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Contrada, revocata la condanna

Redazione il . Sicilia

contradaLa scorsa settimana la Corte di Cassazione ha revocato la condanna a 10 anni inflitta a Bruno Contrada, ex funzionario del SISDE, accusato di concorso in associazione mafiosa. È stato così accolto il ricorso della difesa dell’ex poliziotto con cui era stato impugnato il provvedimento della Corte d’appello di Palermo che aveva giudicato inammissibile la richiesta di incidente di esecuzione.
Contrada era stato condannato a 10 anni per concorso in associazione mafiosa e aveva scontato la pena fino al 2012, al termine di un complicato iter giudiziario e un lungo periodo di custodia cautelare in carcere.
Ora la condanna, secondo la Cassazione, diventa “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”.
In attesa delle motivazioni, abbiamo deciso di pubblicare l’attenta analisi che il collega Francesco La Licata aveva pubblicato su “La Stampa”, ai tempi dell’arresto di Contrada. Perché prima di schierarsi da una parte o dall’altra, i lettori di Libera Informazione possano farsi un idea.

Uno 007 tra i veleni di Palermo

di Francesco La Licata

Il poliziotto agente segreto: dalla leggenda ai sospetti di depistaggio. Il ritratto che ne fece La Stampa all’epoca dell’arresto, avvenuto il 24 dicembre del 1992.

Le circonlocuzioni, le cautele, i condizionali delle agenzie di stampa e dei notiziari televisi e radiofonici non riescono ad ammorbidire una notizia che per la città è un pugno nello stomaco. Bruno Contrada in carcere. Contrada associato con la mafia, delatore, traditore. Già, traditore. L’ infamia più triste, se si si pensa che il tradimento se c’ è stato, lo hanno subito soprattutto poliziotti e giudici che, per non tradire, sono morti. Ammazzati per strada, uno dopo l’ altro. Così, mentre le notizie si accavallano, consegnando il fosco racconto di pentiti, affiorano nella mente gli anni della mattanza palermitana.

Un quarto di secolo sfregiato da una costante linea rossa, una tragica sequenza di morti, feriti, attentati, processi e anche «nfamità», per dirla con un linguaggio che a Palermo si usa per definire le montature. Bruno Contrada è stato protagonista indiscusso di questo quarto di secolo. Non era arrivata ancora «l’ era Falcone», il palazzo di giustizia era un deserto dei Tartari affidato alla gestione di rappresentanti di un gruppo di potere squalificato, ma potentissimo. Governava un comitato d’ affari che racchiudeva, da un lato, uomini come Lima, Gioia e Ciancimino, e dall’ altro il monopolio affaristico di imperi come quelli del costruttore Ciccio Vassallo o del Cavaliere di Gran Croce Arturo Cassina, luogotenente dell’ Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro.

C’era la Palermo che contava, coi cavalieri di Cassina. Politici, burocrati, grand commis, affaristi e tanti, ma tanti, ufficiali dei carabinieri, funzionari di polizia e questori. Anche Bruno Contrada si era sottoposto alla cerimonia dell’ investitura, con tanto di ermellino e lo spadino del conte Arturo posato sulla spalla destra. E a chi gli chiedeva perché avesse accettato l’ offerta di Cassina, Contrada rispondeva: «Perché c’ è qualcosa di male? È come far parte del Rotary o del Lions». E aveva ragione, dal suo punto di vista, dal momento che si trovava in compagnia di alti funzionari dello Stato, nobili e luminari. La cosiddetta buona società. E poi, quella era un’ epoca che vedeva la squadra mobile come una prima linea contro la mafia.

