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Debito pubblico e revisione costituzionale

Rocco Artifoni il . Istituzioni, L'analisi

Nel 2012 il Parlamento ha modificato alcuni articoli della Costituzione, in particolare l’art. 81, introducendo il cosiddetto “pareggio di bilancio”, che in realtà afferma: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e (…) al verificarsi di eventi eccezionali”. Questa prescrizione è entrata in vigore nel 2014. A distanza di oltre due anni è interessante verificare che cosa è successo.
Una recente indagine di Unimpresa ci fornisce alcuni dati utili per capire la tendenza. Anzitutto il debito pubblico dell’Italia nel 2016 è arrivato a 2.228 miliardi di euro, in crescita di 81 miliardi rispetto ai 2.147 miliardi di due anni fa. A quanto pare la Costituzione non è stata rispettata. Se andiamo a vedere in dettaglio quali sono gli Enti che hanno prodotto questo debito, scopriamo che la situazione è molto diversa tra lo Stato centrale e le autonomie territoriali. Il debito dello Stato in due anni è passato da 2.039 miliardi a 2.136 miliardi di euro, con un aumento di 97 miliardi. Invece il debito delle Pubbliche Amministrazioni territoriali è passato da 107 miliardi a 92 miliardi, con una riduzione di oltre 15 miliardi. Gli enti più virtuosi sono le Regioni, il cui debito è sceso di quasi 8 miliardi di euro; seguono i Comuni (-3,5 miliardi) e le Province (-0,7 miliardi). Insomma, si potrebbe dire che lo Stato continua a sprecare, mentre le Istituzioni regionali e gli enti locali stanno facendo la propria parte per ridurre il debito pubblico. Se guardiamo i dati in percentuale, la differenza è ancora più significativa: il debito delle Regioni da 38,5 a 30,5 miliardi di euro con un calo del 20% in due anni. Il debito delle Province da 8,4 scende a 7,7 miliardi (-7,6%), mentre quello dei Comuni passa da 46 a 42,6 miliardi (-7,4%). Lo Stato invece si è indebitato con un incremento del 4,7%.
Nel dettaglio è interessante notare come a livello territoriale il debito sia sceso in tutte le zone del Paese in modo sostanzialmente omogeneo: nel Nord Ovest è passato da 30,7 miliardi a 27,3 miliardi in calo di 3,4 miliardi (-11,13%); nel Nord Est è passato da 15,4 miliardi a 12,5 miliardi in calo di 2,8 miliardi (-18,46%); nel Centro è passato da 28,3 miliardi a 23,6 miliardi in calo di 4,6 miliardi (-16,57%); al Sud è passato da 22,9 miliardi a 19,9 miliardi in calo di 2,9 miliardi (-13,00%); nelle Isole è passato da 10,2 miliardi a 8,5 miliardi in calo di 1,6 miliardi (-16,14%).
I dati sembrano parlare chiaro: la gestione locale dei beni pubblici è più sobria, mentre quella centrale continua a essere dispendiosa. “Negli ultimi anni – ha commentato il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi – si è spesso puntato il dito contro le autonomie locali, sostenendo che i disastri della finanza pubblica siano cagionati dalla periferia e non dalle amministrazioni centrali. Invece, è evidente come proprio a livello territoriale si registra una gestione virtuosa del debito, ridottosi a tutti i livelli nelle regioni, nelle province e nei comuni”.
Può darsi che questo miglioramento dei conti pubblici delle amministrazioni territoriali sia dovuto alla riforma “federalista” della Costituzione approvata nel 2001, che in particolare ha dato più poteri e competenze alle Regioni. Comunque sia, bisognerebbe prendere atto che la periferia è più virtuosa del centro. Logica vorrebbe che proprio al decentramento e all’autonomia locale venissero dati ancora più poteri, come prescritto chiaramente dall’art. 5 della Costituzione. Invece, il Parlamento, su proposta del Governo centrale, ha approvato il progetto di riforma della Costituzione, che prevede la restrizione dei poteri delle Regioni e delle autonomie locali (addirittura le province scompaiono dalla Costituzione) con un ritorno al centralismo statale e con la reintroduzione della clausola dell’interesse nazionale prevalente. Se questa revisione costituzionale verrà confermata con il referendum di ottobre, c’è da temere che il debito pubblico subisca ulteriori aumenti, visto che l’Amministrazione centrale continua a dare risultati negativi.
Proprio recentemente Gustavo Zagrebelsky, Presidente emerito della Corte Costituzionale, ha dichiarato: “Si canta vittoria quando la finanza internazionale rifinanzia il debito pubblico e non si vede il nodo del cappio che si stringe. Eppure c’è l’esempio della Grecia che parla chiaro”. Parafrasando gli astronauti di Apollo 13, oggi potremmo dire “Roma, abbiamo un problema”. E il problema ha un nome preciso: si chiama “debito pubblico centrale”. Non conviene peggiorare la situazione con la revisione della Costituzione, che ridarebbe più potere a chi finora l’ha usato male.

Costituzione da attuare

Quel referendum che divide

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