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Pisanu, trattativa: “Fu tacita e parziale intesa tra parti in conflitto”

di Norma Ferrara il . Istituzioni, Sicilia

«Ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro e quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano. Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti: i carabinieri del Ros volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano invece svilupparle fino a piegare lo Stato». Così Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione parlamentare antimafia, fotografa nella relazione presentata oggi a Palazzo San Macuto il biennio stragista di Cosa nostra e la lunga scia di fatti e reati che vennero commessi  prima e dopo le stragi del 1992-93.  Un documento di oltre 70 pagine attraversa vent’anni di storia del nostro Paese che vanno dall’attentato all’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone, alle stragi di Capaci e via D’Amelio,  a quelle di Roma, Firenze e Milano, per finire ai procedimenti giudiziari in corso. Al centro della relazione le due “trattative”: la prima partita come una ipotesi investigativa e gestita dal colonnello dei Ros, Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno attraverso l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, “il più politico dei mafiosi e il più mafioso dei politici” e la seconda sul 41 bis definita da Pisanu come una  “tacita e parziale intesa tra le parti in conflitto”. C’era  una guerra al cuore dello Stato in quegli anni, condotta con modalità simili a quella della strategia della tensione degli anni ’70  e le parti dialogarono, studiarono l’avversario, provarono a cercare accordi, tentarono mosse per arginare i danni. Poi, dopo il 1994, le bombe cessarono. Secondo Pisanu i vertici istituzionali dello Stato non furono direttamente coinvolti e la mafia si fermò perché perse quella partita. Tanti i dubbi e le domande senza risposta sollevate nella relazione. «Noi conosciamo le ragioni e le rivendicazioni che spinsero “Cosa nostra” a progettare e ad eseguire le stragi – scrive nelle conclusioni, Pisanu – ma è logico dubitare che agì e pensò da sola. Non ha esitato a collaborare con altre entità criminali, economiche, politiche e sociali». Molti gli interrogativi anche in merito al ruolo, ancora da definire, di politici di primo piano come l’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino e il politico siciliano, Calogero Mannino.

La strategia vendicativa di “cosa nostra”. Ancora una volta un documento ufficiale, se mai ce ne fosse stato bisogno, conferma l’esistenza della “trattativa” del dialogo fra la mafia e lo Stato, durante il biennio stragista 1992 – ’93 nel nostro Paese. Si tratta della relazione della Commissione parlamentare antimafia presentata oggi dal presidente Giuseppe Pisanu a Palazzo San Macuto. Secondo Pisanu, che in un documento di oltre 70 pagine, ricostruisce gli ultimi vent’anni di inchieste, documenti e processi su trattativa Stato – mafia, Cosa nostra per volontà di Toto Riina, scelse  le stragi per “vendicarsi”dell’attività antimafia messa a segno dai  magistrati Giovanni  Falcone e Paolo Borsellino, per vendicarsi degli esiti nefasti (per i boss) del maxi processo e per sferrare un attacco ai politici, soprattutto attraverso gli omicidi Lima e Salvo,che sembravano essere venuti meno agli accordi. Ma su questi attentati, troppi gli interrogativi senza risposta e Pisanu scrive: «Su Capaci resta da chiedersi perché mai l’assassinio di Giovanni Falcone che, secondo l’iniziale programma di “cosa nostra”, si sarebbe dovuto compiere agevolmente a Roma, dove il magistrato si muoveva con maggiore libertà, sia stato invece realizzato in Sicilia con modalità molto più clamorose, ma anche molto più complesse e rischiose per l’organizzazione criminale». E altri interrogativi ben più ampi sull’accelerazione e le dinamiche della strage di via D’Amelio. A lungo si è discusso della possibilità che il magistrato Paolo Borsellino fosse venuto a conoscenza della “trattativa” (la prima) in corso fra i Ros e Cosa nostra e che si fosse “messo di traverso”. Su questo punto Pisanu scrive « allora possiamo ipotizzare che qualcuno, finora sconosciuto, abbia fatto il nome del valoroso giudice, magari soltanto per imperdonabile leggerezza» indicandolo come un “muro” un ostacolo alla trattativa in corso.  Poi quando le bombe portarono lo Stato ad una risposta dura e immediata, soprattutto dopo la strage di via D’Amelio, il 19 luglio del 1992, Cosa nostra continuò a giocare la sua partita su due fronti: quello degli attentati e quello del dialogo (prima un “papello”, poi una versione al ribasso, cosi definita “il contropapello”).

La prima trattativa.  «Questa attività investigativa avrebbe innescato una sorta di trattativa – scrive Pisanu – definita così dallo stesso Mori che ovviamente comportava un rapporto di do ut des». «È lecito, pertanto, ritenere che i due ufficiali dell’Arma dovettero accettare un vero e proprio negoziato – continua Pisanu –  i cui termini avrebbero dovuto essere i seguenti: dalla parte mafiosa, la cessazione degli omicidi e delle stragi e, dalla parte istituzionale, la garanzia di interventi favorevoli a “cosa nostra” o comunque di una attenuazione dell’attività repressiva dello Stato». «Per ammissione degli stessi Mori e De Donno, gli incontri con Ciancimino, si sarebbero protratti fino al 18 ottobre 1992, giorno in cui, dovendo “stringere la trattativa” divenne chiaro, che i due interlocutori avevano ben poco o nulla da offrire alla controparte – . E’ probabile che l’avvio del “dialogo”, abbia indotto “cosa nostra” a ritenere che vi fosse, comunque, una disponibilità di settori delle istituzioni a scendere a patti: tant’è che Riina confidava a Brusca che “… quelli … si … erano fatti sotto …”.».  Per questa prima trattativa si cerca una copertura politica ma  i politici coinvolti ricordano alcuni dettagli (per un caso di “amnesia collettiva”) solo dopo le deposizioni del figlio di Ciancimino, Massimo, quasi diciotto anni dopo le stragi. Si tratta di funzionari, di ministri ma anche di politici che erano al governo come all’opposizione, negli anni ’90. E sostanzialmente negano di aver sostenuto questa linea investigativa. In alcuni casi affermano di non averne mai sentito parlare.

