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Un testimone dimenticato

di Raffaele Sardo il . Campania

La sua testimonianza è stata determinante per far arrestare e condannare l’assassino di don Giuseppe Diana, ma non è stato mai riconosciuto come “testimone di giustizia”.  Augusto di Meo, il fotografo amico del sacerdote di Casal di Principe che la mattina del 19 marzo 1994 vide in faccia il killer che sparò cinque colpi di pistola per ammazzare don Diana, ha citato in giudizio il Ministero dell’Interno per ottenere un riconoscimento che a diciannove anni da quei fatti, non è mai arrivato.

Fu grazie al suo coraggio se gli inquirenti cominciarono da subito la caccia a colui che aveva osato profanare una chiesa con l’uccisione di un prete. Appena dopo il delitto, Di Meo riconobbe in fotografia la persona che aveva sparato quella mattina: “Si è lui, è Giuseppe Quadrano – disse deciso il fotografo ai carabinieri che lo interrogavano – è entrato in chiesa e prima di sparare ha chiesto: “Chi è don Peppe?”. Quadrano era uno dei killer del cartello De Falco-Caterino, in guerra contro il gruppo camorristico degli Schiavone-Bidognetti. Di Meo lo riconobbe anche in Televisione, per la seconda volta, quando lo vide scendere da un aereo che lo riaccompagnava in Italia dopo una breve latitanza in Spagna. Aveva poi confermato la sua versione nel dibattimento processuale fornendo anche molti particolari del killer, contribuendo così a scagionare Vincenzo Verde, accusato dalla stesso Quadrano di essere l’autore materiale dell’omicidio. “La testimonianza di Augusto Di Meo – dice l’avvocato Alessandro Marrese, che ha curato il ricorso contro il Ministero dell’Interno – è stata riconosciuta come fondamentale dalla corte di Cassazione nella sentenza emessa il 4 marzo del 2004. Grazie a lui la versione fornita dal collaboratore di giustizia, Giuseppe Quadrano, non è stata ritenuta credibile. Quadrano si era prima dichiarato completamente estraneo all’omicidio. In una seconda fase aveva dichiarato di aver partecipato all’organizzazione dell’omicidio, ma sostenendo che l’autore materiale dell’uccisione di don Diana fosse Vincenzo Verde. E, inoltre, che alla base del delitto vi fosse il mancato funerale in chiesa di un parente dello stesso Quadrano e il fatto che Don Diana avesse custodito armi per conto del clan De Falco, e consegnate tre anni prima al clan Schiavone”. Tutto falso. Don Diana fu ucciso perché – è la motivazione della Cassazione – “Quella morte appariva come un gesto simbolico e dirompente che avrebbe dovuto accendere la guerra di mafia tra il clan dei casalesi e quello facente capo a De Falco. Una morte simbolica che contemporaneamente costituiva una vendetta personale di Quadrano e un obiettivo per l’intero gruppo facente capo a De Falco, un’affermazione di potere nel territorio di pertinenza degli Schiavone”.

“Dopo quella testimonianza, Di Meo – continua l’avvocato Marrese – temendo probabili ritorsioni, fu costretto a chiudere la sua attività di fotografo a Villa di Briano per l’impossibilità di continuare una vita serena. Così si recò in Umbria, insieme con la moglie e i due figli piccoli, dove tentò di trasferire la propria attività di fotografo professionale, ma senza successo. Negli anni passati in Umbria, intanto, ha dovuto attingere a tutti i suoi risparmi per mantenere se stesso e la sua famiglia, maturando anche diversi debiti, perché lo Stato non gli ha mai fornito alcuna protezione, nè lo ha mai aiutato dal punto di vista economico”. Eppure Augusto Di Meo, oggi 52enne, che è ritornato da quindici anni a vivere facendo il fotografo nei suoi luoghi di origine, continua a raccontare di quella mattina a centinaia di ragazzi che ogni anno passano nelle “terre di don Diana”, per i campi di lavoro promossi da Libera. Il 30 novembre del 2012 gli è stato assegnato il “premio Nazionale don Giuseppe Diana”, insieme al procuratore della Dda, Federico Cafiero De Raho e al padre comboniano, Giuseppe Zanotelli. “In tanti sanno chi è Augusto il fotografo, a partire dai magistrati che seguirono i caso, i vertici dei carabinieri della provincia di Caserta – afferma ancora l’avvocato Marrese – ma lo Stato sembra ignorarlo. Ho scritto una prima lettera alla Commissione Centrale che definisce e applica le misure di protezione presso il Ministero dell’Interno, il 6 febbraio del 2012. Ho sollecitato una risposta tre mesi dopo, ma niente. E così il 16 gennaio scorso ho presentato un atto di citazione al tribunale di Napoli contro il Ministero dell’Interno per giudizio che comincerà il prossimo 13 maggio. Di Meo e la sua famiglia non possono essere abbandonati così”.

 

Raffaele Sardo, giornalista – free lance – Blog “Dallapartedellevittime”

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