C’ era Boris Giuliano, che con Contrada formava un binomio da leggenda. E c’erano molti altri funzionari giovani che, come si dice in gergo, «trottavano». Contrada era il capo, Giuliano il vice, due scuole diverse ma integrate bene. Nell’ immaginario dei palermitani quei poliziotti rappresentavano una sorta di <squadra speciale>, come nei telefilm americani. Sospetti? Neanche uno: fino ad allora, almeno. La fama di uomini della tempra di Boris Giuliano era talmente inattaccabile che da sola sarebbe bastata a far svanire qualunque ombra si fosse abbattuta sulla squadra mobile. È l’ inizio degli Anni 70, I film del filone «la polizia arresta la magistatura assolve» sembrano ispirati dalla realtà palermitana. Lo stesso Contrada, con l’ impermeabile del «tenente Sheridan», diventa protagonista di episodi mai dimenticati. Come quando si trova faccia a faccia con Giuseppe Greco, che si avvia a divenire il superkiller dei cento delitti. Lo insegue tra i vicoli della Vucciria, spara tra la folla Alla fine, con l’ aiuto del commissario Vincenzo Speranza, lo prende, lo trattiene per i capelli e lo trascina alla squadra mobile. Eppure… Eppure, dicono quattro o cinque pentiti, già allora qualcosa non andava. Rivela Gaspare Mutolo che «il dottore Contrada» disponeva di una casa in via Jung. Un appartamento intestato ad un uomo d’ onore del clan di Rosario Riccobono, il boss che secondo altre rivelazioni aveva indotto alla collusione il giudice Domenico Signorino, morto suicida in seguito allo scandalo.

Secondo il pentito, Contrada era stato avvicinato, seguito e posto sotto osservazione per verificare la possibilità di ridurlo alla collaborazione, soluzione da preferire ai colpi di lupara che invece si sono rivelati necessari per altri. Questo racconta Mutolo. Resta da comprendere perché un appartamento, ufficialmente intestato ad un prestanome della mafia, dovesse essere usato seppure per motivi personali e privati da un giudice della Procura e dal capo della squadra mobile. E resta un dubbio: recitava, Contrada, quando per la morte dell’ agente Cappiello, ucciso durante un’ azione di polizia a Pallavicino, denunciò tre boss del clan di Riccobono, uno dei quali era proprio Gaspare Mutolo, oggi pentito e grande accusatore? Qualcuno ha obiettato che sì, è vero, Contrada denunciò ma nessuno fu catturato. Per la verità, Mutolo fu preso qualche tempo dopo, insieme con Salvatore Micalizzi. Se ne stavano al ”Gambero Rosso”, a Mondello. Il pranzo a base di vongole e spigole fu interrotto dalla polizia. Addosso a Micalizzi furono trovati molti soldi. Nell’ ufficio di Bruno Contrada, il boss dovette subire l’ umiliazione di raccogliere le banconote con la lingua. E il capo della mobile gli disse: «Sono ancora sporchi di sangue». Ma i «colpevolisti» ora dicono: «Contrada recitava».

Però a Roma non ne erano convinti. Tanto che quando, nel luglio 1979, uccidono Boris Giuliano, nuovo capo della squadra mobile, e non si trova un dirigente capace di ridare unità ad un gruppo dilaniato dalle polemiche e dalle faide interne, il governo si rivolge a lui, Bruno Contrada, che sta alla Criminalpol della Sicilia occidentale. Già le faide. Da allora, dall’ 80 gli uffici investigativi della questura entrano in un tunnel che non ha più visto l’ uscita. Cominciano i veleni, tutti sospettano di tutti. I pentiti fanno risalire ad allora il consolidamento delle “cattive amicizie” di Contrada. Spuntano i nomi di Salvatore Riina e dei Marchese. È l’ era delle talpe. La figura di Bruno Contrada si appanna. A questo contribuisce forse il fatto che entra nei servizi segreti, ma continua ad occuparsi di criminalità. Viene sospettato di aver aiutato a fuggire Oliviero Tognoli, imprenditore con contatti mafiosi. Dimostra l’ estraneità al fatto. Lo accusano di depistaggio nell’ inchiesta sull’ assassinio di Piersanti Mattarella, ma anche questa volta vince i sospetti. Passa indenne da più d’ una inchiesta interna. Giovanni Falcone attribuisce a «menti raffinatissime» la paternità dell’ attentato all’ Addaura. Il giudice non fa nomi, ma quello di Contrada circola per tutti i corridoi dei Palazzi. E poi, la polemica col questore Vincenzo Immordino. Una brutta storia: Contrada e i suoi chiusi in una stanza della Mobile, mentre poliziotti venuti da fuori e comandati direttamente dal questore arrestavano una cinquantina di boss accusati di aver ucciso il capitano dei carabinieri Emanuele Basile Quella fu la vera delegittimazione di Contrada. Il questore dimostrò di non fidarsi. L’ errore fu non aver mai fatto chiarezza in nome di una presunta ragion di Stato.

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