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Il pasticcio del Senato e il tramonto del federalismo

Rocco Artifoni il . Senza categoria

Alcune note sul progetto di revisione delle Costituzione

Nei lavori dell’Assemblea Costituente emerse da più parti (Terracini, Mortati, La Pira, ecc.) la proposta di un Senato che rappresentasse le realtà territoriali e i corpi intermedi (oggi diremmo “la società civile”). Alla fine questa ipotesi (federalista e pluralista) non ebbe uno sbocco positivo, nonostante fu sostenuta con significative argomentazioni. Si preferì optare per un Senato “politico”, espressione diretta del corpo elettorale, simile a quanto previsto per la Camera. Negli anni successivi sono state presentate alcune proposte per rivedere la scelta originaria, cercando di diversificare sia le funzioni sia la composizione del Senato rispetto all’altro ramo del Parlamento. Qualcuno invece ha ipotizzato la completa eliminazione del Senato, trasformando il sistema legislativo in una struttura monocamerale.

Altro che semplificazione
Il progetto di revisione voluto dal Governo Renzi, che verrà sottoposto a referendum nel prossimo autunno, non abolisce il Senato, che mantiene – insieme alla Camera – alcune significative competenze legislative (sui trattati internazionali, sulle leggi elettorali e costituzionali, sui referendum, sull’elezione dei giudici costituzionali, sulle funzioni del Governo, delle Regioni e dei Comuni, ecc.) e può proporre modifiche alle leggi approvate dalla Camera. Il problema sta nel fatto che per esercitare tali competenze sono previsti nove differenti procedimenti legislativi, in netto contrasto con l’annunciata semplificazione. Il rischio è che si crei una forte conflittualità tra Camera e Senato, anche perché quest’ultimo verrà eletto con criteri del tutto diversi da quelli della Camera, con ampia possibilità che si formino maggioranze molto diverse tra i due rami del Parlamento. La conflittualità prevedibilmente nascerà soprattutto dall’incertezza circa quale procedimento applicare, visto che quasi sempre le leggi riguardano più materie contestualmente.

Un federalismo soltanto di facciata
Se la riforma venisse approvata dal referendum confermativo, da un lato il Senato sarebbe quasi totalmente composto da esponenti di Regioni e Comuni, dall’altro verrebbero sottratte alcune competenze alle Regioni, che ritornerebbero ad una attribuzione statale. In altre parole, si potrebbe definire un federalismo di facciata, in cui i rappresentanti delle autonomie locali sono più presenti ma hanno meno potere. In realtà sulla reale partecipazione dei senatori prefigurati dalla riforma è lecito avanzare molti dubbi, poiché gli eletti per svolgere la funzione senatoriale non riceveranno alcun compenso. D’altra parte alcuni politici avrebbero un valido motivo per farsi eleggere senatori, in quanto godrebbero dell’immunità parlamentare, come gli attuali membri del Senato.

Regioni molto speciali
In questo contesto appare del tutto contraddittoria l’eccezione mantenuta per le Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino e Friuli), per le quali nulla cambia. Da decenni molti esperti sostengono che sono venuti meno i motivi della “specialità” delle Regioni suddette e la riforma avrebbe potuto costituire l’occasione per riavvicinarle alle Regioni “ordinarie”, se non addirittura a parificarle. Invece, si è deciso di aumentare la divaricazione. Quelle “speciali” diventano ancora più “speciali” rispetto alle altre, senza che se ne possa capire la ratio.

Fare e disfare: il Titolo V
In tutto ciò forse l’aspetto più deteriore è il fatto che nel 2001 si è radicalmente modificato il Titolo V della seconda parte della Costituzione e a distanza di 15 anni si rimette mano al medesimo capitolo della Costituzione, con un intervento di segno opposto effettuato da maggioranze molto simili (centrosinistra). Talvolta si è temuto che la Costituzione rischiasse di diventare preda di cambi di maggioranze parlamentari. Oggi sembra che sia soggetta addirittura ai cambi di leader  dello stesso schieramento o di corrente dello stesso partito.  

La fine della concorrenza?
Con la revisione verrà eliminata ogni forma di competenza concorrente tra Stato e Regioni: forse ciò porterà ad una diminuzione di conflitti tra questi due poteri, ma è probabile che ciò implichi anche una minore collaborazione tra Stato e Regioni, dato che in alcune materie non vi sarà più una sinergia. Comunque, resta il fatto che sulle materie di competenza statale il livello centrale dovrebbe produrre una legislazione generale di indirizzo, mentre le Regioni dovrebbero provvedere a normare nel dettaglio. Il che significa che i possibili conflitti restano dietro l’angolo, anzi in questo modo si fa rientrare dalla finestra la competenza concorrente fatta uscire dalla porta.

La scomparsa delle Province
Sono passati pochi anni da quando è stata autorizzata la creazione di nuove Province in varie Regioni d’Italia. Poi si è deciso di invertire la rotta, introducendo meccanismi per la diminuzione o la soppressione di alcune Province. Con la revisione della Costituzione di fatto si apre la strada alla totale abolizione delle Province, poiché questo Ente non è più annoverato tra gli Organi dello Stato. Eppure proprio le Province rappresentano un tratto distintivo dell’identità, visto che esistono dall’Unità d’Italia, e in fondo non hanno mai dato cattiva prova di sé (al contrario di quello che si potrebbe dire delle Regioni). Anche in questo caso sfugge la ratio della riforma, tanto più che nelle disposizioni finali si prevede già l’istituzione di nuovi Enti di area vasta.

