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Mafie e corruzione: potere, giustizia e verità

Franco Roberti* il . Istituzioni

Vorrei svolgere il mio intervento partendo (apparentemente) da lontano e, più precisamente, da tre poli concettuali tra loro complementari – potere, giustizia e verità – che sono, o dovrebbero essere, funzionali l’uno all’altro: il potere al servizio della giustizia, quest’ultima al servizio della verità. E la verità, infine, come fattore di fiducia dei cittadini verso il Potere, premessa indispensabile, in democrazia, per l’affermazione dello Stato di diritto e per un efficace contrasto ad ogni forma di criminalità.
Non può esserci verità senza giustizia: lo statuto della verità presuppone, anzitutto, il rigore della ricostruzione giudiziaria. In questo senso, Sant’Agostino diceva che la verità bisogna farla e il tema fu poi ripreso da J. Derrida in un saggio su Giustizia, diritto e interpretazione. Lo statuto della verità presuppone il rigore dell’accertamento assistito dalle garanzie, che la ricerca giudiziaria, come espressione di potere-servizio, prima e più delle ricerca storica, dovrebbe assicurare.
Per la dottrina sociale della Chiesa, il potere come servizio per il bene comune, la giustizia e la verità trovano la loro forza propulsiva, la loro stessa ragion d’essere, nella caritas, nell’amore che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità per lo sviluppo di ogni essere umano e dell’intera umanità.
Come insegna Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in veritate, questo principio prende forma operativa in criteri orientativi dell’azione morale. A cominciare da quel principio di giustizia, oggi più che mai messo alla prova dalle terribili sfide della criminalità globalizzata: mafie, terrorismo, corruzione, tratta di esseri umani.
«La carità eccede la giustizia – leggiamo nell’introduzione dell’Enciclica – perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso donare all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro…la giustizia è inseparabile dalla carità, intrinseca ad essa».
Parole che ci riportano alla mente il martirio di Rosario Livatino e l’anatema contro i mafiosi, scagliato da San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento. Era il 9 maggio del 1993 e il grande Papa, prima di recarsi nella Valle dei Templi, aveva incontrato i genitori di Livatino. Il loro spirito di carità e la loro dignità, pur nel dolore immenso per la perdita del figlio, lo avevano profondamente commosso. Tanto che, al momento del discorso, Egli mise da parte il testo scritto e pronunciò d’istinto quelle parole memorabili per ogni cristiano che voglia impegnarsi veramente per la giustizia.
Parole entrate nella storia. Ma le mafie – dopo ventitré anni e nonostante gli indiscutibili successi riportati dallo Stato, soprattutto contro Cosa nostra siciliana – sono ancora forti grazie alle loro relazioni “esterne” con esponenti delle istituzioni, dell’economia e della società civile. Sono rapporti fondati prevalentemente sulla base di patti corruttivi, solo eventualmente associati alla intimidazione violenta. Grazie a questi rapporti le mafie si sono radicate ben oltre i confini dei territori di origine. Inoltre, è un dato di fatto che le mafie generano occupazione illegale e criminale, distribuiscono ricchezza parassitaria, tendono ad affermarsi come potere sistemico – di controllo dell’economia, delle istituzioni locali e degli uomini sfruttando le mancate risposte delle Istituzioni repubblicane e del mondo imprenditoriale alla domanda di lavoro legale. Conseguentemente, quel che è peggio, mentre costituiscono un freno allo sviluppo, creano intorno a sé consenso sociale.
Sicurezza e giustizia, che sono le condizioni essenziali per un corretto sviluppo socio-economico, dovranno costituire una priorità dell’azione di qualsiasi Governo europeo, partendo dalla effettività del principio di uguaglianza, oggi richiesta anche dal Trattato di Lisbona, che impegna l’Unione Europea a «eliminare le ineguaglianze» (art. 8 Tfue).
Le mafie, infatti, sfruttano le disuguaglianze sociali, tra cittadini forti e cittadini deboli, facendo affari con quelli, tra i primi, che si sentono al di sopra della legge e reclutando come manovalanza i secondi, che si illudono di poter raggiungere soltanto attraverso l’illegalità e la militanza mafiosa quel progresso economico e sociale che pensano sarebbe altrimenti impossibile conseguire. Ma sfruttano pure il differenziale normativo e organizzativo tra Stati virtuosi e Stati lassisti, indirizzando, per esempio, i flussi di capitali illeciti verso giurisdizioni a bassa fiscalità e con norme antiriciclaggio deboli o compiacenti ovvero dove minore è la pressione investigativa.
La Risoluzione del Parlamento europeo del 23 ottobre 2013 sulla criminalità organizzata, la corruzione e il riciclaggio di denaro prendeva atto – sulla base delle risultanze investigative e giudiziarie – che la criminalità organizzata è sempre più simile ad un soggetto economico globale, avente una spiccata vocazione imprenditoriale e specializzato nella fornitura simultanea di diverse tipologie di beni e di servizi illegali – ma anche, in misura crescente, legali – e ha un impatto sempre più pesante sull’economia europea e mondiale, con ripercussioni significative sulle entrate fiscali degli Stati membri e dell’Unione nel suo insieme e con un costo annuo per le imprese stimato a oltre 670 miliardi di euro.
Per la criminalità organizzata, la corruzione di funzionari pubblici e di soggetti economici anche privati è funzionale ai propri traffici illeciti nella misura in cui essa permette, fra l’altro, di accedere ad informazioni riservate, ottenere documenti falsi, pilotare i procedimenti di evidenza pubblica, riciclare i propri proventi ed eludere le azioni di contrasto da parte dell’autorità giudiziaria e di polizia.
