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Dalle madri ai figli. Se la ‘ndrangheta perde i suoi soldati

di Michela Mancini il . Calabria

L’inchiesta*/// —  Vivono una guerra permanente in un mondo diviso da una trincea. Schierati come soldati: da una parte ci sono loro, dall’altra c’è il Paese.  Educati in nome dell’onore, sono cresciuti imparando una sola “regola”: quella mafiosa. Prima d’ogni altra cosa viene la famiglia, che nelle loro terre vuol dire ‘ndrangheta. A quattordici anni sono già uomini fatti: sono i ragazzi della mafia. Per conto dei loro padri, latitanti o in galera, hanno chiesto il pizzo ai commercianti, hanno trafficato droga, hanno ucciso. Fa parte delle regole, non si può dire di no, non sono ammessi passi indietro. Alcuni, raccontano, sotto ai piedi hanno tatuate facce di carabinieri, camminano calpestando lo Stato. Uno Stato che non conoscono.

Dalla ‘ndrangheta ad una “casa-famiglia”. Luca – lo chiameremo così – era uno di loro. Il padre fu ucciso in un agguato mafioso quando era ancora piccolo, i fratelli sono stati arrestati per omicidio e associazione mafiosa, uno è al 41 bis, la madre non lo tocca da dieci anni. Luca è abbandonato a se stesso, recita il ruolo che la ‘ndrangheta gli ha assegnato, si prepara alla stessa sorte scontata dai fratelli maggiori. Passa la notte in compagnia di pregiudicati, a scuola non ci va, alla fine la lascia. La madre è una donna stanca, non ha la forza di indicargli una direzione diversa. Passano i giorni, i mesi, gli anni, Luca è ostaggio di un mondo che non ha scelto. Assoldato nelle schiere di una delle più potenti famiglie di ‘ndrangheta del reggino, legge un copione già scritto.  Finché un giorno viene sorpreso dalle forze dell’ordine con degli amici attorno a un’auto danneggiata della Polizia ferroviaria di Locri. Il processo per furto e danneggiamento si conclude con l’assoluzione per carenza di prove. Il suo fascicolo però viene letto con attenzione dai magistrati del Tribunale dei minori di Reggio Calabria. I giudici Roberto Di Bella e Francesca Di Landro, su richiesta del pm minorile Francesca Stilla, decidono di emettere un provvedimento – d’urgenza e inaudita altera parte (senza contraddittorio con la famiglia contro parte, rimandato ad un secondo momento) – con il quale Luca «viene affidato al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità da reperirsi fuori dalla Calabria, i cui operatori professionalmente qualificati siano in grado di fornirgli una seria alternativa culturale». In un primo momento la madre oppone resistenza, non vuole che anche questo figlio le venga portato via. Quando le viene spiegato che l’allontanamento del ragazzo non è punitivo ma volto ad evitare che il figlio subisca la sorte dei fratelli e del padre, accetta di seguire un percorso di recupero , ma soprattutto non si oppone a quello programmato nell’interesse del figlio, nella speranza – inconfessata – di evitare quello che anche a lei sembra un destino ineluttabile e al quale non sembra avere le risorse per contrapporsi. Paradossalmente, anche i fratelli più grandi del ragazzo incoraggiano la madre a seguire “la strada nuova” indicata da “un giudice che per una volta si interessa di loro”. Luca è ancora in comunità, tra poco potrà ritornare a casa. L’apertura ad un nuovo mo(n)do è stata graduale; ha avuto inizio nel momento in cui ha capito che qualcuno si stava prendendo cura di lui e che quel qualcuno rappresentava lo Stato, il nemico per eccellenza. All’inizio del percorso, voleva essere invisibile agli sguardi, ai sentimenti, si nascondeva agli altri e a sé stesso. Adesso partecipa agli eventi organizzati dalle associazioni antimafia del territorio in cui vive. Ha cominciato anche a lavorare come volontario in una struttura che si prende cura di bambini disagiati, li aiuta a fare i compiti, ci gioca. Luca ha ripreso a studiare. Periodicamente va a trovare la madre; i loro percorsi procedono parallelamente, quando si incrociano le loro mani, la speranza di un cambiamento smette di essere un’utopia.

