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Idy Diene e la mappa di al-Idrissi

Gianluca Solera il . Toscana

diene-1030x615Monday vende le sue cose davanti a un baretto del quartiere di Rifredi. È nigeriano e sorride sempre. Facciamo colazione insieme, quando non sono di fretta. Come a molti altri suoi connazionali che vivono di vendita ambulante, gli è stato assegnato il marciapiede davanti a un locale, e ne conosce ormai i clienti abituali, che vengono a bere il caffè la mattina. Quando passi davanti al baretto e non lo incontri, è come se quel giorno non ci fosse la titolare dietro il banco.

Monday è un nome comune, nelle famiglie numerose con i giorni della settimana si risolve il problema della scelta dei nomi di battesimo. È un poco come quei nomi che circolavano tra i nostri nonni, Primo, Secondo, ecc. Monday è in Italia perché voleva rifarsi una vita, lasciando un Paese in crisi e in subbuglio.

Nel 1154 il geografo arabo al-Idrissi disegnò il mondo per conto del  normanno Ruggero II, che regnava dalla reggia di Palermo. La mappa di al-Idrissi è bellissima, minuziosa e lucente, gialla e azzurra, con quei continenti dalle forme strane, i fiumi che rappresentavano le culle nelle nazioni, i porti come bussole lungo le coste, e le montagne che marcavano le frontiere. A prima vista, quella mappa ti disorienta, neanche un libro di viaggi dell’epoca ti aiuta a riconoscere i luoghi, e questo per una ragione molto semplice: il Nilo sta in alto a sinistra, e l’Ebro e il Rodano in basso a destra. Ovvero, il Sud stava in alto e il Nord in basso. Era quella la geografia del potere e della civiltà in quell’epoca.

Ora, immaginiamoci che anche oggi il Nord fosse il Sud, e viceversa. Davanti ad un locale alla moda di Dakar, un giovane fiorentino vende pelli conciate alla maniera toscana e calze made in China, e i frettolosi clienti dei palazzi ministeriali senegalesi si fermano e gli sganciano qualche moneta prima di rinfrescarsi con un succo di mango fresco. Quinto, questo il nome del ragazzo, è arrivato in Senegal, attraversando lo stretto che separa la penisola iberica dal Regno del Marocco di notte, pagando i trafficanti maltesi, conosciuti per dominare il mercato della tratta. Quinto è uno dei tanti abitanti del Regno d’Italia che cercano di rifarsi una vita nell’Africa Occidentale, una delle aree dove lo sviluppo economico è stato più espansivo negli ultimi trent’anni. Dakar, i cui palazzi sono secondi solo alle torri delle città del Golfo Persico, è ormai la capitale mondiale della moda giovane, dove si danno appuntamento ogni anno stilisti, case di moda, grandi produttori di tessuti e modelle. Quinto, dopo anni di gavetta, è riuscito a “appaltare” il marciapiede di Chez N’Diaye, uno dei gran caffè più in della città.

