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Rassegna Stampa 1 agosto 2014

di redazione il . Rassegne

Iovine e il sistema dietro i 14 anni di latitanza – Antonio Iovine continua a parlare, stavolta rivelando il sistema attraverso il quale riusciva a vivere da latitante e a sottrarsi allo Stato. Il superboss camorrista spiega la sua fuga e ricostruisce la gerarchia del suo clan: secondo quanto emerso dal provvedimento firmato ieri dal tribunale di Santa Maria Capua Vetere Iovine racconta di affari, prestanome e meccanismi che gli hanno consentito di controllare aziende e terreni. Sempre dagli stessi documenti – come riporta Il Mattino – saltano fuori i contatti tra il boss e la famiglia dell’ex sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, oggi agli arresti al carcere di Secondigliano. Attraverso dei prestanome, infatti, Iovine tentò di acquistare un appezzamento di terreno di Giovanni Cosentino, fratello di Nicola – anch’egli arrestato. Per portare avanti questo business, Antonio Iovine si affidava ad una rete di personaggi, completamente al suo servizio. Secondo le dichiarazioni del super pentito “l’intera organizzazione del gruppo era finalizzata a preservare la mia latitanza, per questo motivo le persone a me legate io le distinguevo in tre cerchi, fra quelle che avevano contatti diretto con me fino a quelle più lontane. Naturalmente, nel tempo alcune persone sono cambiate, soprattutto tra quelle che avevano il compito di provvedere ai miei spostamenti”. La confessione prosegue con i nomi dettagliati dei componenti dei “cerchi”, dai più noti esponenti del clan agli insospettabili prestanome. Dalle dichiarazioni di Antonio Iovine scatta il blitz sui beni dei prestanome, con sequestri di immobili a Formia, Nonantola, oltre alla villa bunker di Casale.

Il diavolo e i cronisti – In seguito all’episodio di domenica scorsa della sosta della processione della Madonna del Carmine a Palermo davanti le pompe funebri del boss Alessandro D’Ambrogio – detenuto al 41 bis – arrivano le dichiarazioni di padre Pietro Leta, priore dei carmelitani. Il religioso, scagliandosi contro i giornalisti di Repubblica che hanno denunciato con un filmato l’episodio increscioso, afferma che il demonio si trova sì dentro i mafiosi, ma “fa anche breccia dentro alcuni giornalisti disposti a fare scoop a qualsiasi costo”. E, in relazione ai fatti, dichiara che “non c’è stato alcun inchino della statua della Madonna, ma solo una sosta. Durante il percorso ufficiale della processione sono state fatte almeno una quarantina di fermate”. Roberto Ginex, segretario provinciale dell’Assostampa siciliana, non ci sta e ribatte che quelle del carmelitano sono “parole sconcertanti”. Leone Zingales, in qualità di presidente del gruppo sicialiano dell’Unione cronisti, afferma: “Bene hanno fatto i colleghi di Repubblica, a riprendere l’evento, spia di di un atteggiamento diffuso di sudditanza alla cultura della prepotenza più vicino alla sueprstizione che alla religione. I cronisti non sono guidati né da Dio né dal diavolo, ma solo dalla loro coscienza civile e professionale”. L’evento non sembra essere isolato nella storia della processione: due anni fa, infatti, sotto la vara c’erano proprio il boss D’Ambrogio e il suo vice, indossando la casacca della confraternita. A queste parole, padre Leta ribatte che “il boss, infiltrato in mezzo ai confrati all’usita della statua, non ha mai fatto parte della confraternita” e che l’abito che indossava non era quello “ufficiale”, bensì “uno scapolare fatto in casa, il fai da te, passato di padre in figli”. La fermata davanti le pompe funebri era legata “solamente alla richiesta di una coppia”. La Curia, in seguito alla ricostruzione dei carmelitani, ha diramato un comunicato in cui si dice che “non sembrerebbe che vi sia stato alcun inchino, vi è stata solo una fermata per la richiesta di avvicinare un bambino al simulacro”, ribadendo però che “la mafia è una relatà profondamente antievangelica, anche se talvolta mascherata di linguaggi e cerimonie a prima vista relgiosi”.

Rosarno, da reclusa denuncia la ‘ndrangheta – Giuseppina Multari aveva sposato il figlio di una famiglia legata alla ‘ndrangheta e dal suicidio del marito il clan l’aveva incolpata della sua morte, costringendola a vivere da reclusa. Giuseppina Multari ha vissuto così gli ultimi sedici anni, tra le intimidazioni della ‘ndrangheta e la paura di non rivedere più i suoi figli. Ha trovato il coraggio di parlare, portando così all’arresto dei suoi aguzzini, che altri non erano che i suoi familiari: cognati e parenti che per anni non avevano fatto altro che vessarla e minacciarla. Secondo quanto riportato da La Repubblica, 16 le persone arrestate dai carabinieri del Comando provinciale del Ros di Reggio Calabria. Le accuse sono di traffico di stupefacenti per alcuni, sequestro di persona e riduzione alla schiavitù per altri. A Giuseppina era vietato uscire di casa, non poteva accompagnare le sue tre figlie a scuola, non aveva il diritto di fare nulla senza il permesso del suocero Domenico Cacciola. L’inchiesta “Mauser”, condotta dal pm della Dda Alessandro Cerreti, custodisce la dettagliata deposizione di Giuseppina, che ricostruisce la storia con il marito Antonio Cacciola, il suicidio nel 2005 e l’inizio dell’inferno per la donna. A soli 25 anni Giuseppina, spinta dalla disperazione per la situazione costretta a subire, tenta di togliersi la vita gettandosi in mare, ma il cellulare che squilla fa sì che la donna torni in sé e pensi alle tre figlie. è il fratello Angelo al telefono che la rassicura, dicendole che è giunto il momento di porre fine alla situazione ormai estrema. Un altro tassello di dolore nella vita di Giuseppina: Angelo scompare nel nulla, la donna è convinta che sia stato ammazzato per colpa sua. L’unico appiglio, l’unica fioca luce di salvezza svaniscono nella scomparsa del fratello e Giuseppina è costretta a tornare nella casa infernale dei Cacciola. Solo dopo pochi giorni la donna decide di collaborare e salvare sé stessa e le tre figlie da quella vita: scrive ai carabinieri una lunga lettera, viene prelevata insieme alle tre bambine e portata in una località segreta. La forza e le parole di Giuseppina hanno portato ieri all’arresto del suocero Domenico Cacciola (da 2013 irreperibile), della suocera Teresa D’Agostino e dei cognati Gregorio, Vincenzo e Maria, oltre ad altri soggetti implicati nella vicenda.

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