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Matteo Messina Denaro, 20 anni di latitanza

di Rino Giacalone il . Sicilia

di Rino Giacalone, Trapani. Perché è impossibile dire di “no” alla mafia evitando di essere definiti “professionisti dell’antimafia”? Questo succede perché il “no” alla mafia dà fastidio quanto raccontando fatti e cronache giudiziarie, oppure descrivendo il contenuto delle sentenze, le malefatte della nuova mafia, quella che non spara ma che gestisce imprese e appalti, emette false fatture, ottiene finanziamenti pubblici. La mafia viene colpita ma non viene rinnegata, anzi, chi è colpito dalle indagini viene aiutato e rispetto a questa circostanza non c’è altra spiegazione se non quella che oggi la mafia c’è ed è forte, si è parecchio infiltrata, condiziona i pensieri e l’agire quotidiano, riuscendo a ottenere sempre nuovi adepti che sostenendone l’inesistenza di fatto garantiscono il suo perpetuarsi. Adepti che usano le parole come armi La “nuova” mafia serve, serve ancora a tante cose.

La mafia di Matteo Messina Denaro. La provincia di Trapani per adesso dovrebbe essere quella con addosso tanti riflettori accesi. E’ la patria di Matteo Messina Denaro, sanguinario, assassino, stragista, e oggi a capo di una incredibile holding imprenditoriale, non imprese dell’illecito ma imprese lecite che si muovono con tanto di nomi e cognomi, non oscure, nascoste, ma presenti, palpabili. Matteo Messina Denaro è oggi definito un super latitante, 51 anni, 20 dei quali trascorsi da ricercato, eppure qui a Trapani l’intelligence investigativa sembra essere stata lasciata in libera uscita, a dispetto di quello che invece un tempo andavano dicendo Paolo Borsellino e Giovanni Falcone che era a Trapani che volevano rafforzare le strutture investigative per un semplice ragionamento: dicevano infatti che se a Palermo esisteva l’anima militare di Cosa Nostra, la cupola, a Trapani c’era ben altro, c’era la mafia infiltrata nell’economia, nelle impresa, nelle banche, dentro le istituzioni, c’èra, e c’è, la cassaforte di Cosa Nostra, e non tanto per dire perché è roba di questi anni maxi sequestri di milioni di euro, imprese, residence turistici, centri commerciali, terreni, immobili, palazzine, cantieri pubblici e privati, tutti recano il sigillo del super latitante Matteo Messina Denaro. La mafia trapanese che un tempo ha saputo sparare (le armi non sono andate perse ma sono state messe da canto, in armadi che se serve, lo sappiamo, possono essere riaperti) oggi è sommersa, vive dentro le imprese, essa stessa è impresa, una volta faceva eleggere i politici, oggi elegge mafiosi destinati a diventare politici, è rappresentata da mafiosi dalle grandi possibilità imprenditoriali, manager del commercio e del cemento. Comune denominatore lo stesso di sempre, Matteo Messina Denaro, il boss latitante dal 1993, quello che con l’ex suo fidato gioielliere Ciccio Geraci, ora pentito, si vantava che da solo aveva riempito un intero cimitero per i suoi morti ammazzati, adesso con le mani pulite dal sangue delle sue vittime, comprese quelle delle stragi mafiose del 1993 di Roma, Milano e Firenze, Matteo Messina Denaro guida la mafia che è diventata impresa, e che è stata capace di intercettare quei fondi pubblici che sono arrivati per anniin una provincia povera che invece di diventare ricca si è ritrovata ogni giorno sempre più povera nonostante i finanziamenti pubblici giunti qui in maniera ricca e copiosa. Per completare la descrizione di questo territorio non si possono non citare i tanti, sindaci compresi, che hannomostrato, e mostrano, sottovalutazione al fenomeno. A Trapani ci fu un sindaco, Erasmo Garuccio,che disse che la mafia non esisteva, un altro che sopportò i mafiosi che andavano a battere i pugni sul suo tavolo, un altro ancora, Girolamo Fazio che ha negato la cittadinanza onoraria ad un prefettocoraggioso, Fulvio Sodano. L’attuale, Vito Damiano, preferisce chiamare malandrini i mafiosi, così per non turbare gli studenti.

