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La ‘ndrangheta emiliana che fa paura

Sofia Nardacchione il . Emilia-Romagna

165144504-3f92d194-c318-4ee5-9871-ae85ee9b76daCambiano i processi ma non le dinamiche: Aemilia e Black Monkey, i due processi all’ndrangheta emiliana, mostrano sempre più elementi in comune. Ma uno, in particolare, è importante: è quello delle minacce e delle intimidazioni, di testimoni che non vogliono parlare o che scompaiono.

Nel processo Black Monkey, che si è svolto nel Tribunale di Bologna e che è arrivato alla sentenza di primo grado il 22 febbraio di quest’anno con il riconoscimento dell’associazione mafiosa, la frase che probabilmente è stata più ripetuta è “non mi ricordo”. Frase detta da imprenditori, da professionisti, da persone che, secondo quanto era stato riferito durante le indagini preliminari, erano state minacciate, intimidite, picchiate.
Non sono pochi gli esempi: Mauro Dal Lago, proprietario di un bar con delle slot machines noleggiate da una delle aziende di Femia viene minacciato di morte (“stai attento ché ti taglio la gola”) dopo aver preso la decisione di cambiare società: decide presto di ritirare la denuncia fatta per paura di ritorsioni e in aula durante la testimonianza dice di non ricordarsi l’accaduto. Marina Pignari e il marito Roberto Bacchilega, entrambi proprietari di società di gioco d’azzardo e in collaborazione con Femia, dopo il fallimento di una delle aziende si trovano lettere intimidatorie a casa, la macchina bruciata e inoltre Bacchilega, durante la testimonianza, ha affermato che erano molto preoccupati perché “quando una persona viene e parla con te è un conto, quando viene con tre persone alle spalle, due davanti, due in macchina, è un altro conto”.

E moltissimi, durante le testimonianze in aula, davanti non solo agli avvocati, ai cittadini, agli studenti, ma anche davanti al boss Nicola Femia – che ha deciso di pentirsi – e ad altri imputati a piede libero, non hanno voluto parlare. Il Presidente della Corte Michele Leoni ha dovuto più volte ricordare loro che sarebbero caduti nel reato di falsa testimonianza.
Enza Rando, avvocato di Libera, aveva affermato che questo nei processi al Sud non succede. E’ quindi una caratteristica che è segno di una ancora più profonda collusione tra la gente comune e una mafia che intimidisce e fa paura.

Lo stesso sta avvenendo nel “maxiprocesso” Aemilia, tra gli imputati a piede libero e quelli nelle celle, nell’aula bunker nel Tribunale di Reggio Emilia.
Antonio è uno dei tredici operai della Bianchini Costruzioni Srl che hanno lavorato nella ricostruzione post terremoto con Michele Bolognino, uno dei principali boss dell’ndrina alla sbarra nel processo, ed è l’unico che ha avuto il coraggio di costituirsi parte civile contro coloro che lo sfruttavano. Ma poi, qualche settimana fa, ha deciso di non voler più parlare. Gli avvocati della difesa hanno chiesto che la sua testimonianza non venisse più presa in considerazione, perché contraddittoria e poco chiara, ma la Corte dei giudici ha riconosciuto la forza di intimidazione che ha portato il testimone a non voler più parlare. Antonio ha parlato dietro al telo bianco usato di solito per i collaboratori di giustizia, cosa che ha causato l’ira degli imputati, capeggiati da Gaetano Blasco, che hanno deciso di uscire dall’aula per protesta. “All’inizio non ero intimorito – ha detto Antonio in aula – ma ora sì: ho tre bambini. Sono stato avvicinato quando ho deciso di costituirmi parte civile, ora ho paura”.

E’ di questi giorni la notizia che due dei testimoni chiamati dall’accusa non sono più reperibili: sono l’imprenditore di Reggio Emilia Matteo Luisetti e Mounir Ferjani. Luisetti si sarebbe rivolto alla cosca cutrese perché, in un momento di crisi, aveva bisogno di soldi: sarebbe iniziato così un circolo senza fine di minacce ed estorsioni: ora è ricercato tra Stati Uniti e Congo. Neanche Ferjani, 51enne tunisino, è più in Italia: secondo l’accusa sarebbe stato minacciato da Gaetano Blasco e Antonio Valerio con una pistola puntata alla tempia.
Anche questo è un aspetto che si era già presentato in Black Monkey: Et Toumi Ennaj, ragazzo marocchino dalla cui denuncia di tentato sequestro era partita l’indagine che ha poi portato al processo, dopo l’inizio del rito ordinario era scomparso. Et Toumi è stato rintracciato a settembre del 2016, detenuto in Belgio, ma era già troppo tardi per poter prendere in considerazione la sua testimonianza.

“Ve lo giuro sui miei figli, non mi ricordo”, ha detto Antonio De Leonardis, nell’aula bunker di Reggio Emilia, alla richiesta dell’accusa di parlare di una presunta estorsione in un cantiere di Sant’Ilario: il giudice Caruso gli ha detto “dia la collaborazione che ogni cittadino onesto deve dare al Tribunale, altrimenti non è onesto”. Ma a quanto pare di onesto c’è ben poco, ed è la cosa che spaventa di più: la mancanza di volontà di un riscatto contro le mafie, il tentativo, ancora costante, di fare finta che le mafie in Emilia Romagna non ci siano, perché si nascondono, si mischiano, lordano quanto di pulito c’era e tutto diventa irriconoscibile, e quindi giustificabile. Uno degli avvocati della difesa in Black Monkey nella sua arringa aveva detto che l’imprenditore che difendeva – Ettore Negrini, poi condannato a 7 anni per associazione mafiosa – era stato “inibito dal clima vischioso della provincia”. E’ sicuramente un clima vischioso quello che stiamo respirando, ma lo diventa sempre più con tutti questi “non ricordo”, con tutte le giustificazioni, con la mancanza di una presa di responsabilità che dovrebbe essere della cittadinanza intera.
Non ricordo, non ricordo significa reticenza, falsa testimonianza” ha affermato il giudice Caruso. Ma anche il “non voglio sapere”, il “non mi riguarda” non fanno altro che aiutare un ancora più profondo radicamento delle mafie.

Processo Aemilia bis al via

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