Ma, nella prospettiva del Parlamento europeo, la corruzione – il cui costo ammonterebbe a 120 miliardi di euro annui, pari all’1% del Pil dell’Unione – costituisce, oltre che una modalità di azione privilegiata dalla criminalità organizzata, un gravissimo attentato all’economia europea, perché altera la libera concorrenza, incidendo negativamente sulla qualità dei servizi, sottrae masse finanziarie al prelievo fiscale, scoraggia gli investimenti (anche delle imprese straniere) e quindi frena lo sviluppo e l’occupazione.
La crescente domanda di contrasto alla corruzione nel settore pubblico si collega ai costi del fenomeno: costi economici, perché essa costituisce una “tassa” indiretta sulle imprese esistenti ed un ostacolo all’ingresso per nuove iniziative economiche (perdita del 16% degli investimenti dall’estero) ed è causa di una lievitazione dei costi delle opere pubbliche che viene in definitiva, poi, traslata sul committente e, quindi, ricade direttamente sulla spesa pubblica, e costi di ordine sociale, quali la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni e nei meccanismi di legittimazione democratica (per l’88% degli italiani corruzione e raccomandazioni sono spesso il modo più semplice per accedere a determinati servizi pubblici, mentre il 92% delle imprese italiane ritiene che favoritismi e corruzione impediscano la concorrenza imprenditoriale e commerciale in Italia).
Secondo una analisi della Banca mondiale del 2013, in termini di costi, ogni punto di discesa nella classifica di percezione della corruzione stilata da Transparency International provoca la perdita del 16% degli investimenti dall’estero. Uno studio di Unimpresa (2014) afferma che il fenomeno della corruzione in Italia fa aumentare del 20% il costo complessivo degli appalti. Tra il 2001 e il 2011 la corruzione ha consumato 10 miliardi di euro l’anno di Pil per complessivi 100 miliardi in dieci anni. Le aziende che operano in un contesto corrotto crescono in media del 25% in meno rispetto alle concorrenti che operano in un’area di legalità. In particolare, le piccole e medie imprese hanno un tasso di crescita delle vendite di oltre il 40% inferiore rispetto a quelle grandi.
In questo ottica, la corruzione non è soltanto un reato contro la pubblica amministrazione, ma è uno dei più gravi reati contro l’economia.
A prescindere dall’esattezza e attendibilità della stima, è tristemente vero che la corruzione è il collante tra mafia, riciclaggio ed economia, come era già stato individuato negli articoli 8 e 9 della Convenzione Onu contro la criminalità organizzata transnazionale (Palermo, dicembre 2000).
In realtà corruzione, criminalità economica e criminalità mafiosa sono tre facce di un’unica realtà. La criminalità mafiosa trae costante alimento dalle prime due.
Torniamo al tema iniziale: potere-giustizia-verità. Sarebbe sterile e illusorio – per un Potere al servizio del bene comune – fronteggiare la criminalità mafiosa e il malaffare organizzato, sempre più intrecciati tra loro, con il solo richiamo alla cultura e ai valori della legalità, sempre proclamati ma ancora troppo poco praticati. Sarebbe, soprattutto, inutile continuare a parlarne ai giovani se poi lo Stato in tutte le sue componenti non dimostra, una volta per tutte, con fatti concludenti – come sollecitava Giovanni Falcone fin dal 1983 – chi è a favore e chi è contro le mafie, dando alla magistratura e alle forze dell’ordine gli strumenti normativi e organizzativi per vincere la sfida, per smantellare le reti di malaffare, assicurando la trasparenza e la legalità dell’azione dei pubblici poteri, garantendo il pieno recupero a fini sociali dei beni confiscati alle mafie.
Una giustizia tempestiva e uguale per tutti e una pubblica amministrazione trasparente ed efficiente sono di per sé la miglior affermazione della cultura della legalità.
La lotta alla criminalità organizzata, ha bisogno di fatti, di leggi, di scelte strategiche di priorità. Bisogna scrivere leggi giuste, attuative dei principi della Costituzione e dimostrare ai giovani che rispettare quelle leggi è più conveniente che infrangerle.
La crisi e le minacce che incombono possono costituire una opportunità. Il termine “crisi” significa in greco “scelta”: significa, cioè, che da qualunque situazione di pericolo si esce con una forte assunzione di responsabilità.
La piena realizzazione dei principi di dignità della persona umana, di libertà, uguaglianza, lavoro, istruzione e pari opportunità per tutti i cittadini, diritto d’asilo per gli stranieri, la difesa dello Stato di diritto e delle sue garanzie sono condizioni indefettibili per lo sviluppo economico, per la tenuta della democrazia e per la pace sociale.
Vorrei concludere osservando che ormai nessuno Stato-Nazione può risolvere da solo i suoi problemi, divenuti inscindibili da contesti più ampi, né può dare da solo un valido contributo alle sfide globali del nostro tempo. L’ora delle scelte batte alle nostre porte e ci chiama tutti a un rinnovato impegno per una società libera dalla corruzione, dalle mafie e dal terrorismo, per una democrazia più rispettosa della dignità umana, più solidale e più giusta.

* Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo – Intervento al Vertice di giudici e magistrati contro il traffico delle persone umane e il crimine organizzato, Roma, Pontificia Accademia delle scienze sociali, Casina Pio IV, 3-4 giugno 2016

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