Quei sindaci sfacciati. In provincia di Trapani c’è un paese del Belice, Campobello di Mazara, il paese dove era andato ad abitare il fratello del capo mafia latitante, Salvatore Messina Denaro, e dove avevano la loro base alcuni degli ultimi favoreggiatori del boss (arrestati) che smistavano i suoi “pizzini”, e che secondo la prefettura andava sciolto per inquinamento mafioso molti anni addietro, e invece per sciogliere il Comune di Campobello di Mazara sono servite due ispezioni prefettizie e poi dinanzi all’evidenza dei fatti, l’arresto del sindaco, Ciro Caravà del Pd, è scattato il provvedimento. Caravà non passava giorno che andava ad inaugurare beni confiscati destinati al riutilizzo, oggi i commissari insediati al Comune hanno davanti un elenco di beni confiscati molto malconci, altro che riuso. E questo è un esempio. Ce ne sono diversi. A Salemi per esempio il sindaco e critico d’arte Vittorio Sgarbi prima di dimettersi a ridosso dello scioglimento dell’amministrazione per inquinamento mafioso, non ha mai fatto mistero del fatto che lui erasindaco grazie al sostegno di un ex sorvegliato speciale Pino Giammarinaro, Dc, marca andreottiana, accusato e assolto dalle accuse di mafia, ma non c’è una pagina delle più recentiindagini antimafia della provincia di Trapani dove non risulti citato. Sgarbi recependo subito quale “chiesa” avrebbe servito da poco eletto, quasi dovendo togliersi qualche sassolino dalla scarpa,andò a dire che la mafia non esisteva più, che l’unica espressione era racchiusa in un appalto per l’energia eolica, e anzi fuori dall’eolico la mafia non c’era. Nel frattempo silenzio dinanzi a sequestri e confische, ai complici arrestati mentre si passavano i bigliettini del capo mafia latitante.Le pale eoliche sono inquinanti per l’ambiente, la mafia fa peggio ancora. A Trapani un sindaco, quello di Valderice, Camillo Iovino, è stato condannato per favoreggiamento e non si è dimesso e voleva pure ricandidarsi, un paio di consiglieri provinciali sono stati arrestati, l’ex presidente della Provincia, Mimmo Turano, ha dissanguato le casse dell’ente, si accompagnava con imprenditori vicini a Messina Denaro e in pompa magna è stato eletto all’Ars, Parlamento regionale, e ora alla Provincia, come a Valderice, la prefettura ha mandato i suoi ispettori antimafia, anche perché prima di Turano, particolare non indifferente, ma finito sotto silenzio, presidente era il senatore Tonino D’Alì, sotto processo a Palermo oggi per concorso esterno in associazione mafiosa.. In Consiglio comunale a Trapani siedono consiglieri chiacchierati o sottoposti a giudizio, come Giuseppe Ruggirello, ex arbitro di calcio, funzionario delle Finanze, che concedeva favori in cambio di sesso. Presidente del Consiglio comunale è tale Giuseppe Bianco, condannato (riabilitato) per corruzione, un altro consigliere fu arrestato per tentato omicidio, condannato per lesioni gravi anche lui però riabilitato. Siede anche l’ex sindaco Fazio, due condanne definitive sul groppone, ma anche per lui, con precedenti giudiziari, si sono aperti le porte del parlamento regionale. E’ proprio vero che a Trapani per fare carriera politica non bisogna essere incensurati. A completare scenario e clima c’è da ricordare che a Trapani ci sono politici sfortunati, quelli che si trovano i giardinieri che di notte fatto i guardiaspalle dei mafiosi. Succede ad Alcamo, all’ex senatore del Pd Nino Papania. Un suo factotum, Filippo De Maria è finito dentro per mafia, tra le intercettazioni quelle nelle quali si preoccupava delle sorti del Pd e delle riunioni indette dal senatore Papania. Ma ad essere intercettate anche le invocazioni di aiuto di chi a lui chiedeva una mano d’aiuto per uno sconto su qualche estorsione mafiosa. Ora il gip nella ordinanza ha scritto che non c’è un solo indizio che possa permettere di dedurre che Papania sapesse di avere a che fare con un mafioso, ma tutto il resto della città di Alcamo sapeva che se bisognava risolvere una richiesta estorsiva era con De Maria che bisognava parlarne. Papania che subì anche un attentato e che si scopre ora ad opera di un paio di delinquenti che volevano da lui la raccomandazione per essere assunti presso la società di raccolta rifiuti, Aimeri. Papania pare che con loro non si impegnò adeguatamente ma con altri si a leggere un rapporto dei carabinieri dove è indicato in combutta con soggetti indagati per assunzioni pilotate presso proprio l’Aimeri.