Partecipazione più difficile
Da 50mila a 150mila: la riforma della Costituzione prevede di triplicare il numero delle firme autenticate in calce ai disegni di legge di iniziativa popolare. Evidentemente in questo modo si rende più arduo il compito di chi vuole proporre una legge, coinvolgendo direttamente la cittadinanza. In compenso viene aggiunto nel testo della Costituzione che “la discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari”. Dato che le proposte d’iniziativa popolare rischiano spesso di finire in qualche cassetto del Parlamento, senza venire prese in considerazione dal legislatore, l’indicazione di una garanzia di tempi certi è positiva, ma di fatto si rinvia a norme da stabilirsi.

Referendum più facili e di vario tipo
Se le firme raccolte per chiedere un referendum popolare superano le 800mila, il quorum per la validità del referendum si abbassa alla maggioranza del votanti alle ultime elezioni politiche, anziché degli aventi diritto. Anche questa potrebbe essere una novità positiva, benché l’ampia partecipazione popolare ad un referendum è l’elemento che ne caratterizza l’importanza per i cittadini. La riforma prevede anche la possibilità di “referendum popolari propositivi  e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali”. Si aprono scenari interessanti, ma il testo è poco chiaro e ancora una volta si rinvia a norme successive.

L’elezione del Presidente della Repubblica
La revisione prevede l’innalzamento delle soglie di maggioranza per l’elezione del Presidente del Repubblica. Dopo i primi tre scrutini, per i quali è prevista la maggioranza dei due terzi del Parlamento in seduta comune, non è più sufficiente la maggioranza assoluta. Con la riforma verrà richiesta una maggioranza dei tre quinti degli aventi diritto per i successivi tre scrutini e poi dei tre quinti dei votanti per le votazioni successive. In altre parole per eleggere il Presidente della Repubblica, che è il capo dello Stato e che rappresenta tutta la nazione, serve una maggioranza qualificata. Si tratta di una modifica condivisibile, anche se in realtà può essere viziata dalla legge elettorale. Se per esempio la legge elettorale (come quella in vigore, detta Italicum) consente di eleggere alla Camera il 55% dei seggi anche al partito che magari ha ricevuto al primo turno il 27% dei consensi (come è accaduto di recente), è evidente che la soglia del 60% in realtà non rappresenta nemmeno la maggioranza semplice dei cittadini. In sintesi: meglio il 60% che il 50%, ma ciò non garantisce che il Presidente della Repubblica sia eletto da una maggioranza davvero espressione della sovranità popolare. Per un ruolo così rilevante sarebbe meglio avere un consenso effettivo più ampio possibile e non soltanto basato su una maggioranza artificialmente costruita. In realtà alcuni autorevoli sostenitori della revisione costituzionale hanno pubblicamente dichiarato che questa modifica è stata inserita nel testo della riforma a causa di un emendamento non condiviso. Di conseguenza hanno già preannunciato la presentazione – dopo il referendum di ottobre – di una specifica legge costituzionale per riportare la soglia per l’elezione del Presidente della Repubblica alla maggioranza semplice (50%). Come si può capire, grande è la confusione sotto il cielo.
Purtroppo dobbiamo rilevare che oggi c’è chi considera la Carta costituzionale come il letto di casa, da fare o disfare a piacimento. Di sicuro non era questa l’idea di Costituzione che avevano coloro che – con grandi sacrifici e passione – l’hanno scritta e approvata.

La seconda parte non è separata
Il progetto di revisione della Costituzione comporta una modifica molto ampia: 47 articoli su 134. Nei 70 anni di storia Repubblicana finora non è stata approvata una riforma così consistente, che cambia in modo significativo l’organizzazione dei poteri. Molti dei sostenitori del progetto di revisione mettono le mani avanti, dicendo che in fondo si tratta soltanto di una modifica della seconda parte della Costituzione, che non tocca i principi fondamentali e nemmeno le disposizioni sui diritti o sui doveri dei cittadini contenuti nella prima parte. Il ragionamento non convince, poiché i principi trovano applicazione nel rispetto dei diritti e dei doveri, che vengono garantiti dall’organizzazione della Repubblica. Cambiando il sistema organizzativo, tutto ciò si riflette inevitabilmente anche sul qualità della convivenza, luogo concreto dell’esercizio della cittadinanza. Utilizzando una metafora sportiva, se una squadra cambia il modulo di gioco, molto probabilmente verrà modificato il rendimento dei giocatori che si ritroveranno in un diverso ruolo e tutto ciò potrebbe avere importanti ripercussioni sul risultato della partita (perché altrimenti non si capirebbe il senso del cambiamento di modulo). Per questa evidente e logica ragione, se con il referendum venisse approvata la riforma, l’equilibrio costituzionale verrebbe modificato in modo non secondario. È opportuno esserne consapevoli.

 

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