Reggio Calabria, una rivoluzione silenziosa contro la ‘ndrangheta. La  sua storia è solo un tassello di una rivoluzione che sta avvenendo in un piccolo tribunale di frontiera. Proprio quello che ha seguito il percorso di Luca. Il presidente del Tribunale dei minori Roberto Di Bella, prima gip nella stessa struttura, ha visto passare in quelle stesse stanze i padri e i fratelli maggiori dei ragazzi che ora si trova davanti. La conferma che la ‘ndrangheta si eredita, e che le famiglie si assicurano il potere sul territorio grazie alla continuità generazionale. Una spirale che – spiegano gli inquirenti – bisogna interrompere. Il tentativo  – avviato con questi provvedimenti, adesso se ne possono contare una ventina – non è la mera sottrazione di questi ragazzi ai boss. Una volta emanato il provvedimento di allontanamento, i minori vengono ospitati in case-famiglia, dove educatori e psicologi creano dei percorsi di rieducazione individuali. Come a dire: spostarli non basta, bisogna che lo Stato si impegni a fornire una valida alternativa al contesto mafioso da cui provengono. Un percorso che affonda le radici nel dolore di una donna. Tutto ha inizio nel 2011, dopo la morte di Maria Concetta Cacciola, testimone di giustizia calabrese. Costretta ad abbandonare la località protetta e a ritornare in Calabria sotto pressione dei genitori e del fratello (ora condannati per maltrattamenti), Cetta è morta il 20 agosto del 2011 dopo aver ingerito acido muriatico. È stato proprio il suo caso a dare l’impulso a questa serie di provvedimenti che allontanano provvisoriamente (e in casi particolarmente gravi) alcuni minori dalle famiglie d’appartenenza. Famiglie di ‘ndrangheta. Queste misure, emanate dal Tribunale dei minori di Reggio Calabria, hanno in sé una portata rivoluzionaria, proprio in virtù della struttura familiare della mafia calabrese. Si propongono, infatti, di spezzare i legami di sangue su cui si regge l’organizzazione criminale. La storia della Cacciola e dei suoi tre bambini è un caso limite – come tutti quelli presi in esame – che ha acceso i riflettori sull’uso che le famiglie di ‘ndrangheta fanno dei minori. I figli di Maria Concetta sono stati utilizzati come merce di scambio per far ritornare la donna a Rosarno. Hanno subito violenze psicologiche senza pari dai loro nonni diventando protagonisti di una storia così tanto più grande di loro. Dopo un’interrogazione parlamentare sollevata dalla deputata del Pd Laura Garavini  (in seguito alla morte di Maria Concetta) il Tribunale dei minori ha richiesto un’indagine da parte dei servizi sociali in casa Cacciola – dove in quel momento risiedevano i genitori di Cetta – per valutare le condizioni in cui i tre ragazzini vivevano. I servizi non annotarono nessun caso di maltrattamento. L’indagine fu  archiviata. Quando il 4 febbraio del 2012  il gip di Palmi Fulvio Accursio emise  l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Michele Cacciola, sua moglie Anna Rosalba Lazzaro e il figlio Giuseppe, fu chiaro il ruolo che i tre minori avevano avuto nella vicenda. Un mese dopo con un provvedimento a firma dei giudici Francesca Di Landro e Roberto Di Bella, i tre minori sono stati allontanati. Il padre Salvatore Figliuzzi ha perso la sua potestà genitoriale. I tre bambini sono stati in un primo momento ospitati in una casa-famiglia, successivamente li ha accolti una parente. Le due bambine, affiancate da uno psicologo, stanno facendo un percorso di rieducazione. Il figlio maggiore di Cetta, ormai maggiorenne è ritornato a vivere nel suo paese. Lo stesso provvedimento è stato emesso dal Tribunale dei minori di Reggio per i figli di Giusy Pesce, per consentire ai suoi tre bambini di raggiungere la madre in una località protetta. In questi casi la decisione dei magistrati reggini era necessaria, non solo per la tutela dei minori, ma anche per garantire il proseguimento delle collaborazioni. Sapere di poter portare i figli con sé, incoraggia le donne ad affrancarsi dalla famiglia d’origine. La ‘ndrangheta le teme più delle operazioni delle forze dell’ordine. Non solo per la reputazione dei clan: ciò che più li spaventa è l’allontanamento dei minori dalle  proprie famiglie. Senza soldati, la ‘ndrangheta che esercito è? In una delle intercettazioni relative al caso Cacciola, il padre Michele dice: «Avevo una famiglia che… che me la invidiavano. Guarda questi indegni di merda, guarda!  Mi divertivo a guardarli a questi nipoti. Il giorno chi c’era più contento di me, chi c’era più contento di me. Almeno mi hanno lasciato questi, ma mi hai preso la figlia. Oh indegni gli prendete i figli ai padri, ai padri… ai padre gli prendete i figli, dov’è questa legge? Questa legge è? Per combattere a me mi prendi la figlia?! Per combattere a me?!». Poche parole in grado di spiegare in diretta la portata di questi provvedimenti antimafia.

Liberi di scegliere”: la società civile si mobilita. Il provvedimento di allontanamento di questi minori rappresenta la chiusura di un cerchio: dalle donne ai figli. Il percorso è già segnato, a Reggio hanno avuto il merito di intuirlo. La cosiddetta “primavera calabrese”, il fenomeno del collaborazionismo femminile, è solo l’input di un processo interno alla ‘ndrangheta. Se i figli sono il motore propulsore della collaborazione – ma al contempo possono rappresentarne il tallone d’Achille – su di loro che bisogna concentrarsi per estirpare il problema alla radice. La ‘ndrangheta ha bisogno di uomini: se li garantisce allevandoli fin da quando sono bambini. Lo Stato può intervenire su questo nodo, questi casi – ci spiegano –  non sono sufficienti a scardinare l’intero sistema ma è un inizio.  Ma i giudici da soli non possono vincere. Bisogna creare una rete che sia a sostegno di questo percorso. Con questo obiettivo nasce l’idea di “Liberi di scegliere”, un percorso da presentare al ministero della Giustizia, firmato dal Tribunale dei minori reggino, dall’associazione Libera-Calabria, dal centro comunitario Agape e dalla camera minorile di Reggio Calabria. Il piano coinvolge un’équipe multidisciplinare che vede schierata non solo la magistratura, ma anche psicologi, educatori e volontari di Libera, della Caritas italiana, dell’associazione Giovanni XXIII  e di Addio Pizzo Messina. Alla base c’è il tentativo di coinvolgere anche i servizi di giustizia minorile, gli enti locali, gli uffici scolastici territoriali e le agenzie di collocamento professionale. Se il progetto venisse finanziato, ci spiegano i responsabili –  quelli che ora sono piccoli germogli potrebbero diventare alberi enormi. E toglierebbero la terra sotto ai piedi alle ‘ndrine in Calabria e nel resto del Paese.

* Michela Mancini, giornalista praticante presso il “Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo”-  e’ ‘laureata presso l’Università de La Sapienza di Roma in Editoria e Giornalismo con la tesi di laurea “Cose di famiglia: figli ostaggio dalla ‘ndrangheta” . Relatore Stefano Lepri. Correlatore Pietro Veronese.

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