U siccu”, adorato come un Dio. L’olio è importante a Castelvetrano, è prodotto dalla famosa nocellara, prodotto con tanto di Doc e denominazioni riconosciute, e poi “olio” è il soprannome di “iddu”, anche così lo chiamano a Matteo Messina Denaro, oltre che Diabolik, “la testa dell’acqua”, “u siccu”, “lo dobbiamo adorare – dicono i suoi più fedeli complici – perché è da lui che viene il bene”. E lui nei pizzini ricambia, assicura che di lui si sentirà ancora parlare nonostante i “torquemada” da strapazzo che lo inseguono, magistrati e poliziotti che “hanno fatto un golpe bianco”, si definisce un perseguitato come quel personaggio uscito da un libro di Pennac, ricorda Craxi e dà dell’opportunista ai politici di oggi, a tutti poi preferisce l’anarchico Toni Negri. A Castelvetrano l’ex sindaco Udc Gianni Pompeo è stato quello che ogni volta se la prendeva a male se si parlava della sua città legandola al capo mafia latitante Matteo Messina Denaro. Se proprio si deve dire no alla mafia a Castelvetrano è meglio organizzare un corteo dove non si parli di mafia e di Messina Denaro, e sul palcoscenico magari si portino due, tre attori delle fiction antimafia di successo così da suscitare la gioia delle ragazzine. Non si parli di mafia ma di legalità. L’ultima occasione ha visto qualcuno tentare di mettere le cose in chiaro, a qualcun altro non è stato permesso parlare, il nuovo sindaco, Felice Errante, che mai si è pentito davvero di avere detto che “Matteo Messina Denaro non è il primo dei problemi”, dal palco ha ripetuto la solita manfrina della difesa della città dicendo che nessuno deve metterla sott’accusa: non è Castelvetrano sotto accusa, ma la mafia, Messina Denaro e gli struzzi della politica. A Castelvetrano la maggioranza dei cittadini è contro la mafia, ma forse una parte pensa che avercela non fa poi tanto male. Se poi c’è qualcuno che dice pubblicamente che Castelvetrano deve essere la città che deve passare alla storia come il luogo dove è stato arrestato il mafioso ed assassino Matteo Messina Denaro, ecco che scatta subito la vendetta, come quella subita dal consigliere comunale del Pd Pasquale Calamia, al quale complici del boss diedero fuoco alla villetta, mentre ad un imprenditore oleario, Nicola Clemenza,  che volle organizzare un consorzio per sottrarre il potere del prezzo a poche persone, anche lui ha dovuto fare i conti con le intimidazioni. L’ultimo imprenditore vittima di intimidazione è un giovanissimo Vincenzo Italia.

I soldi spariti. Per non allungare troppo, Trapani è la città che nel periodo più recente è stata attraversata da fiumi di denaro pubblico, 488, finanziamenti per patti territoriali, ma la maggiorparte, afferma uno studio della Cgil, è finito dentro casse vuote, o in casseforti in Svizzera, Soldi sporchi di sangue, come quello dei bresciani Cottarelli, Angelo, il capofamiglia, aveva conosciuto un paio di trapanesi, hotel e ristoranti di lusso, gite in barca, in cambio di fatture false per ottenere soldi facili. Avevano messo su una holding che doveva produrre vino dalle etichette nemmeno tanto ammiccanti, una di queste era “baciamo le mani”, ma quando i soldi cominciarono a mancare da Trapani partì una spedizione punitiva verso Brescia, Angelo Cottarelli, sua moglie e il figlio di 17 anni, furono barbaramente uccisi, sgozzati come animali, all’ergastolo sono stati condannati due cugini di Paceco, Vito e Salvatore Marino, figlio e nipote di un boss della mafia, Mommo u nano, Girolamo Marino, che a metà degli anni ’80 si era rifutato di eseguire un ordine di Matteo Messina Denaro.