La seconda trattativa o “tacita intesa”. Cosa nostra, lo scrive anche Pisanu, pensa che dietro l’attività dei Ros ci siano i politici. Ciancimino chiede in quel periodo di essere ascoltato da Luciano Violante, all’epoca presidente della Commissione antimafia. Cerca appoggi trasversali, perché sa che Cosa nostra non scherza, la posta in gioco è alta, serve raggiungere gli obiettivi e ottenere garanzie per se stesso. Violante fa sapere di poterlo convocare in una normale udienza della Commissione antimafia ma questa non si terrà perché nel frattempo Vito Ciancimino verrà arrestato a causa di una richiesta di passaporto giudicata dalla procura di Palermo come un “potenziale tentativo di fuga” del sindaco, all’epoca condannato per mafia in primo grado. Il cosiddetto “contropapello” una sorta di trattativa al ribasso fatta da Cosa nostra allo Stato, secondo la relazione era – «opera di Vito Ciancimino e chiedeva, in particolare, l’abolizione della legge sui collaboratori di giustizia, la chiusura dei penitenziari dell’Asinara e di Pianosa, l’abolizione dell’ergastolo e quella del regime penitenziario del “carcere duro». Questo sarebbe quindi l’oggetto della seconda trattativa per la quale si cercò, secondo Pisanu, una “copertura politica” attraverso diverse strade.  La relazione analizza nei dettagli gli avvicendamenti repentini ai vertici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, le modalità con le quali vennero scelti i nuovi responsabili, il cambiamento di orientamento sul carcere duro per i mafiosi, salvo poi segnalare nelle conclusioni alla relazione che «la cessazione delle stragi in cambio della revoca del 41bis a 23 mafiosi siciliani di media caratura criminale – evidenzia – una tale sproporzione da mettere in dubbio la stessa ragion d’essere della trattativa. Restano tuttavia alcune coincidenze tra la tempistica delle stragi e le revoche del 41 bis che lasciano intravedere un procedere parallelo, una qualche tacita intesa di uomini dello Stato con “cosa nostra”». Per Pisanu questa seconda trattativa sarebbe stata piuttosto una  «tacita e parziale intesa tra parti in conflitto». La revoca dei 41 bis, dunque, fu una scelta dell’allora guardasigilli Conso, sebbene in palese contrasto con le modalità con le quali venivano prese queste decisioni per legge ( dovevano passare attraverso una istruttoria, della quale non c’è traccia, come segnala la relazione).

Cosa nostra ha perso (?). Una nota della Dia, scritti anonimi arrivati alla Commissione antimafia e rintracciati negli archivi, stragi annunciate, avvertimenti come il proiettile nel giardino di Boboli a Firenze. Tutti segnali di una “strategia della tensione” in corso –  secondo l’antimafia –  che scrive: «Nel loro insieme questi documenti, talvolta incerti e di provenienza anonima, trasmettono la convinzione che nell’agosto del 1993 fossero noti, sia il movente e gli esecutori delle stragi, sia le aspettative di “cosa nostra” in ordine alle cosiddette “trattative”Se ne sarebbe, infatti, lamentato col suo capo scorta Nicola Cristella, dicendo che  “non potevano costringere un figlio di un carabiniere a scendere a patti con i mafiosi”. Secondo lo stesso Cristella, testimone piuttosto incerto e contraddittorio, tra coloro che premevano vie era anche l’on. Mannino». L’analisi del  ruolo di politici come Nicola Mancino e Calogero Mannino, al momento coinvolti nelle prime fasi del procedimento “sulla trattativa” in corso a Palermo, il copioso carteggio dei servizi segreti (lo stesso consegnato all’autorità giudiziaria) che non aggiunge molto alle notizie già emerse in questi anni e le indagini delle tre procure di Firenze, Palermo e Caltanissetta chiudono la relazione di Pisanu e lasciano aperti numerosi interrogativi, che è possibile rintracciare nella stessa relazione. «Vertici istituzionali e politici del tempo, dal presidente della Repubblica Scalfaro ai presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato  di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa. Penso – scrive Pisanu –  che non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà a Costituzione e a Stato di diritto. Rimane tuttavia  – sottolinea il presidente il sospetto che, dopo l’uccisione dell’onorevole Lima, uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per indurre Cosa nostra a desistere dai suoi propositi in cambio di concessioni da parte dello Stato […] In particolare Calogero Mannino, ministro per il Mezzogiorno nella prima fase della trattativa (lasciò l’incarico nel giugno del 1992), avrebbe preso contatti al tal fine col Comandante del Ros, il generale Subranni». Ben due trattative si sarebbero risolte in un nulla di fatto per la mafia, ad ogni modo. «Cosa nostra… contestualmente si è inabissata nella società, nell’economia, nella politica e da allora non è più riemersa con la forza delle armi […]Per di più, in Sicilia e nel resto d’Italia è cresciuta una vasta opposizione sociale alla mafia, che ha trovato i suoi eroi in Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e che, col suo vivace associazionismo, le toglie l’ossigeno del consenso popolare. «Tutto questo non vuol dire che “cosa nostra” è finita, tutt’altro. Le sue armi tacciono – spiega –  ma essa è penetrata nelle fibre della realtà siciliana e lì continua ad agire in profondità distorcendo le regole dell’economia, le relazioni sociali e le decisioni politiche».

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