto. Per il più ampio dibattito di quegli anni, anche al di fuori dell’Assemblea costituente, cfr. A. Meliconi, Storia della magistratura italiana, Bologna, il Mulino, 2012, pp. 275 ss.

[2] A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Torino, Einaudi, 1990, pp. 95 ss.

[3] Cfr. sentenze n. 86 del 1982 e n. 18 del 1989.

[4] Il principio ed i metodi per attuarlo sono stati confermati da tutta la giurisprudenza successiva: cfr. sentenze n. 419 e 435 del 1995, n. 380 del 2003.

[5] Montesquieu (Charles-Louis de Secondat, baron de la Brède et de Montesquieu), Lo spirito delle leggi, ed. it. a cura di S. Cotta, Torino, Utet, 1978 (rist. II ed.), L.XI, cap. VI, p. 288.

[6] Cfr. S. Bartole, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Padova, Cedam, 1964, pp. 63 ss. Una recente sintesi delle diverse proposte teoriche avanzate dalla dottrina nel corso degli ultimi decenni si può trovare in V. De Santis, Interrogativi “antichi” su “nuovi” conflitti tra poteri: l’autonomia del Consiglio superiore della magistratura e la giurisdizione contabile della Corte dei conti, in AIC – Osservatorio costituzionale, fasc. 1/2017.

[7] Cfr. T. Martines, Organi costituzionali: una qualificazione controversa (o, forse, inutile), (1996), ora in Opere, Milano, Giuffrè, 2000, vol. I, pp. 607 ss.

[8] La Commissione europea ha approvato, l’11 marzo 2014, una Comunicazione al Parlamento europeo e al Consiglio dal titolo «Un nuovo quadro dell’Ue per rafforzare lo Stato di diritto», nella quale si riafferma la tutela dello Stato di diritto e, nel suo ambito, la «indipendenza e imparzialità del giudice»; si prevede altresì una procedura atta a far rispettare i princìpi propri di tale forma di Stato di fronte a «minacce sistemiche». Tale procedura può arrivare sino all’estremo limite dell’applicazione dell’art. 7 Tue, con le gravi misure da esso previste, che possono comportare la sospensione di alcuni diritti derivanti dai Trattati allo Stato membro responsabile delle infrazioni. Sullo stesso tema è stata approvata, il 25 ottobre 2016, dal Parlamento europeo una Risoluzione con la quale si prospetta l’adozione di un accordo interistituzionale sulle misure concernenti le procedure di monitoraggio e seguito sul rispetto della democrazia e dello Stato di diritto e i diritti fondamentali. Sulla base della Comunicazione di cui sopra, è sorta una controversia tra la Commissione e lo Stato polacco, dopo l’emanazione, da parte di quest’ultimo, di alcune leggi miranti a portare i giudici sotto il controllo del potere esecutivo, anche mediante riforma dell’organo di garanzia della magistratura previsto in quell’ordinamento. La riforma attribuisce la nomina dei componenti di tale organo alla Camera dei deputati a maggioranza semplice.

[9] C. Salazar, Il Consiglio superiore della magistratura e gli altri poteri dello Stato: un’indagine attraverso la giurisprudenza costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2007.

[10] L’incertezza sui rapporti numerici traspare dalla sentenza n. 16 del 2011 della Corte costituzionale – resa però sul Consiglio di presidenza della Corte dei conti che non gode di copertura costituzionale specifica – che ha lasciato aperto il problema per le magistrature speciali, affidate parzialmente alla competenza del legislatore ordinario e, ancor più, per la magistratura ordinaria, di competenza del legislatore costituzionale.

[11] Ci si riferisce alla ormai classica trattazione di T. Martines, Indirizzo politico (1971), ora in Opere,, I, cit., pp. 408 ss. In passato l’argomento è stato trattato con intensità dalla dottrina costituzionalistica, dal famoso saggio di V. Crisafulli, Per una teoria giuridica dell’indirizzo politico (1939) ora in Prima e dopo la Costituzione, Napoli, Editoriale Scientifica, 2015, pp. 1 ss., alle approfondite trattazioni di E. Cheli, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano, Giuffrè, 1968; M. Dogliani, Indirizzo politico. Riflessioni su regole e regolarità nel diritto costituzionale, Napoli, Jovene, 1985. Con il passare degli anni, le riflessioni sul tema si sono rarefatte, quasi a rispecchiare il pessimismo della teoria giuridica di fronte alla crescente incapacità delle forze politiche di elaborare programmi coerenti e di attuare confuse e generiche promesse elettorali. Ciò non rende tuttavia inutile l’utilizzazione di questa categoria concettuale, giacché spetta al giurista – ed al costituzionalista in particolar modo – tenere vivo l’interesse sul “dover essere”, senza appiattirsi sulla rilevazione acritica dell’esistente. Sembra quasi che, con l’accusa alla magistratura, specie al Csm, di avere un indirizzo politico, la politique politicienne voglia far carico ad altri di ciò che essa stessa non è più in grado di fare.

[12] P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica (1958), riprodotto in Scritti di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1967, p. 271.

[13] Su questo punto, mi sia consentito di rinviare a G. Silvestri, La separazione dei poteri, II, Milano, Giuffrè, 1984, pp. 262 ss.

[14] S. Issacharoff, Fragile Democracies. Contested Power in the Era of Constitutional Courts, New York, Cambridge University Press, 2015, p. 35.

[15] N. Zanon – F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, Zanichelli, IV ed., 2014, p. 44.

[16] Relazione della Commissione presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura, in Giurisprudenza costituzionale, 1991, p. 992.

[17] Il termine è poco rigoroso sul piano teorico, giacché una funzione o un’attività produce norme o non le produce. Il prefisso “para” crea ulteriore confusione, senza dare alcun contributo a risolvere il problema della natura giuridica delle discipline contenute negli atti consiliari.

[18] A. Pace, I poteri normativi del Csm, in Rivista AIC, 2010.

[19] N. Zanon – F. Biondi, op. cit., pp. 46 e 49.

[20] Circolare n. P-14858 del 28 luglio 2015 – Delibera del 28 luglio 2015 e successive modifiche.

[21] Cfr. D. Piccione, Il Consiglio superiore della magistratura attraverso il prisma del suo regolamento, in Rivista AIC, n. 4/2017.

[22] F. Dal Canto, Le trasformazioni della legge sull’ordinamento giudiziario e il modello italiano di magistrato, in Quaderni costituzionali, 2017, p. 692.

[23] M. Volpi, Il Consiglio superiore della magistratura tra modello costituzionale e ipotesi di riforma, in Scritti in onore di G. Silvestri, Torino, Giappichelli, 2016, III, p. 2625.

[24] Cfr. G. Marra, La proposta di riforma della legge elettorale del Csm secondo la Commissione Scotti, in La Magistratura, 2017, n. 1-2.

[25] Cfr. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, Giappichelli, 1997, p. 180; Idem, L’indipendenza della magistratura come ordine. Il Csm e le sue funzioni “politiche”. Il problema della sua composizione e quello del vincolo sostanziale di mandato nei confronti del Parlamento, dei partiti e delle correnti della magistratura, in Magistratura e politica, a cura di S. Merlini, Bagno a Ripoli, Passigli, 2016. pp. 136 ss.

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