Tanti delitti, una sola trama. Sono pagine di indagini diverse, ma il filo, la trama, sembrano essere gli stessi. Si parte dall’omicidio nel 1983 del giudice Ciaccio Montalto, per continuare con la strage di Pizzolungo del 1985, l’omicidio del giudice Giacomelli nel 1988, il delitto di MauroRostagno, settembre 1988, fino al barbaro assassinio dell’agente di custodia Giuseppe Montalto, antivigilia di Natale del 1995, la mafia che spara, uccide, riempie del sangue delle sue guerre città come Marsala ed Alcamo, e mentre ha fatto affari, grandi affari. E’ una mafia che non ha pentiti e se qualcuno decide di collaborare passa per untore, come succede all’ex patron del Trapani Calcio Nino Birrittella. In poco meno di due anni ci sono già cinque sentenze che condannano la mafia diventata impresa grazie alle sue confessioni. Ma in città lui passa per untore, soprattutto da quando ha messo nei guai l’ex vice presidente della Regione Bartolo Pellegrino, assolto per concorso esterno, prescritto invece per una mazzetta spartita con imprenditori e mafiosi per un programma costruttivo. Pellegrino uscì quasi indenne dal processo di primo grado e il Capodanno successivo andò a far festa ad Arcore, a casa del presidente Berlusconi. Pellegrino conferma di avere bussato ma non gli fu aperto, Berlusconi disse di non sapere nemmeno chi è Pellegrino, ma guarda caso a qualche giorno da quella visita il premier ebbe la pensata di dire che tra le riforme da introdurre nella giustizia c’era quella di impedire al pm di appellare sentenze di assoluzione e di prescrizione, giusto giusto come succedeva a Pellegrino.

Antimafia nascosta, il silenzio la regola. A Trapani non sono i mafiosi che vivono nascosti, ma deve stare nascosto,  evitare di gustarsi anche la più piccola soddisfazione che la vita può dargli, chi la mafia la combatte, con le indagini, con le cronache giornalistiche, chi insomma le cose non le manda a dire. Nel 1985 davanti ai corpi straziati delle vittime della strage di Pizzolungo, Barbara Rizzo e dei suoi due gemellini, Giuseppe e Salvatore Asta, i cui corpi fecero da scudo al tritolo mafioso destinato al pm Carlo Palermo e alla scorta di questi, rimasti illesi, c’erano sindaci che andavano dicendo che la mafia non esisteva, oggi dinanzi agli arresti, alle condanne, si dice che la mafia è sconfitta, fateci caso dall’85 ad oggi continuano a dirci che la mafia non esiste. Non è solo la gente a voltarsi dall’altra parte, ma anche chi dovrebbe vigilare. E così può accadere che un imprenditore, Vito Tarantolo, che non è titolare di nulla possa andare in banca a contrattare fidi per le sue imprese, assistere alla stipula di contratti firmati da prestanome davanti a funzionari di banca e notai. Nessuno ha nulla da obiettare. Un altro imprenditore, Ciccio Morici, alla luce del sole ha fatto incetta di appalti andando in giro a dire tranquillamente che lui era un raccomandato del senatore D’Alì. Un vecchio mafioso uscito dal carcere da poco, Ciccio Genna, riceve ogni domenica il suo bagno di folla passeggiando per il “borgo”, periferia di Trapani.

Il silenzio sui fatti gravi è la regola, silenzio sul fatto che la mafia dal carcere riesca ancora a mandare messaggi , pilota società, intesta beni, manda a dire i suoi desideri a senatori e politici, ricorda gli impegni presi. E ci si sente dire che tra la mafia e l’antimafia è meglio stare in mezzo, come se l’antimafia fosse lei stessa un male, in questo territorio spesso si sente citare Sciascia e il suo articolo sui professionisti dell’antimafia ma spesso per dimenticare i morti ammazzati per mafia e offrire compassione ai familiari dei colpevoli. Insomma sono passati oltre 30 anni dalla morte di Peppino Impastato nella vicina Cinisi, ma la voglia di mafia che Peppino incontrava per le strade del suo paese non è diversa da quella che si incontra per le strade di Trapani

 

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