Quel 5 marzo, però, le cose hanno preso una piega tragica. Rientrando a casa, Quinto ha trovato la morte nel modo più inatteso possibile. Camminando sulla Corniche di Dakar, lungo l’oceano, è stato colpito con un’arma da fuoco. A freddarlo, sono stati tre colpi. Secondo gli inquirenti, l’omicida, Mamadou Nangane, avrebbe dichiarato di volere inizialmente spararsi e buttarsi in mare per porre fine a una vita di preoccupazioni. Nangane aveva perso tutti i suoi capitali dopo alcuni investimenti finanziari disastrosi, e in preda ai debiti, e timoroso di non trovar più un’attività professionale che gli garantisse lo stesso tenore di vita, avrebbe deciso di suicidarsi con un atto plateale. Sulla Corniche, però, avrebbe tentennato, e in preda all’angoscia avrebbe deciso di sparare al primo che passasse per poter passare quindi il resto della propria vita all’ergastolo. La procura non esclude tuttavia il movente razziale o razzista. Nangane, prima di sparare, ha infatti fatto passare sul lungomare una famiglia con bambini ed almeno altre tre persone, tutte di colore. Con Quinto, straniero bianco, non ha più esitato. Il movente razziale è giustificato dal fatto che il Senegal aveva appena vissuto un’odiosa campagna elettorale, dove le forze politiche del Paese non hanno risparmiato colpi bassi e proclami xenofobi accusando gli immigrati europei di voler “invadere” i Paesi dell’Unione africana per sfuggire alla disoccupazione lavorativa e all’instabilità politica che devastano il continente europeo da decenni. Il gesto di Mamadou non sarebbe dunque stato quello di un pazzo isolato, bensì il risultato di un clima sociale avvelenato, in cui il capro espiatorio su cui rovesciare la violenza repressa è rappresentato dagli immigrati europei. Quinto lascia la moglie Anna Rita, il cui dolore è duplice dopo aver perso il primo marito sette anni prima durante un’aggressione armata contro un gruppo di immigrati italiani da parte di due esponenti della Falange della Nazione senegalese, un gruppo radicale di ispirazione fascista.

La rappresentazione del geografo al-Idrissi ci ricorda dell’effimerità dei destini di popoli e nazioni, della banalità della nostra presunzione di superiorità, di precedenza, che ci permette di sfogare le nostre frustrazioni di vittime dell’ideologia nazionale e della spietata concorrenza del mercato del lavoro capitalistico su chi è inferiore, chi non ha la priorità (perché non italiano, non europeo). Se Gianluca Casseri, l’autore dell’eccidio di piazza Dalmazia del 2011, era impregnato di odio suprematista di matrice ideologica, Roberto Pirrone, colui che ha assassinato Idy Diene la settimana scorsa sul ponte Vespucci, era un poveraccio senza trascorsi militanti, e a quanto pare senza lavoro. Il nero, però, l’aveva visto bene – come non vederlo su un ponte dove i soli altri passanti erano bianchi? Insomma, una guerra tra poveri.

«Quando è troppo, è troppo» – ha dichiarato uno dei ragazzi senegalesi di Firenze intervistati dopo l’omicidio. È troppo per chi? Per loro, che hanno ormai paura a girare per strada da soli, oppure per noi, che siamo costretti a ascoltare plaudenti concittadini che esultano alle promesse elettorali di chi giura che, una volta al governo, quelli, i neri, li butterà a mare?

«Oggi sto male, male, male» – scriveva su Facebook dopo i fatti di ponte Vespucci un altro ragazzo africano che offre assistenza sindacale ai ragazzi arrivati dopo di lui. «Ho male, male dentro, perché vivo nella paura, nel senso che ora la vita di un migrante nero è pari a zero». E spiega che per molti neri africani la situazione è delicata; aspettano anche quattro anni per poter avere un documento definitivo[1]. E pensare che non era nemmeno il caso di Diene, in Italia da vent’anni. «In questo momento, mi interessa solo ricordare alla gente che anche i neri hanno partecipato allo sviluppo di molti stati europei e americani». È anche colpa loro, dei neri, schiavi o braccianti a basso prezzo, se la mappa di al-Idrissi ha cambiato orientamento e in alto sta ora il Nord, e non il Sud!

Il 27 agosto scorso, ero stato alla Santa Messa celebrata da don Massimiliano Biancalani, parroco a Pistoia, quella domenica in cui ricevette la visita di una nutrita delegazione di Forza Nuova, venuta a vegliare che il parroco restasse nell’ortodossia. La chiesa era piena di persone sopraggiunte a manifestare la loro solidarietà al prete dopo le minacce di Forza Nuova. Don Biancalani aveva aperto le porte della sua parrocchia agli immigrati. Loro, i fascisti, erano venuti a vigilare sulla cattolicità del parroco. Durante la celebrazione, mi aveva incuriosito quella loro compostezza, quella plastica ritualità da buoni chierichetti con cui hanno seguito la liturgia, quelle mani giunte in preghiera come negli angioletti dei pittori rinascimentali. Su un punto, avevano però sgarrato dal protocollo: al momento dello scambio del segno della pace, sono rimasti impietriti, impassibili sulle loro panche. Proprio al momento della verità, nel momento in cui l’amore dovrebbe superare ogni convenzione, proprio in quel momento non hanno mosso un solo muscolo, incapaci di mostrare empatia.

