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Taranto, le mani del clan Di Pierro sulla città

Antonio Nicola Pezzuto il . Senza categoria

Un provvedimento di fermo a carico di 33 persone è stato emesso dal Sostituto Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce, Alessio Coccioli. Ad eseguirlo gli agenti della Questura di Taranto coadiuvati dai colleghi delle Questure di Bari, Brindisi, Lecce, Foggia, Potenza, Campobasso, dalla Sezione della Polizia Stradale di Taranto, dal Reparto Prevenzione Crimine e dal Reparto Volo di Bari.
Gli arrestati sono accusati a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso, concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso, tentato omicidio, estorsione aggravata dal metodo mafioso, rapina aggravata, detenzione illecita di armi clandestine, danneggiamento aggravato dal metodo mafioso e altro.
Al centro delle indagini della Squadra Mobile di Taranto il clan Di Pierro.
Tutto ha inizio il 21 novembre 2014 quando il pluripregiudicato Cosimo Di Pierro viene scarcerato dopo un lunghissimo periodo di detenzione. L’uomo, per motivi di salute, viene sottoposto alla misura della detenzione domiciliare. Permesso ulteriormente ampliato dal Magistrato di Sorveglianza di Taranto che concede al Di Pierro di allontanarsi dal luogo di detenzione per “esigenze di vita primarie”.
La Squadra Mobile di Taranto, conscia dello spessore criminale dell’uomo, ne ha monitorato i movimenti per oltre tre settimane a cavallo tra la fine del mese di febbraio e la prima decade del mese di marzo 2015. Gli investigatori hanno così scoperto che il Di Pierro non solo non si trovava in gravi condizioni di salute ma, nell’arco di appena tre mesi dalla sua scarcerazione, aveva riallacciato rapporti con numerosi personaggi pluripregiudicati gravati da precedenti per reati associativi, anche di stampo mafioso e dediti prevalentemente allo spaccio sistematico ed organizzato di sostanze stupefacenti.
Il Di Pierro era riuscito “attraverso le amicizie del De Leonardo Pasquale e della sorella Rosa Di Pierro, ad ottenere una documentazione medica che attestava patologie ben più gravi di quelle da cui era ed è realmente affetto”, scrive il Pubblico Ministero Alessio Coccioli nel provvedimento di fermo.
Nell’aprile 2015 la Squadra Mobile di Taranto ha avviato un’attività tecnica di intercettazione ambientale e telefonica a carico di diversi soggetti per i quali emergevano indizi di reato. Nel dicembre 2015 il relativo fascicolo è stato trasmesso alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce.
Le indagini hanno consentito di scoprire l’esistenza di “una agguerrita organizzazione criminale di tipo mafioso, molto radicata sul territorio, con a capo il Di Pierro ed i De Leonardo Cosimo e Pasquale”. Sono stati individuati altri due gruppi delinquenziali organizzati verticisticamente. Uno facente capo a Gaetano Diodato, prevalentemente dedito al commercio di stupefacenti e il secondo a Nicola Pascali detto Nico, più orientato verso le attività estorsive e l’acquisizione illecita di attività imprenditoriali.
I pessimi rapporti tra il clan Di Pierro e il clan Diodato (di cui faceva parte anche Angelo Di Pierro, figlio di Cosimo, inizialmente in contrasto con il padre) sono stati per mesi al centro delle indagini. Dopo la riappacificazione tra i Di Pierro, i due gruppi hanno continuato a coltivare parallelamente i loro interessi criminali. Il clan Di Pierro predilige le estorsioni ma non disdegna affatto il traffico di sostanze stupefacenti prerogativa del clan Diodato.
Su uno scenario carente di personaggi carismatici, lo spessore criminale di Cosimo Di Pierro si è affermato prepotentemente andando a colmare un temporaneo vuoto di potere ai vertici della criminalità organizzata locale. Sin dalla sua scarcerazione ha rappresentato un punto di riferimento per le piccoli “formazioni” delinquenziali alla ricerca “di un leader che offrisse loro “protezione” e copertura per i rispettivi affari illeciti”.
Il Di Pierro, sfruttando la sua fama di killer spregiudicato e disponendo di un piccolo esercito di giovani “soldati”, ha riorganizzato in breve tempo le sue attività criminali, in particolar modo l’esercizio sistematico e capillare delle estorsioni imposte non solo ai commercianti e agli imprenditori ma anche agli spacciatori e ai trafficanti di stupefacenti dei quartieri Borgo e Solito.
Per esercitare la sua leadership nel panorama della criminalità organizzata tarantina si è avvalso della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo del proprio gruppo e della fama criminale acquisita nel tempo e rafforzata periodicamente con atti di violenza e minaccia. Il Di Pierro rivendica tale supremazia e pretende “che gli venga riconosciuta in automatico – senza se e senza ma – dai “livelli” inferiori della malavita locale”.
Emblematica l’intercettazione di una conversazione tra il Di Pierro e Pasquale De Leonardo che, insieme al padre Cosimo, aveva provveduto al pagamento delle spese necessarie all’ottenimento della pratica sanitaria e legale che attestasse la sua incompatibilità con il regime carcerario.
“La città è la nostra… Pasqualì, la CITTÀ è la NOSTRA… Hai fatto tanto per farmi uscire…”.
Il Di Pierro, per esercitare il pieno controllo sulla città, riteneva strategicamente fondamentale anche il pieno controllo all’interno del carcere di Taranto.
“In galera, se sei forte in galera già comandi mezza Taranto perché tutti vanno in galera e prendono mazzate”.
Dalle indagini sono emersi frequenti riferimenti ai rituali tipici della ‘ndrangheta.
Il Di Pierro ha ricevuto la piena consacrazione del suo ruolo l’11 ottobre 2015 quando il noto pluripregiudicato Ignazio Taurino e Cosimo De Leonardo lo hanno “battezzato” con la cosiddetta “santa”, termine mutuato dal gergo ‘ndranghetista che sta ad indicare un elevato grado all’interno dell’associazione criminale.
La “cerimonia” di innalzamento viene celebrata a casa di Di Pierro e segue un rituale articolato in più fasi: “vi è il testo propiziatorio recitato come una litania e contenente i canonici riferimenti a Mazzini, Garibaldi e Lamarmora, e vi è la “punciuta”, cioè il rito della puntura dell’indice della mano, con il sangue che viene adoperato per imbrattare un’immaginetta sacra a cui viene dato fuoco”, si legge nel provvedimento di fermo.
Le indagini hanno dimostrato che i vertici dell’associazione criminale si occupano dell’assistenza legale degli affiliati nel caso del loro arresto e, allo stesso tempo, provvedono al mantenimento dei loro familiari rimasti privi di mezzi economici.
Cosimo Di Pierro e i suoi sodali potevano contare su una costante disponibilità di armi che rappresentavano per loro un vero e proprio status imprescindibile per affermare la propria leadership. Rilevante la potenza di fuoco del gruppo, la competenza tecnica di molti dei suoi affiliati e la capacità di procurarsi di continuo nuove armi da porre a disposizione dei consociati per raggiungere i fini dell’associazione. Il clan disponeva anche di materiale esplodente da “assemblare” ed impiegare in azioni estorsive.
Nel corso dell’operazione di polizia sono stati rinvenuti e sequestrati: 352 grammi di hashish; una pistola scacciacani sprovvista di tappo rosso unitamente a 34 cartucce a salve; un rilevatore di microspie; una pistola scacciacani; tre pistole lanciarazzi; vari reperti archeologici.

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