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Cie, inutili e dannosi. Parola di Medici per i diritti umani

di Bruna Iacopino il . L'analisi

Centri di identificazione ed espulsione? Completamente inutili e dannosi. Parola di Medici per i diritti umani, firmataria di “Arcipelago Cie…”  un accurato rapporto ( il primo stilato da un’organizzazione indipendente), realizzato nell’arco di un anno da un equipe di 12 persone e che ha visto coinvolti tutti i centri italiani. Scopo dell’indagine, che ricalca per molti aspetti, finanche le conclusioni, numerosi altri già stilati ( anche a livello istituzionale, basti pensare al rapporto della Commissione De Mistura o a quello realizzato dalla Commissione diritti umani del Senato) dare una risposta a tre semplici quesiti gli stessi che ormai, buona parte della società civile, comincia a porsi: “ I centri di identificazione ed espulsione (CIE) garantiscono il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali degli stranieri trattenuti? A quindici anni dall’istituzione di questi centri, qual è la reale efficacia dell’istituto della detenzione amministrativa nel contrasto dell’immigrazione irregolare? Esistono altri strumenti meno afflittivi per affrontare questo fenomeno?”

E la risposta viene data fornendo i dati, quelli desunti attraverso l’indagine condotta sul campo ( i questionari e le interviste ai reclusi e al personale che lavora nei centri, forze dell’ordine e enti gestori) e quelli ottenuti da fonti ufficiali, nonché tramite la comparazione analitica con gli altri paesi europei che posseggono analoghe strutture atte alla detenzione amministrativa. Il trattenimento ( prolungato fino a 18 mesi) non solo non è funzionale all’espulsione dello straniero irregolare ( i dati parlano infatti di un 50% circa di espulsioni effettuate) ma danneggia pesantemente i reclusi costringendoli in un limbo in cui vige l’indeterminazione assoluta ( a partire dai regolamenti interni che variano da centro a centro e che il più delle volte non vengono forniti agli “ ospiti”), dove nulla si puo fare se non aspettare, dove non si possono tenere oggetti come penne e pettini, l’assistenza sanitaria è di natura basilare e le attività ricreative molte volte inesistenti e dove i tentativi di fuga e l’autolesionismo sono la norma, tanto da poter parlare senza ombra di dubbio di trattamenti che violano la dignità e i diritti fondamentali. Emblematici per capire di cosa si parli i casi di Yassim e Mohammed, il primo trattenuto nel Cie di Milo pur avendo una duplice frattura molto grave al calcagno e bisognoso di cure specialistiche, il secondo detenuto a Gradisca per 14 mesi pur essendo gravemente depresso a causa della detenzione stessa e  a rischio suicidio certificato dalle strutture sanitarie specialistiche della Asl. Due casi estremi certo, ma che non sono di isolati e che raccontano del malessere psicologico che spinge la maggior parte dei detenuti a fare largo uso di psicofarmaci o a fare ricorso ad atti di autolesionismo anche gravi.

Ma chi sono questi “trattenuti”, che faccia hanno che nazionalità? Stando al rapporto buona parte di essi è rappresentata da ex detenuti provenienti dal circuito carcerario, molti cittadini comunitari, che però di norma potrebbero essere trattenuti per un massimo di quattro giorni, fra le donne un buon 80% risulta essere vittima di tratta, e infine ( fenomeno relativamente recente) homeless. Una popolazione variegata dunque e sottodimensionata rispetto alla reale capienza dei centri stessi onde evitare tensioni eccessive e possibili esplosioni di violenza, riferisce il rapporto. Tensioni molte volte provocate non solo dalla condizione di privazione della libertà, ma anche da servizi carenti e dalla scarsa manutenzione, situazione, resa sicuramente peggiore dagli appalti concessi al ribasso già a partire dallo scorso anno.

Tutti elementi in gran parte noti, criticità ampiamente sottolineate nel corso degli ultimi anni e nei contesti più diversi e che giustificano le richieste: di chiusura definitiva dei Cie e dell’adozione del trattenimento come misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, come del resto previsto dalla direttiva rimpatri. Richiesta ora indirizzata al nuovo esecutivo.

 

Per info e approfondimenti

http://www.mediciperidirittiumani.org/

 

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Bruna Iacopino

“Lei non è una giornalista è un'attivista”... a distanza di qualche anno quello che voleva essere un insulto è in realtà la mia presentazione, se attivista significa cercare di raccontare mondi marginali, facendolo “dai margini”. Il mio “attivismo” nel mondo dell'informazione inizia circa 10 anni fa in seguito all'incontro con l'associazione Articolo21 e da allora non si è più fermato. Attualmente scrivo per Articolo21, Confronti e I Siciliani giovani. I temi di cui mi occupo più di frequente? Immigrazione, carcere, rom. Perchè sono convinta che è proprio partendo dal racconto degli ultimi che si riesce a fare una buona informazione ed è solo raccontando le storie dimenticate che si ristabilisce un criterio di giustizia ed equità sociale. Quello che fa ogni giorno Liberainformazione.

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