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Ecco la Calabria, quella vera/1

Donatella D'Acapito il . Calabria

progeto-sudC’è la Calabria lenta. Quella delle bellezze naturali e dei prodotti tipici che per troppo tempo non sono stati valorizzati come si deve. La Calabria che sa di essere stata Magna Grecia ma che tratta questa ricchezza solo come vestigia a cui ammiccare. C’è quella che è più regione di montagna che di mare, che si arrocca in attesa che il Governo provveda, perché “Dov’è lo Stato qui? Che fa lo Stato per noi?”.
E sì, forse qualcosa in più bisognava fare per questa terra, come per il resto del Sud, per evitare che si creasse un’Italia a due velocità. Ma c’è chi ha smesso di aspettare e ha deciso di fare. E lo ha fatto senza garanzie, sfidando la diffidenza della gente che sa che il potere locale vero concedeva il minimo di cui si aveva bisogno ma in cambio chiedeva tutto: silenzio, obbedienza e riconoscenza.
Son passati poco più di quarant’anni da quando un giovane prete bresciano ha accettato di lasciare la sua città per arrivare a Lamezia Terme. Bisognava occuparsi degli handicappati, come si diceva in modo crudo allora quando ancora non si chiedeva alle parole di non urtare le sensibilità. Non erano molte le risorse a disposizione: in quel 1976, attorno a don Giacomo Panizza, si sono strette una ventina di persone fra diversamente abili e volontari. È nata così la Comunità Progetto Sud. È nata dalla volontà di dare una risposta alternativa a quella che al tempo era una vera e propria deportazione dei disabili calabresi nelle comunità del nord. “Chi aveva una disabilità – dice don Giacomo – era tenuto chiuso in casa perché le famiglie se ne vergognavano. Ho sempre vissuto questa cosa come una ingiustizia e una illegalità. All’epoca cambiamento voleva dire far uscire la gente dai ricoveri e cercare di non fare più dei ricoveri i luoghi dove parcheggiare le persone. Provare a fare qualcosa è stata quindi un’operazione di giustizia nei loro confronti”.
Ciò che don Giacomo ha trovato è stata un’assistenza che non aveva nulla a che fare con l’accoglienza, che accudiva le persone senza pensare alle loro esigenze più profonde perché i tempi, i modi e gli obiettivi erano tarati su chi assisteva e non su chi doveva essere aiutato. Nessuno, prima di allora, si era mai messo accanto a loro per renderli almeno in parte autonomi. È questa la rivoluzione portata da don Giacomo: dimostrare che potevano esserci diversità altre, che chi stava in carrozzina doveva essere sì aiutato nelle questioni fisiche, ma poteva imparare a fare altro. Soprattutto, ha insegnato loro a essere cittadini. “Mi è capitato di vedere uomini e donne in carrozzina tornare nelle loro case e diventare capifamiglia, perché avevano appreso delle cose, avevano imparato a leggere e scrivere e alla fine erano quelli che sapevano più di tutti. Era proprio una diversa abilità che veniva esercitata”.
Progetto Sud non si è fermata a questo. Nel tempo ha risposto ai diversi bisogni che nascevano dalle situazioni di disagio ed emarginazione, dalla tratta delle strade, ai migranti, dalle persone con problemi psichici o di tossicodipendenza, alla riabilitazione.
Lo ha fatto creando nuove opportunità lavorative e imprenditoriali. E lo ha fatto prendendo una posizione netta contro la ‘ndrangheta: “Dopo 15 giorni che ero qui – ricorda don Giacomo – i mafiosi son venuti a chiedere il pizzo. Mi son dovuto scontrare con una criminalità che voleva sottomettere soprattutto chi era già in difficoltà. Col tempo, invece, abbiamo imparato a confrontarci con la mafia e gli stessi disabili hanno imparato a dire anche alle famiglie “no, con la mafia no”. Lo abbiamo fatto raccogliendo le prove contro questi soggetti, e avendo poi la forza di denunciare. Abbiamo costruito le cose come gruppo. C’è voluto tempo, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”.
Progetto Sud può contare sul lavoro di circa 150 persone, sui volontari, sulle energie provenienti dal servizio civile e, soprattutto, sull’appoggio e la collaborazione delle famiglie direttamente coinvolte.
E se chiedi a don Giacomo cosa si aspetta, che desidera per la “sua” terra o cosa ancora c’è da fare ti risponde così: “Siamo un gruppo di gruppi, che vuole rimanere al Sud perché il nostro sud ha bisogno di ricerca, innovazione e amore per la gente che ha paura a stare qui. Ce n’è bisogno per chi nasce qui e sa che non si può vivere per scappare”.
È una scommessa: don Giacomo lo sa. Ma non è solo: è il lametino del nord che, con tanti “concittadini”, ha deciso che in questa vuole – e si può – rimanere.

*Pubblichiamo a puntate l’articolo comparso su Narcomafie, speciale 21 marzo

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