Non ho scorto Monday alla manifestazione di solidarietà per l’assassinio di Diene convocata il 10 marzo a Firenze, forse perché lui è di Pîstoia come don Biancalani, vive in un campo là, ed ha paura ad esporsi. Monday sarà uno dei tanti che, pur di non subire ritorsioni, preferisce tenere la bocca chiusa, anche quando la rabbia grida dentro la sua anima. Gli altri hanno parlato per lui. Oppure c’era… Anzi, sono sicuro che ci fosse, ma le migliaia di persone che hanno manifestato sui Lungarno, ben di più di quanto mi aspettassi, hanno impedito che ci incontrassimo. «Questa è l’Italia che mi piace» – ha commentato un fotografo in testa al corteo. Quinto, invece, non ha potuto esserci: le peripezie della Storia non gli hanno permesso di esistere. I nostri Quinto sono già morti sui piroscafi che tentarono di attraversare l’Atlantico, nei cantieri dove la manodopera era pagata poco e la sicurezza non esisteva, o nei linciaggi anti-stranieri. Nel 1893, lavoratori francesi attaccarono dei lavoratori immigrati italiani impiegati nelle saline di Aigues-Mortes, uccidendone diversi. A cavallo tra il XIX ed il XX secolo, molti italo-americani furono vittime di violenza razziale, che si manifestavano in linciaggi e aggressioni armate. Nel 1919 e nel 1934, rivolte di stampo razziale esplosero tra i minatori bianchi australiani e dell’Europa meridionale, tra cui gli italiani, nella regione mineraria di Kalgoorlie, provocando numerosi danni e vittime[2]. Tutti questi lavoratori scappavano dai Paesi del Mediterraneo per alimentare la riserva di manodopera del nuovo Capitale. Erano visti come una minaccia, come usurpatori, la classe lavoratrice locale temeva la loro concorrenza, e gli argomenti di stampo razziale erano il miglior combustibile dell’odio sociale.

Abbiamo qualcosa da imparare da tutte queste storie, così umanamente simili e geograficamente distanti? Sì: che siamo pronti a dimenticare troppo velocemente. Avremo mille scuse per giustificare il nostro oblio, mille ragioni per non sentirci razzisti e per prendercela con chi non si adegua ai nostri usi e costumi. Tante ragioni per dire che è colpa loro se le nostre città sono sporche e i nostri figli senza lavoro. Alla manifestazione del 10 marzo, vi era un clima di mobilitazione che evocava a tratti una potenziale contrapposizione bianchi – neri, e riportava indietro agli anni di Martin Luther King. Non è stata una sensazione piacevole. Nel 1973, Steve Wonder mise in musica Living for the City, una stupenda canzone che racconta dei neri del Mississippi che devono lottare ogni giorno per un poco di dignità e di lavoro, perché dove uno di loro vive «they do not use colored people». Il protagonista della canzone emigra a New York per tentare la sorte, ma conosce la galera ed è costretto a passare la vita sulla strada. Sulla sua pelle vive il razzismo e il classismo di quella società. Come molti dei nostri Vu Cumprà, purtroppo. Sarebbe bello che qualche cantautore italiano raccontasse di questa nuova stagione, dove si esce di casa con una pistola e si spara al primo nero che incontri anche nelle nostre belle e borghesi città. Forse non vincerebbe in quel teatro démodé che è Sanremo, ma potrebbe entrare nella storia della canzone. Come il signor Steve Wonder.

Firenze, 10 marzo 2018.

[1] Non rivelo l’identità per motivi di sicurezza.

[2] Cfr. Gianluca Solera, Citizen Activism and Mediterranean Identity, Palgrave, 2017, pag. 65.

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