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Mafie in Basilicata, una sentenza conferma

Di redazione il . Basilicata

La famiglia dei basilischi “e’ un’associazione a delinquere di stampo mafioso” anche per i giudici d’Appello. Lo afferma una sentenza della Corte d’Appello di Potenza che, in sostanza, conferma quanto stabilito dal primo grado di giudizio. Delle 38 persone condannate nel primo grado di giudizio, i giudici d’Appello ne hanno confermate 36 mentre il totale degli anni di carcere inflitti ai basilischi, 242 anni in primo grado, ha subito uno sconto di circa 20 anni. Il presidente della Corte d’Appello di Potenza Vincenzo Autera ha confermato le condanne di primo grado per Giovanni Luigi Cosentino (21 anni di carcere), Santo Bevilacqua (3 anni), Mario Castellaneta (3 anni e 10 mesi), Tonino Cossidente (6 anni), Michele Danese (4 anni e 8 mesi), Giuseppe D’Elia (7 anni), Antonio De Paola (7 anni e 2 mesi), Vincenzo Di Cecca (4 anni e 6 mesi), Gennaro Durante (7 anni e 2 mesi), Angelo Greco (7 anni e 2 mesi), Giuseppe Lopatriello (7 anni e 6 mesi), Franco Mancino (8 anni), Riccardo Martucci (6 anni), Silvano Mingolla (7 anni), Antonio Mitidieri (6 anni), Francesco Pontiero (7 anni e 2 mesi), Saverio Riviezzi (10 anni e 10 mesi), Nazzareno Santarsiero (3 anni e 4 mesi), Antonio Santoro (7 anni), Egidio Santoro (6 anni), Nicola Sarli (5 anni), Cosimo Sasso (5 anni e 6 mesi), Salvatore Scarcia (7 anni e 2 mesi) e Carlo Troia (13 anni e 11 mesi). Altri imputati sono stati condannati per reati non associativi a pene inferiori. Assolti Angelo Chiefa ed Eugenio Pesce dall’accusa di associazione di stampo mafioso. Alcuni episodi di spaccio di droga sono stati dichiarati prescritti. Sconto di pena, per la collaborazione, a Cossidente: due anni e sei mesi di carcere in meno. 

In sostanza, comunque, la decisione di primo grado emessa nel 2008, regge. Gino Cosentino, invece, nonostante la collaborazione con la giustizia, si è visto confermare la condanna emessa in primo grado di 21 anni di carcere: è la pena più pesante inflitta dal Tribunale in primo grado e confermata dalla Corte d’appello. Lui stesso nel corso delle udienze aveva confessato di essere stato l’ideatore e il promotore della cosca, l’inventore del rito di affiliazione. Scrivono i giudici di Potenza nella sentenza di primo grado: “La famiglia dei basilischi sorse agli inizi del 1994, allorquando Giovanni Luigi Cosentino, soprannominato “faccia d’angelo”, un pregiudicato molto noto per le sue passate imprese criminose, all’interno delle carceri di Potenza e Matera iniziò ad avvicinare altri detenuti con l’intento di creare una organizzazione che, con l’avallo di alcune famiglie malavitose calabresi (e segnatamente quella dei Morabito, ndr), avrebbe dovuto riunire tutte le associazioni criminali che sino a quel momento avevano operato in Basilicata: proprio per questo il gruppo veniva denominato famiglia dei basilischi”.
 Cosentino è leader indiscusso del clan fino alla fine degli anni Novanta, quando gli investigatori scoprono che durante la detenzione degli esponenti dei clan storici, i loro affiliati allo sbando e senza una guida, si erano riuniti sotto un unico cartello. E’ a questo punto che qualcosa cambia nel panorama criminale della Basilicata. Le mafie “tradizionali”, per i loro affari in terra lucana, non possono non tener conto della nuova famiglia che controlla il territorio. Per rapine, estorsioni, traffico d’armi e di droga, adesso si fa riferimento ai basilischi. Gli affari continuano indisturbati fino a quando una questione familiare rompe gli equilibri: la compagna di Cosentino viene accusata dal boss di averlo tradito mentre lui era detenuto. Dal carcere parte l’ordine per “regolare i conti”. L’incarico viene affidato a Michele Danese, cognato del boss. All’uomo era stato imposto di sfregiare in volto sua sorella ma Danese non porta a compimento l’incarico e pagherà in prima persona anche lo “sgarro” commesso da sua sorella. Due uomini armati di lupara, a volto coperto, entrano nella sua officina meccanica e gli sparano. L’uomo miracolosamente sopravvive ma per la famiglia dei basilischi sarà la fine. Danese uscito dall’ospedale va dritto dritto in Procura, consegna il rito di affiliazione e svela l’esistenza della cosca. Le parti mancanti dal racconto di Danese sono state poi ricostruite con le dichiarazioni di un altro esponente di spicco del clan, Antonio Cossidente, che a distanza di 13 anni dal primo pentito della famiglia, fornisce ai magistrati i tasselli che mancavano nel romanzo criminale della Basilicata. Cossidente racconta di aver organizzato l’agguato nei confronti di Danese e partendo da quell’episodio ricostruisce il curriculum criminale della famiglia lucana affiliata alla ‘ndrangheta calabrese, fino alla defenestrazione del capo storico e ideatore del clan, Gino Cosentino. Con l’uscita di scena del capo clan, la storia criminale dei basilischi cambia nuovamente. Il processo, però, si ferma agli anni Novanta. 
Le condanne emesse in primo grado il 21 dicembre del 2007 (dopo 36 giorni di camera di consiglio) erano state complessivamente 27 (su 38 imputati) accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Così motivavano la sentenza i giudici di primo grado del maxiprocesso al primo sodalizio criminale di Basilicata: “Deve ritenersi pienamente dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio che in Basilicata tra il 1994 e il 2000 si costituì ed operò una consorteria criminale di tipo mafioso denominata basilischi”. I giudici del Tribunale di Potenza condannarono l’ex boss Giovanni Luigi Cosentino e i suoi “sodali” Saverio Riviezzi, Tonino Cossidente (ora pentito) e Carlo Troia, a un totale di 242 anni di carcere e tre mesi di reclusione: il pm antimafia, Vincenzo Montemurro, aveva chiesto condanne per un totale di 780 anni. Gli imputati però erano 83. Alcuni nel frattempo sono deceduti. Molti altri sono stati assolti in primo grado, alla fine di un dibattimento di oltre 200 udienze. Il processo d’Appello ha avuto tempi più rapidi nonostante le tante le dichiarazioni spontanee rilasciate dagli imputati, soprattutto dopo l’esame dei collaboratori di giustizia. Gli imputati hanno sostenuto la loro innocenza fino all’ultima udienza davanti ai giudici e poi nelle arringhe difensive dei propri legali. Ma l’impianto dell’accusa non è stato scalfito: i basilischi, la “Quinta mafia”, erano “una cosca mafiosa legata alla ’ndrangheta calabrese e riconosciuta dalle altre mafie tradizionali”.

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